Il terrorismo islamico ed internazionale

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INDICE:
– 1. IL CONCETTO DI TERRORISMO
– 2. LE FIGURE DI TERRORISMO PIU’ DIFFUSE A LIVELLO INTERNAZIONALE: IL TERRORISMO ISLAMICO.
– 3. LE RADICI STORICHE DEL TERRORISMO ISLAMICO
– 4. LE RADICI RELIGIOSE
– 5. IL TERRORISMO ISLAMICO
– 5.1. Il terrorismo islamico in Italia
– 5.2. I FATTORI DI RISCHIO PER L’ITALIA
– 5.3. IL TERRORISMO PALESTINESE
– 6. AL QAEDA
– 7. IL TERRORISMO FONDAMENTALISTA.
– 7.1. IL RADICALISMO IN EGITTO.
– 7.2. IL FONDAMENTALISMO ALGERINO.
– 8. LA “GUERRA SANTA”.
– 9. LE STRAGI DELL’11 SETTEMBRE E DELL’11 MARZO.
– 10. LA REAZIONE DELL’OCCIDENTE E GLI STRUMENTI NELL’AZIONE DI CONTRASTO DEL FENOMENO.
– 11. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
 
 
 
 
 
1. IL CONCETTO DI TERRORISMO.
Per un’esauriente trattazione dell’argomento in esame è necessario individuare preliminarmente una definizione del termine “terrorismo”.
In proposito occorre rilevare come ormai da decenni si sia sviluppato, sia a livello nazionale che internazionale, un ampio dibattito ancora in fermento, che ha coinvolto non solo la dottrina internazionalistica, ma anche i legislatori delle singole nazioni, tra cui l’Italia, nel tentativo di individuare una definizione condivisa da tutti gli Stati aderenti all’ONU.
La necessità di individuare una definizione di terrorismo ha anche una rilevanza di natura pratica, come ha ben dimostrato una recente e discussa vicenda giudiziaria che si è svolta a Milano, sulla quale avremo modo di soffermarci nel prosieguo del presente paragrafo, in cui proprio dal concetto di terrorismo fatto proprio dall’organo giudicante (nella fattispecie il G.U.P. del Tribunale penale di Milano è derivata l’assoluzione per alcuni cittadini nord africani).
La questione della definizione di terrorismo, che fino ad oggi non ha trovato una soluzione definitiva, è tornato recentemente di attualità in seguito al dilagare del terrorismo islamico anche all’interno dei Paesi occidentali e alla individuazione in Italia di persone e gruppi organizzati, collegati ad organizzazioni, operanti all’estero, responsabili di crimini di natura terroristica[1].
Individuare una definizione precisa ed esaustiva del concetto è impresa ardua, in quanto il fenomeno può realizzarsi secondo modalità estremamente diverse, in relazione sia alle ideologie che lo sottendono, ai territori in cui vengono realizzate le azioni terroristiche ed alle diverse questioni geopolitiche che attualmente caratterizzano la situazione internazionale.
Non è semplice cogliere quali siano gli elementi che consentono di qualificare un determinato episodio come un atto di terrorismo.
La stessa percezione del fenomeno è non solo soggettiva (un atto può essere percepito da alcuni come tipica espressione di terrorismo, da altri come semplice forma di resistenza o protesta di natura politica), ma è anche mutevole a seconda del periodo storico e del contesto socio-politico al quale si fa riferimento, dei diversi orientamenti politici esistenti.
Nel nostro ordinamento si è sviluppata una nozione di terrorismo di natura per così dire “sociologica”, secondo cui l’atto terroristico sarebbe un atto violento e intenzionale, rivolto contro un soggetto che ricopra una carica istituzionale o contro soggetti indeterminati, finalizzato a diffondere il terrore nella collettività e determinato da ragioni politiche, purché non destinato all’eversione dell’ordinamento democratico, vale a dire al sovvertimento delle istituzioni democratiche di uno Stato.
A livello internazionale, sono numerosi gli strumenti elaborati al fine di contrastare il fenomeno del terrorismo, nell’ambito dei quali un ruolo centrale è rivestito dalla Convenzione europea per la repressione del terrorismo, adottata a Stasburgo in seno al Consiglio d’Europa il 27 gennaio 1977, la quale può essere considerata come un primo approccio sistematico al problema[2].
La predetta Convenzione, in particolare, ha imposto agli Stati aderenti (tra cui l’Italia) di adottare discipline volte ad agevolare i procedimenti di estradizione.
Ma occorre ricordare anche i numerosi accordi che hanno consentito di disporre misure per il congelamento dei beni e delle risorse finanziarie di taluni soggetti od organizzazioni (accordo del Consiglio dell’UE 2001/931/PESC e regolamento 2002/881/CE), di ravvicinare le diverse legislazioni nazionali in materia di reati terroristici (decisione quadro 2002/475/GAI sulla lotta contro il terrorismo, adottata dal Consiglio dell’UE nell’ambito dell’attività di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale).
E’ pur vero che già alcuni anni prima, gli Stati nazionali avevano iniziato a cooperare tra loro per individuare degli strumenti di lotta al terrorismo, ma nella maggior parte dei casi si era trattato di convenzioni che avevano ad oggetto singole questioni (occupandosi ciascun accordo di singole fattispecie di reato) e che, quindi, avevano affrontato il problema in modo settoriale ed inadeguato.
Ebbene, nonostante gli accordi internazionali intervenuti in materia di terrorismo e la emanazione della predetta decisione quadro dell’Unione europea sulla lotta contro il terrorismo , non esiste una definizione unica e indiscussa di terrorismo internazionale, ma piuttosto una serie di “parametri di valutazione” che consentono di accertare di volta in volta la sussistenza della finalità di terrorismo internazionale[3].
Se si vuole, comunque, individuare una definizione in senso lato di “terrorismo”, questo può essere inteso come l’insieme di tutte le azioni compiute nell’ambito di lotte armate che non siano intese semplicemente a colpire le forze armate avversarie, ma a diffondere piuttosto la paura, il senso di disagio ed insicurezza fra le popolazioni civili.
In tal senso l’attività terroristica è stata sempre usata sin dai tempi più antichi al fine di indebolire la resistenza e la volontà dei popoli nemici.
A titolo di esempio si possono ricordare per il passato le orde barbariche Unne guidate da Attila, che uccidevano tutti gli abitanti dei centri urbani e dei villaggi che gli Unni incontravano sul loro cammino e tentavano di opporre resistenza.
Le conquiste dei territori da parte degli Unni furono ottenute in gran parte senza alcun combattimento, perchè molte città atterrite dall’arrivo delle popolazioni barbariche preferivano sottomettersi senza tentare alcuna resistenza.
