Impegno a non deliberare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e giudizio di meritevolezza degli interessi

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La prassi ha dimostrato come sia piuttosto comune la stipula di clausole contrattuali in forza delle quali i soci si impegnano a non deliberare l’azione di responsabilità, ai sensi dell’art. 2393 c.c. (azione sociale di responsabilità), nei confronti degli amministratori. Assai frequentemente si tratta di clausole rientranti nel corpo di contratti atipici come, ad esempio, determinati patti parasociali.

Tali clausole presentano, in realtà, rilevanti criticità.

Propriamente, sono molteplici i profili che rendono invalide simili pattuizioni e nel prosieguo si cercherà, seppur sinteticamente, di evidenziarne i principali tratti caratteristici alla luce dell’interpretazione datane da parte della giurisprudenza maggioritaria.

Già a partire dai primi anni 90, la giurisprudenza ha rilevato la nullità, per conflitto di interessi e per contrarietà alle finalità inderogabilmente imposte dalla legge, del patto con il quale i soci si sono impegnati a non esperire l’azione di responsabilità nei confronti di un socio ed ex amministratore uscente dalla società (Cassazione n. 7030 del 27 luglio 1994) precisando, successivamente, che l’impegno a non deliberare l’azione di responsabilità non solo è da considerarsi nullo, ma se è collegato ad un contratto di vendita delle azioni rende nullo anche quest’ultimo (Cassazione n. 10869 del 1 ottobre 1999).

Nei successivi anni, tale indirizzo si è consolidato, tanto che la Suprema Corte ha espressamente disposto che il patto parasociale, il quale impegna i soci a votare in assemblea contro l’eventuale proposta di intraprendere l’azione di responsabilità sociale nei confronti degli amministratori, non è contrario all’ordine pubblico, ma agli artt. 2392 e 2393 c.c., i quali, costituiscono norme imperative inderogabili, con conseguente nullità del patto, in quanto avente oggetto (la prestazione inerente alla non votazione dell’azione di responsabilità) o motivi comuni illeciti (perché la clausola mira a far prevalere l’interesse di singoli soci che, per regolamentare i propri rapporti, si sono accordati a detrimento dell’interesse generale della società al promovimento della detta azione, dal cui esito positivo avrebbe potuto ricavare benefici economici) (Cassazione n. 10215 del 28 aprile 2010).

Sul punto, si ritiene doveroso, in particolare, ricordare due recenti arresti del Tribunale di Milano: il primo del 20 dicembre 2013 (procedimento R.G.N. 42294-1/2013) e il secondo del 13 febbraio 2014 (procedimento R.G.N. 71154/2009).

La prima decisione ripercorre, sostanzialmente, le conclusioni portate nelle citate pronunce della Cassazione sotto il profilo del conflitto di interessi e del contrasto con norme imperative inderogabili (si vedano i richiami a Cassazione n. 7030 del 27 luglio 1994 e a Cassazione n. 10215 del 28 aprile 2010 espressamente citati nel dispositivo).

Il secondo, fonda invece l’invalidità della pattuizione de quo in ragione del disposto di cui all’art. 1322 c.c. Il Tribunale, in particolare, rileva come l’ordinamento non possa, in nessun caso, riconoscere come meritevoli di tutela ex art. 1322 c.c. negozi atipici espressamente volti ad eludere disposizioni inderogabili di legge e, come tali, da reputarsi viziati già ab origine secondo la disciplina comune dei contratti. Deve dunque escludersi che il patto negoziale sottoscritto in sede di compravendita delle quote, in mancanza delle condizioni inderogabili previste dall’art. 2393 c.c., possa esplicare alcun effetto e inibire l’esercizio o la prosecuzione della azione sociale di responsabilità.

Ebbene, seppure la conclusione comune alla quale sono giunti i giudici di merito e di legittimità sia allo stato da considerarsi pacifica, ovvero la nullità, pare singolare l’ultimo citato arresto del Tribunale di Milano del 13 febbraio 2014 il quale ha conferito particolare rilevanza al profilo inerente all’assenza di meritevolezza degli interessi ai sensi dell’art. 1322 c.c.

Sul punto, in ragione di molteplici autorevoli argomentazioni svolte da parte della più attenta dottrina, pare in realtà possano essere sollevate perplessità circa l’opportunità del ricorso al giudizio di meritevolezza degli interessi quando l’ordinamento giuridico offre, in realtà, altre possibili opzioni al fine di pervenire alla declaratoria di nullità di un negozio.

Illustre dottrina ha in particolare rilevato che quello che rende meritevole di tutela (e cioè coercibile in giudizio) un determinato negozio è un canone di giudizio interno all’equilibrio fra i contrapposti interessi privati. Patti non illeciti come primo limite alla volontà delle parti, patti non del tutto irrilevanti come secondo limite, così da non ridurre il concetto di causa ad una qualificazione ovvia se non superflua della volontà dei contraenti. Il giudizio di meritevolezza tende così a coincidere con un giudizio circa la serietà dell’accordo (U. BRECCIA, Causa, in Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, Vol. 8, Torino, 1999, p. 89 ss). Così, deve ritenersi meritevole di tutela un negozio rispetto al quale è seria la volontà delle parti di vincolarsi contrattualmente mentre non è meritevole di tutela un negozio rispetto al quale non è seria la volontà delle parti di vincolarsi, con la precisazione per cui si intende serio l’intento non scherzoso, non di pura facciata. In altri termini, il giudice, dopo aver verificato che la causa di un determinato negozio non è illecita, non dovrebbe spingersi al di là di una verifica circa la serietà del vincolo negoziale.

Ancora, è stato espressamente sottolineato che il giudizio di meritevolezza degli interessi non costituisce più il gioco del giurista dotato di propensione moralistica e di temperamento politico, attratto da un articolo così generico, tanto più indeterminato quanto storicamente privo di una spiegazione qualsiasi; il legislatore non ha infatti affidato ad esso compiti di prevenzione sociali fra i più arditi incaricandolo di bloccare la contrattazione privata che si ponga in contrasto con esigenze sociali economiche e meta-economiche. In tal guisa, è infatti radicalmente da escludersi che il giudizio di meritevolezza possa essere invocato per paralizzare il contratto volto a impedire il pieno sviluppo della persona umana o a rifiutare l’impiego responsabile alla creazione di vincoli produttivi o a realizzare interessi non degni di riconoscimento alla stregua della considerazione sociale o lesivi dei valori costituzionali (R. SACCO – G. DE NOVA, Il contratto, Torino, 2004, p. 693).

Ebbene, alla luce delle considerazioni sopra svolte, pare potersi affermare come risulti ormai consolidata la corrente giurisprudenziale che depone circa la radicale nullità di quelle pattuizioni disciplinanti il non esperimento dell’azione di responsabilità ai sensi dell’art. 2393 c.c.; allo stesso tempo, risulta di sicuro interesse verificare quali sviluppi caratterizzeranno le decisioni dei giudici in merito a tali fattispecie, in particolare, con riferimento al giudizio di meritevolezza degli interessi ex art. 1322 c.c.

Botti Alessandro

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