Per passare a tempi più recenti, nella Seconda Guerra Mondiale l’arma aerea è stata ampiamente usata al fine di terrorizzare le popolazioni e fiaccarne, così, la resistenza, si pensi ai bombardamenti tedeschi sull’Inghilterra e su Londra, in particolare, che non venivano utilizzati per colpire postazioni o insediamenti militari ma unicamente al fine di spargere il terrore tra la popolazione civile ed indurre la Gran Bretagna alla resa.
In seguito furono gli Americani che usarono i bombardamenti detti “a tappeto” per eliminare le ultime forme di resistenza tedesca, si pensi al caso di Dresda, città priva di interesse militare che fu completamente distrutta con la morte di almeno 200.000 persone.
Ma si possono ricordare anche i più terrificanti bombardamenti atomici delle città giapponesi di Tokio e Nagasaki.
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.
In genere, però, nell’attività di studio e ricerca si tende a restringere il concetto di terrorismo, riferendolo all’azione di gruppi irregolari che non sono inquadrati nell’ambito di strutture militari (ossia privi di uniformi e insegne che li rendano riconoscibili), i quali svolgono azioni violente giungendo anche ad uccidere civili inermi.
In genere gli studiosi considerano come due gli elementi costantemente presenti nel terrorismo (così come generalmente inteso): la politicità del fenomeno e il ricorso sistematico alla violenza organizzata.
Il terrorismo è, dunque e in primo luogo, un fatto politico, alla base del quale vi è sempre una motivazione di carattere ideologico.
Esso si caratterizza, inoltre, per una condotta particolarmente violenta, tale da indurre la paura in un intero corpo sociale, creando al tempo stesso una notevole sfiducia verso le istituzioni.
Il terrorismo può, dunque, in conclusione essere definito come un metodo di lotta fondato sul sistematico ricorso alla violenza[4], con particolari connotazioni oggettive e soggettive [5].
Dal primo punto di vista esso si distingue per la modalità della condotta, la qualità della persona offesa l’entità del danno e per il suo perdurante effetto nell’ambito dell’assetto sociale. Esso è, infatti, caratterizzato dalla capacità di colpire chiunque appartenga ad una data categoria sociale ed in qualunque momento, secondo logiche spesso imprevedibili ed anche a volte incomprensibili, per lo meno in un primo momento[6].
Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, invece, si contraddistingue per la motivazione ideologica che lo sorregge.
Alla base, dunque, vi è non tanto la politica, quanto l’ideologia, potendosi avere manifestazioni terroristiche che non si inseriscono in alcuna strategia politica, ma comunque sempre ispirate da una motivazione ideologica[7].
Per quanto poi, più specificatamente, riguarda la condotta, è possibile osservare che l’efferatezza e l’uso di tecniche particolarmente sanguinose possono accompagnare qualunque altro tipo di reato, non necessariamente di stampo terroristico.
Tali elementi, tuttavia, assumono in quest’ultimo caso una connotazione particolare, trattandosi spesso di manifestazioni simboliche, realizzate più per impressionare l’opinione pubblica, piuttosto che per ottenere risultati concreti.
Quest’ultimo aspetto consente di comprendere quale l’importanza rivesta l’uso della stampa e dei mezzi di comunicazione di massa per le organizzazioni terroristiche.
I terroristi, infatti, fin dall’inizio, cercano di dare la massima risonanza possibile alle loro gesta, dando luogo così a quella che è stata definita come “eterogenesi dei fini”: l’atto è compiuto non tanto per quello che realizza in sé, quanto per fa si che gli organi di informazione ne parlino ed che esso si trasformi in uno strumento di propaganda ideologia[8]. Si pensi all’importanza che la Tv araba AL Jazeera riveste per le azioni dei terroristi islamici in Arabia Saudita, Iraq ed Egitto.
Proprio tale aspetto costituisce un’altra importante differenza tra il terrorista ed il delinquente comune. Quest’ultimo, infatti, solitamente non ha alcun interesse a divulgare il proprio atto criminale nell’opinione pubblica (anzi rifugge da qualsiasi forma di clamore e pubblicità al fine di nascondere i propri misfatti e non essere identificato), al contrario del terrorista per il quale la pubblicizzazione delle azioni compiute ha importanza determinante, in quanto l’atto compiuto altrimenti rimarrebbe totalmente sterile.
A questo punto è necessario distinguere il terrorismo dalla c.d. attività di “resistenza”. Si tratta di una distinzione di notevole importanza, se solo si pensa alla recente vicenda che ha avuto visto come protagonisti alcuni cittadini di origine algerina, i quali erano rimasti coinvolti in un’indagine per il reato di terrorismo internazionale, che sono stati prosciolti avendo il giudice per le indagini preliminari ritenuto che l’attività svolta (di favoreggiamento nel reclutamento di persone da inviare in Iraq per compiere attentati contro le forze armate occidentali presenti) dovesse essere considerata quale attività di resistenza nei confronti di forze armate straniere occupanti il territorio di uno Stato.[9]
Il termine “Resistenza” fu coniato durante la II Guerra Mondiale per indicare una parte dei cittadini che avevano intrapreso una forma di “resistenza” diretta esclusivamente contro l’esercito (nazista) occupante ricorrendo a vere e proprie azioni di guerra.
I resistenti in Italia assunsero la denominazione di “partigiani”.
La differenza fra terrorismo e resistenza verrebbe a consistere nel fatto che la seconda è diretta contro soldati militarmente inquadrati, mentre il primo interessa prevalentemente i civili.
I “terroristi” in genere contestano tale differenza equiparando nelle loro azioni i civili ai militari e affermando di essere resistenti, martiri o rivoluzionari.
In conclusione, sulla base di quanto considerato, tenendo conto del principio di legalità che pervade l’ambito delle sanzioni penali espresso nell’art. 25 della Costituzione, il giudice penale italiano –chiamato ad applicare fattispecie del tutto nuove, come quella prevista dall’art. 270 bis del codice penale- non potrà semplicemente riferirsi ad una nozione che si richiami ad un (ormai inesistente) senso comune: solo con l’individuazione di una definizione certa ed inequivoca che ogni giudice nazionale sia tenuto ad applicare potrà escludersi l’incostituzionalità (per contrasto con l’art. 25 Cost.) delle norme incriminatrici che utilizzano il concetto di ‘ terrorismo ‘.
In proposito, stante la già rilevata assenza nella legislazione italiana di disposizioni che ne forniscano una definizione, lo strumento principale per l’interprete non potrà che essere costituito dalle numerose fonti di diritto internazionale, in varia misura rilevanti nell’ordinamento interno, che si occupano del fenomeno del terrorismo internazionale[10].
 
 
 
2. LE FIGURE DI TERRORISMO PIU’ DIFFUSE A LIVELLO INTERNAZIONALE: IL TERRORISMO ISLAMICO.
Al giorno d’oggi esistono diverse forme di attività terroristica, anche se solo quello di matrice islamica sembra destare maggiore preoccupazione a livello mondiale, provocando interventi volti ad arginarlo anche tramite vaste operazioni militari in paesi che vengono considerati potenziali basi di sostegno o di addestramento dell’attività terroristica. Sono evidenti gli interventi nei Iraq ed Afganistan.
Al riguardo è opportuno osservare, però, che sebbene il terrorismo si massicciamente presente in molti paesi dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia avendo assunto ormai un vero e proprio carattere endemico (si pensi all’attività dei gruppi ribelli e separatisti del “Chapas” in Honduras, alle F.A.R.C. in Colombia, etc.), tale fenomeno, però, non richiama più l’attenzione dei paesi occidentali, né dei loro organi di stampa.
L’attività sovversiva viene confusa, piuttosto, con la guerriglia rivoluzionaria e le infinite e molteplici lotte etniche e tribali dei paesi in cui si sviluppano.
Ma il terrorismo politico non manca anche in Europa: basti pensare al terrorismo basco o a quello italiano delle Brigate Rosse all’attività dei gruppi anarchici sempre più diffusa.
Si tratta, però, di fenomeni locali, che hanno una scarsa incidenza sugli equilibri e gli scenari mondiali.
Il terrorismo islamico fino a qualche anno poteva essere annoverato tra queste categorie, essendo le attività dei gruppi coinvolti limitato ad uno specifico contesto nazionale, si pensi all’attività della jihad islamica in Palestina, al terrorismo integralista algerino.
Tanto è vero che anche i mass media dedicavano ad esso spazi sempre più ridotti.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 negli USA costituiscono il punto di svolta.
L’Occidente ed il mondo intero si sono sentiti minacciati e soprattutto è nata la preoccupazione più o meno fondata che possano essere usate armi di sterminio di massa (nucleari, chimiche o batteriologiche).
Si tratta di una realtà nuova.
Fino ad oggi le diverse tipologie di terrorismo esistenti non erano considerate in grado di mettere in serio pericolo l’incolumità di una moltitudine di persone.
Il terrorismo basco è opera di una sparuta minoranza del popolo basco che costituisce già una minoranza della popolazione spagnola: colpisce dolorosamente, ma non ha alcun pretesa di espandersi, di minacciare altre nazioni, si esclude che possa usare armi di sterminio di massa.
In Italia, le Brigate Rosse, (che non costituiscono l’unica espressione del terrorismo politico sul territorio del nostro paese) anche nel momento di maggiore espansione erano costituite da gruppi di attivisti che restavano isolati, non solo nell’ambito della nazione, ma anche nella stessa parte della sinistra estrema alla quale pure dichiaravano di fare riferimento.
Hanno colpito numerose personalità considerate obbiettivo politico, ma mai hanno compiuto stragi di massa, né tanto meno avrebbero mai usato armi di sterminio di massa. La stessa strage della stazione centrale di Bologna del 1981, posta in essere da terroristi dell’estrema destra non è stata ancora esattamente e compiutamente delineata sotto il profilo dello scopo e delle complicità che hanno cercato di tutelare i responsabili (i quali peraltro non si sono mai dichiarati responsabili dell’episodio).
Il terrorismo islamico (dopo l’11 settembre) assume, invece, connotati assolutamente diversi. Supera i confini delle singole nazioni e del mondo islamico stesso, intendendo colpire i paesi occidentali anche nel loro territorio.
Ciò che preoccupa è soprattutto la possibilità che tali gruppi di fanatici possano avere ampio seguito tra le popolazioni, soprattutto tra quelle dei paesi arabi mosse da una fede religiosa assoluta e totalizzante.
Sotto il profilo dell’evoluzione storica, soprattutto a partire dagli anni ’70 si assiste ad un incremento delle attività terroristiche di carattere internazionale. Accanto a quelle tradizionali -attentati contro pubblici edifici o alla vita di personalità politiche-, solo eventualmente dotate di rilevanza internazionale, in ragione della fuga all’estero del reo o della diversa cittadinanza tra soggetto attivo e passivo, si sono diffuse nuove forme di terrorismo, dotate sempre più di un rilievo internazionale.
Pensiamo, in particolare, al dirottamento di aeromobili o di navi (uno per tutti il caso della nave da crociera italiana “Achille Lauro”), o ancora, al sequestro di agenti diplomatici (sequestro dei diplomatici americani presso l’ambasciata USA in Iran).
In tutti questi casi risultano lesi non solo gli interessi degli Stati concretamente colpiti, quali lo Stato dell’autore dell’aggressione o dei membri dell’equipaggio, ad esempio, ma gli interessi dell’intera Comunità internazionale alla sicurezza del trasporto aereo e marittimo e al buon funzionamento delle relazioni diplomatiche[11].
 
 
 
3. LE RADICI STORICHE DEL TERRORISMO ISLAMICO.
Al fine di comprendere il fenomeno è necessario una ricostruzione storica almeno per sommi capi dell’evoluzione del radicalismo islamico, che ha trovato la sua più evidente espressione nel terrorismo[12].
Il radicalismo islamico nasce soprattutto dalla constatazione, da parte delle popolazioni del “dar al islam” (il territorio dell’islam), delle condizione di debolezza ed inferiorità sotto il profilo economico e del benessere in genere rispetto al mondo occidentale cristiano.
La civiltà occidentale e quella islamica per secoli si sono affrontate con alterne vicende, si pensi all’epopea delle Crociate ed al lungo dominio dell’Impero ottomano.
Solo nel XVII secolo i musulmani iniziarono a subire le prime pesanti sconfitte ad opera degli eserciti europei.
La situazione è andata aggravandosi con il tempo, di pari passo con l’affermazione del colonialismo, fino all’avvento di Napoleone Bonaparte che con le sue truppe riuscì a sconfiggere nel loro stesso territorio i Mammelucchi che dominavano l’Egitto da più di 500 anni,.
L’espansione europea nel mondo islamico si è protratta per tutto l’Ottocento, fino al raggiungimento di una fera e propria egemonia su quasi tutto il “dar al islam”.
Ciò provocò fenomeni di rivolta generale tra i quali si segnala la vicenda del “Madhi” nel Sudan.
Il Madhi, al quale si ispirano ancora oggi i moderni fondamentalisti, propugnò il ritorno a un integralismo islamico sognando di liberare tutto il “dar al islam” dagli europei. Raccolse ampie forze nel Sudan ove conquistò Kartum.
Fino a che ne 1898 un corpo di spedizione formato da soldati inglesi ed egiziani invase il Sudan, sconfiggendo le truppe islamiche.
Questa breve sintesi consente di comprendere come nel corso dei secoli in gran parte del mondo islamico sia maturato un sentimento di profonda umiliazione e unito ad un altrettanto forte desiderio di riscatto e di rivalsa nei confronti dell’occidente.
Anche la recente storia moderna ha contribuito ad acuire tale senso di disagio, si pensi alla nascita dello Stato di Israele, avvertita come una ferita profonda ed un affronto da vendicare; alle due guerre in Iraq perse senza poter opporre alcuna forma di resistenza.
Sempre per quanto concerne, in particolare, i tempi più vicini importanza centrale riveste l’invasione sovietica dell’Afghanistan, nel 1979, come fattore che, per la prima volta, ha catalizzato la risposta jihadista[13].
Il territorio dell’islam, secondo la visione jihadista, veniva in quel momento minacciato dall’esercito russo al punto da sollecitare molte energie nella difesa della causa dei fratelli afghani.
Protagonisti della lotta contro l’esercito furono i pakistani che hanno sempre considerato l’Afghanistan parte integrante del proprio territori e che potevano contare su un numero considerevole di militanti provenienti dalle scuole coraniche.
E’ questo il periodo in cui Osama bin Laden inizia ad affermarsi gestendo il flusso dei volontari e le notevoli risorse che giungono da varie parti del Medio Oriente, e segretamente anche dai paesi anglosassoni.
Nascono i primi campi di addestramento dei militanti jihadisti, provenienti dai territori più disparati (dal Sudan al nord africa, etc.).
Nel 1989 i resistenti festeggiano il ritiro dell’esercito russo.
Il ritiro delle truppe sovietiche nel 1989, però, non risolve la crisi afghana, ma al contrario, dal febbraio 1989 all’aprile 1992, determina una guerra civile che oppone il regime del presidente Najibullah alle differenti fazioni della resistenza e agli eserciti dei così detti signori della guerra.
Molti dei volontari arabi che erano suddivisi nelle differenti fazioni afghane cessarono di combattere. Alcuni tornarono nei paesi di origine (divenendo spesso avanguardie delle organizzazioni islamiche locali); altri si recarono in europea ove tradizionalmente è alto il flusso dell’immigrazione e qui sviluppano attivo proselitismo all’interno delle loro comunità.
La maggior parte degli ex combattenti si rifugiarono nelle zone tribali presso la frontiera pakistano-aghana, aree che nel tempo sono divenute poderoso serbatoio di alimentazione dei gruppi islamici in lotta nei nuovi paesi ove si è instaurata la jihad (si pensi alla Bosnia, al Kosovo ed alla Cecenia, nonché alle altre ex Repubbliche sovietiche del Caucaso in cui è forte la presenza islamica).
Intanto, la guerra civile afgana porta nel 1996 alla vittoria dei talebani.
Nel 1997 nasce l’Emirato islamico di Afghanistan, guidato dal mullah Omar, con il cui regime è proprio Osama bin Laden a stabilire un rapporto privilegiato. L’Afghanistan per l’ideologia jihadista diviene un simbolo: la vittoria sulla seconda più grande potenza del mondo (tale era l’impero sovietico al momento della ritirata) è l’emblema del successo musulmano e delle grandi potenzialità che sono insite
nella solidarietà tra i fratelli musulmani.
Si tratta di un argomento importante, utile per comprendere il risorgere di certi fermenti in Afganistan nonostante la presenza massiccia delle truppe occidentali sotto l’egida dell’ONU.
Nel frattempo la guerra del Golfo, nel 1991, aveva portato sul territorio saudita numerosi basi e truppe occidentali in vicinanza dei luoghi santi dell’Islam, elemento che ha contribuito a favorire la radicalizzazione di molti combattenti jihadisti.
Ciò che gli integralisti rimproverano alla monarchia araba è, infatti, la collusione  con gli infedeli, ai quali hanno svenduto le ricchezze petrolifere ed aperto la penisola arabica.
Altri due conflitti, uno in Bosnia (tra il 1992 ed il 1995), e l’altro, in Cecenia, forniscono a migliaia di mujahidin altre occasioni di combattere.
La Bosnia, pur non essendo divenuta uno stato islamico, costituisce rifugio di molti jihadisti, costituendo base operativa per le azioni terroristiche verso i paesi europei.
La Cecenia, in lotta per l’indipendenza da Mosca, è ancora oggi scenario di guerra e di drammatici atti di terrorismo in cui i combattenti si sono inseriti con l’obiettivo di dare vita ad un vero e prioprio stato indipendente.
Bin Laden è considerato ancora oggi il principale ispiratore della strategia jihadista, avendo messo a disposizione della causa islamica la sua fortuna personale, le relazioni con il mondo economico e finanziario della penisola arabica che gli derivano dalle attività del suo gruppo familiare e le sue personali conoscenze del mondo occidentale.
L’autofinanziamento della rete costituisce una realtà al quale gli Stati occidentali hanno cercato di opporsi strenuamente con accordi ed intese internazionali, raggiunte anche in ambito ONU.
L’attacco dell’11.9.2001 alle Torri Gemelle di New York ed al Pentagono, come avremo modo di vedere in seguito, segna l’apice della strategia stragista.
La reazione statunitense, culminata nel bombardamento di Tora Bora e dei campi di addestramento dei mujaidin, determina la fuga di Bin Laden e dei suoi, la caduta del regime del mullah Omar e la perdita dell’Afghanistan come retroterra logistico ed addestrativo.
Il Pakistan è costretto ad una nuova politica nei confronti del terrorismo, mentre nell’Africa settentrionale e perfino nel Corno d’Africa si creano alleanze, sia pure non tutte di pari efficacia, per contrastare i terroristi islamici.
Nel frattempo la strategia di Al-Qaeda muta, l’organizzazione creata da Bin Laden si frantuma in gruppi composti da pochi individui, ma altamente pericolosi, che si spargono in diverse direzioni diverse.
E’ evidente l’abilità con cui la rete terroristica di Osama bin Laden è riuscita a riorganizzarsi, rinunciando a radicarsi in un territorio delimitato (come era avvenuto negli anni passati per l’Afghanistan ed il Sudan), frammentando la propria influenza in aree geografiche anche assai lontane tra loro e dimostrando la propria potenzialità offensiva in vari sanguinosi attentati perpetrati negli ultimi tempi in ogni parte del mondo: da Riyad a Casablanca, da Giacarta a Istambul ed a Madrid contro insediamenti occidentali ed ebraici.
Il livello di pericolosità di tale progetto dipende, fondamentalmente, dal grado di penetrazione del jihadismo in Europa.
Esso tende ad insediarsi soprattutto presso le periferie urbane dove più massiccia è la presenza dell’immigrazione musulmana.
 
 
 
4. LE RADICI RELIGIOSE
L’Islam non sembra comprendere la netta separazione che in occidente esiste fra politica e religione.
In occidente ormai da lungo tempo si è affermata una concezione laica della politica e dello stato, che distingue nettamente i fini dello Stato da quelli della Chiesa.
La prima enunciazione di tale concezione laica si ebbe nel XVIII secolo con il filosofo Locke il quale definì la Chiesa cristiana come una “associazione volontaria” che si occupa della salvezza delle anime, considerando lo Stato una “associazione necessaria” che deve realizzare condizioni di pace, benessere ed ordine per tutta la collettività.
Nel XIX e nel XX secolo nel pensiero occidentale lo Stato è venuto ad assumere funzioni di promozione sociale, di regolazione della ricchezza nazionale, di distribuzione del reddito.
L’attività dei governi è giudicata in termini di percentuale di PIL, di debito pubblico, di aumento della produzione nazionale…, senza che intervengano valutazioni sotto il profilo del rispetto del precetti cristiani.
La concezione laica dello Stato si è presentata nella nostra tradizione storica solo con il Rinascimento e ha stentato secoli per affermarsi.
Ma prima dell’avvento di tale concezione più illuminata dei rapporti Stato-Chiesa, per tutto il Medio Evo ha dominato incontrastato il principio enunciato già da S. Agostino della “Nulla auctoritas nisi a deo”, gli uomini al governo degli Stati sono meri rappresentanti di Dio, essi esercitano la giustizia da intendere come esplicazione della volontà divina.
Il sovrano deve assicurare la “giustizia” applicando la legge che proviene dal divino.
Il benessere, la salute, la sicurezza dei cittadini erano considerati aspetti del tutto secondari.
Nel mondo islamico non si registrano sostanziali differenze rispetto a tale concezione della autorità, anche se le forme di governo dei paesi musulmani si sono sempre distinte per un evidente e maggiore radicalismo, il quale connota ancor oggi le forme di governo dei principali stati islamici: Arabia Saudita, Iran, Egitto, Afganistan…
Le prescrizioni del Corano non vengono osservate e rispettate solo nell’ambito della vita religiosa di ogni musulmano, ma vengono applicate integralmente anche nell’ambito della attività di governo della cosa pubblica: per essere un buon sovrano o un buon governante occorre essere un musulmano osservante e rispettoso del Corano.
Si pensi all’Iran che costituisce un esempio fondamentale e conosciuto in tutto il mondo della concezione radicalista islamica.
Attualmente l’Iran costituisce l’unico nazione in cui la concezione fondamentalista giunta al potere alcuni decenni, incide e condiziona la vita politica e l’attività di governo dello stato. Le leggi, infatti, non sono frutto del libero dibattito democratico, come avviene nelle moderne democrazie parlamentari, ma vengono approvate da un consiglio di esperti coranici (teologi), in quanto ogni disposizione viene considerata legittima solo in quanto conforme alla legge divina.
Nel mondo musulmano il contatto sempre più stretto con gli occidentali ha posto a dura prova tutto quell’insieme di valori che si erano affermati da millenni e che erano rimasti immutati per secoli.
Nei paesi islamici politica e religione sono sempre stati strettamente connessi.
Come si è già avuto modo di osservare nel paragrafo precedente, le nazioni del “dar al islam”per secoli hanno avvertito il dominio e l’egemonia dell’Occidente.
Ciò consente di comprendere come la difesa dello Stato e della civiltà islamica sia sempre stata intesa come difesa della fede. Ogni combattente islamico è considerato un “martire” della fede che si immola per la gloria di Allah.
Il fondamentalista islamico si distingue per la sua chiusura, per l’assoluto distacco dai problemi del vivere quotidiano.
Egli non tiene in alcun conto di quali possano essere le conseguenze dei suoi atti, della possibilità che le proprie azioni violente coinvolgano civili innocenti (anche minori inermi), non considera i rapporti di forza e la realtà che lo circonda. La superiorità militare delle forze in campo non conta, la volontà di Dio è superiore: “Allah Akbar”, “Dio è grande”.
Gli islamici moderati, le elite culturali invece si sono rese conto della differenza che esiste in Occidente fra religione e politica.
Negli ultimi tempi, quindi, si è affermata nell’Islam una dura contrapposizione culturale ed anche politica e militare fra le due anime moderata e radicale del mondo musulmano, in cui il terrorismo islamico costituisce l’aspetto più appariscente e pericoloso.
Esaminando senza prevenzioni, la situazione che si è venuta a determinare ai nostri giorni l’Islam, può essere considerato certamente come una grande civiltà, con una propria cultura, un propria concezione dell’uomo e dell’universo che lo circonda ed in cui vive, una particolare visione della vita e della storia.
L’islam è stato correttamente osservato[14] costituisce una religione totalizzante, in cui il religioso, il politico, il sociale e l’economico sono una cosa sola, inscindibile, pianificata e regolata dal divino secondo quei principi universali e immutabili posti a limite dell’agire umano.
Da ciò deriva quel modello di governo che è alla base di ogni Stato “islamico”.
L’autorità politica è legittimata da Dio che è l’unico titolare della Sovranità.
L’Autorità è concepita esclusivamente come servizio. I poteri sono conferiti ai governanti solo per raggiungere e mantenere il benessere della società, della “Comunità dei veri Credenti”.
Lo Stato è l’apparato istituzionale attraverso il quale l’Autorità esercita i suoi Poteri.
Lo Stato è concepito eticamente come enunciatore, tutore e promotore dei valori divini che lo trascendono. Valori che non sono elaborati dagli uomini, ma derivano direttamente da Dio.
I regolamenti e le leggi adottate dallo Stato-autorità devono essre rispettati in quanto conformi ai principi religiosi individuati dai teologi.
L’Autorità statale non può sindacare la shari’ah, ma può soltanto applicarne i principi e difendere la fede, la comunità dei credenti e il territorio dell’Islam quando minacciati. Minaccia che può essere sia interna (lotta di fazioni interne contro l’autorità costituita), che esterna (invasione di paesi occidentali).
 
 
 
5. IL TERRORISMO ISLAMICO
Non è facile dare una definizione esaustiva di terrorismo islamico perchè questo assume aspetti e caratteristiche molto diverse.
Ciò connota il terrorismo islamico rispetto a tutte le altre figure di terrorismo è il profilo metodologico (ossia le modalità di agire) ed, in particolare, il ricorso sempre più frequente all’azione di terroristi suicidi.
Il combattente islamico porta la strage nell’ambito dei “nemici” facendosi saltare con l’esplosivo, secondo un vero e proprio rituale, nella prospettiva di raggiungere immediatamente il paradiso.
In Occidente viene denominato impropriamente “kamikaze”, il suicida, infatti, si considera un martire (“shaid” secondo la terminologia coranica), nel significato originale del termine greco marturos.
Martiri nel cristianesimo, tra l’altro, venivano definiti i “testimoni” della fede cioè coloro che avevano affrontato la morte per rendere testimonianza della loro fede, ma che avrebbero potuto salvarsi semplicemente rinnegandola.
Nell’ambito del Corano tuttavia si considerarono “testimoni” (shaid) quelli che morivano combattendo contro gli infedeli.
In tempi recenti si è cominciato a parlare di shaid al tempo della guerra fra Iran e Iraq, quando giovani iraniani (i pasdaran ossia i “guardiani della rivoluzione”) si cingevano il capo con un nastro sul quale erano scritti dei versi del corano ed avanzavano sui campi minati dove morivano facendo esplodere le mine, in modo da consentire all’esercito iraniano di avanzare sui varchi liberati.
Non si trattava, però, di terrorismo, ma più semplicemente di militari che si immolavano nell’ambito di una guerra regolare.
In seguito però il fenomeno è dilagato e trasformato, lo Shaid si lascia esplodere uccidendo indiscriminatamente tutti quelli che sono intorno a lui, considerati comunque nemici.
Spesso ci si interroga sul perché di tale atteggiamento del mondo islamico. 
E’prevalente l’opinione secondo la quale nel mondo islamico non sono state operate le riforme necessarie al fine di modernizzare le forme di stato esistenti, che sono per lo più ancora legate a forme superate di organizzazione e di civiltà.
Un aspetto non irrilevante è costituito dalle acerrime divisioni tra fazioni (sunniti e sciiti), tribù ed etnie in lotta eterna fra di loro, che hanno impedito l’affermazione di stati democratici e moderni.
E’ frequente, peraltro, la presenza nel mondo islamico di dittature e classi dirigenti assolutamente inadeguate ad affrontare le esigenze della collettività.
Dal punto di vista del fondamentalismo islamico, l’analisi della situazione interna dei vari Stati porta a conclusioni diametralmente opposte. La decadenza araba e musulmana è frutto dell’abbandono della tradizione coranica.
Solo il ritorno alla applicazione integrale della legge coranica (sharia) può fare rinascere l’Islam e la gloriosa civiltà islamica.
Il fondamentalismo islamico, sotto tale profilo, è contrario ad ogni forma di modernizzazione che proviene dall’occidentale, è doveroso anzi tornare alla tradizione islamica.
La rinascita islamica, secondo l’impostazione fondamentalista, passa attraverso il rigetto del pensiero occidentale. In tal questo senso, lo scopo del terrorismo islamico è quello di destabilizzare e rovesciare tutti i regimi arabi che più o meno esplicitamente prendono ispirazione dall’Occidente, come ad esempio l’Arabia Saudita, l’Egitto, l’Indonesia.
 
 
 
5.1. Il terrorismo islamico in Italia.
Le cronache degli ultimi anni testimoniano come numerosi siano stati gli aderenti ad organizzazioni terroristiche di matrice islamica condannati in Italia, per reati di associazione per delinquere (art. 416 c.p.) finalizzate al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, al traffico di documenti di identità false etc. e ad altri specifici reati.
Solo nel 2001 è stata introdotta la figura del reato di associazione per delinquere con finalità di terrorismo anche internazionale, inserendo nel codice penale il nuovo articolo 270 bis del Codice Penale.
In precedenza, il reato di associazione terroristica riguardava solo i gruppi che si proponevano finalità di sovversione o terrorismo in danno del solo ordinamento italiano.
I procedimenti penali pendenti e quelli già conclusi evidenziano come da tempo siano venute a installarsi sul territorio una rete di cellule islamiste che non sono strutturate rigidamente in un’unica organizzazione.
Si è venuta a delineare piuttosto una rete di cellule in contatto tra loro, che però non sembrano inquadrate in una struttura verticistica, facente capo ad Al-Qaida, come in genere si è portati a credere .
Lo stesso movimento jidahista, del resto, ha una struttura orizzontale, a rete, che aspira ad investire l’intera comunità islamica (umma islamiyya).
 
 
 
5.2. I FATTORI DI RISCHIO PER L’ITALIA
A seguito dei bombardamenti americani su vaste zone dell’Afghanistan, Osama bin Laden ed Al Qaeda, costretti ad abbandonare i territori in cui erano stanziati, hanno dato luogo ad un progetto dalla valenza fortemente evocativa, la costituzione di una sorta di “internazionale Islamica” operante sotto la sigla del “fronte Islamico Internazionale contro gli Ebrei e i Crociati”, di per sé in grado di rappresentare, come si è visto, fondamentale momento di composizione ed interscambio dei contributi provenienti dai vari gruppi terroristici.
Si è dato luogo, cioè, a una Jihad internazionale, all’insegna del perseguimento di obiettivi condivisi, innanzitutto quelli dell’attacco a persone ed interessi statunitensi, all’Occidente intero ed ai regimi musulmani ritenuti collusi o succubi degli Stati Uniti.
La perdita di precisi punti di riferimento etnici, nazionali o organizzativi ha comportato un diverso modello di struttura dei gruppi terroristici che oggi si presentano estremamente compositi, e come tali, quindi, estremamente difficili da individuare.
Ciò che unisce i combattenti di diversa provenienza è oggi prevalentemente di natura ideologica. Si parla in proposito di jihadismo militante, ossia di una comune militanza che è sorta nei campi di addestramento bosniaci, afgani ed iracheni.
Nelle inchieste più recenti, infatti, emerge la coesistenza nella medesima struttura di soggetti tunisini, marocchini, algerini, egiziani, somali, curdi etc., le cui attività sono direttamente o indirettamente riconducibili al modello proposto da Al Qaeda.
In questo quadro, l’Italia, per la sua collocazione geografica (che la rende importante crocevia internazionale delle reti estremistiche islamiche) e per la sua presenza nei principali teatri di guerra del mondo islamico (Iraq e Afganistan) è divenuto un obiettivo privilegiato non solo dei gruppi terroristici jihadisti, ma anche dell’azione di singoli esaltati che, pur non appartenendo ad una specifica organizzazione, decidono di realizzare atti terroristici.
Si è accertato che l’Italia ha costituito base di smistamento e di passaggio per i mujahidin attivi nei Balcani, nonché centro di reclutamento per i volontari da inviare in Iraq per combattere l’invasore statunitense.
Nel nuovo scenario internazionale apertosi a seguito degli attentati dell’11settembre, l’Italia anche a causa del suo intervento in Afganistan ed Iraq è divenuta un potenziale obiettivo di azioni terroristiche.
Queste sono le ragioni che hanno determinato l’attacco terroristico del 12.11.2003 contro il comando delle forze italiane di stanza a Nasiriyah (Iraq), il sequestro di altri quattro altri cittadini italiani (di cui uno, Fabrizio Quattrocchi, è stato barbaramente assassinato), l’omicidio di Enzo Baldoni ed il sequestro di Simona Pari e Simona Torretta.
La consapevolezza di questa situazione di rischio, pressoché comune a tutti i paesi europei, non può che spingere alla intensificazione di ogni sforzo di conoscenza del terrorismo islamico, nelle sue varie forme di manifestazione: premessa essenziale per una efficace azione di contrasto.
 
 
 
5.3. IL TERRORISMO PALESTINESE
La lotta che dura ormai da oltre mezzo secolo fra palestinesi e israeliani è anteriore al terrorismo islamico che si è manifestato soltanto in tempi molto recenti.
In passato, soprattutto negli anni ’70, le organizzazioni palestinesi fecero uso del terrorismo soprattutto nel dirottamento di aerei di varie nazionalità.
Tuttavia non vi era alcuna motivazione religiosa islamica, anzi spesso gli autori erano arabi-cristiani.
Negli anni ‘90 si è affermata la c.d. intifada che si limitava al lancio di pietre contro l’esercito israeliano, successivamente la Palestina ha assistito al dilagare del fondamentalismo islamico e degli attentati suicidi.
I palestinesi ed, in particolare, l’organizzazione di “Hamas” rifiutano, però, ogni legame con l’organizzazione terroristica di Al Qaeda, considerandosi come “resistenti” che si oppongono all’invasore israeliano.
Gli attentatori palestinesi, al di là della ideologia che pervade le loro azioni, colpiscono indiscriminatamente uccidendo inermi cittadini israeliani e non solo militari.
Pertanto, in virtù della definizione che illustrata all’inizio (nel primo paragrafo) possono senz’altro essere considerati veri e propri terroristi (si tratta ovviamente solo della constatazione di un fenomeno e non di un giudizio di valore).
Se uguali possono essere modalità e rituali e motivazioni religiose tra le azioni dei “martiri” palestinesi e quelle di Al Qaeda le finalità appaiono sicuramente diverse: i palestinesi intendono solo costringere gli israeliani ad abbandonare la Palestina.
Al Qaeda, invece, intende condurre un’attacco globale e sistematico nei confronti dell’intera civiltà occidentale.
 
 
 
6. AL-QAEDA
Più che costituire una effettiva organizzazione è divenuta in questi ultimi tempi una sorta di internazionale del crimine.
I suoi vertici sono riusciti ad organizzare in Afganistan una serie di campi di addestramento militare, ha contribuito finanziariamente ad organizzare i gruppi terroristici in diverse parti del mondo, realizzando una fitta rete di contatti tra di essi.
Al Qaeda, in definitiva, ha fatto da collante ad una serie infinita di forme estremistiche islamiche sorte autonomamente nei vari Stati.
Tale organizzazione rappresenta la massima espressione del fondamentalismo islamico, che gli occidentali percepiscono come minaccia globale, come pericolo incombente dal quale occorre difendersi.
Il terrorismo islamico, però, come si è già avuto modo di osservare non può essere considerato come una vera e propria organizzazione di natura internazionale, esso piuttosto si articola in una costellazione di organizzazioni, anche di limitate dimensioni, che spesso agiscono in modo del tutto incontrollato e disarticolato, ossia al di fuori di qualsiasi collegamento tra di loro.
Proprio tale natura anarchica e disarticolata delle organizzazioni fondamentaliste rende notevolmente difficile una efficace attività di indagine e di contrasto da parte delle forze di polizia e di intelligence.
In questo senso il marchio Al Qaeda può essere considerato una vera e propria azienda per la promozione della guerra santa, un centro di servizi che non assume però una forma piramidale-verticistica. Del resto Al Qaeda significa “la base”, dal nome che fu dato al primo campo di addestramento creato in Afganistan per addestrare i giovani mujahidin a combattere l’esercito di occcupazione russo.
 
 
 
7. IL TERRORISMO FONDAMENTALISTA.
Si tratta di un fenomeno che in genere viene identificato con l’attività di Al Qaeda e dei gruppi più oltranzisti in Iraq, Afganistan, Algeria ed Palestina.
Il terrorismo fondamentalista riveste una natura piuttosto complessa che ha avuto la sua massima espressione negli attentati dell’11 settembre negli U.S.A. e dell’11 marzo a Madrid.
Tale forma di terrorismo ha come scopo quello di imporre l’ideologia fondamentalista cancellando i valori ed i principi di libertà e democrazia, che tanto faticosamente si sono affermati (o meglio si stanno per affermare) in alcuni Stati islamici.
Spesso, però, tali finalità non sono nemmeno dichiarate apertamente: gli attentatori fanno esplodere bombe compiono stragi in Turchia, in Arabia, in Algeria, in Indonesia senza avanzare richieste, senza fare poi alcuna rivendicazione.
Per questo motivo è difficile comprendere quale possa essere la strategia, gli obiettivi immediati e quali azioni potranno essere compiute nel futuro.
C’è un solo modo per interpretare tali azioni: quello di intendere la lotta del fondamentalismo come attacco contro gli infedeli, identificati negli occidentali in generale e nei cittadini statunitensi in particolare.
Si tratta di una vera e propria lotta di religione, una categorizzazione del problema in termini religiosi ai quali il pensiero occidentale, impostato oramai da secoli su un orizzonte laico, non riesce a comprendere.
Mentre secondo il pensiero occidentale lo Stato ha la funzione di assicurare i servizi essenziali per assicurare la pacifica convivenza dei cittadini (difesa esterna, ordine pubblico, assistenza sanitaria, formazione scolastica…), per il fondamentalismo islamico la funzione dello Stato, come si è gia avuto modo di osservare, riveste natura meramente etica, esso è innanzitutto il difensore ed il depositario della fede.
Ma ciò che colpisce maggiormente è la condivisione delle azioni poste in essere dai fondamentalisti da una gran parte della popolazione locale. Per questo motivo l’estremismo islamico non può essere considerato come un fatto marginale, quasi fisiologico in determinate realtà.
Le azioni terroristiche si esplicano sia che l’obiettivo si trovi nel Paese sia che questo si trovi all’estero.
Nella attuale strategia della destabilizzazione, il terrorismo è venuto a costituire uno strumento tattico al quale s fa sempre più largo ricorso.
Non esistono più zone della terra immuni da possibili attacchi, ogni area può essere base di impiego, le stragi dell’11 settembre e dell’11 marzo costituiscono un esempio illuminante in proposito.
L’incredibile afflusso di nuove fonti di ricchezza illegale, e l’attività di addestramento alla guerriglia (e al terrorismo) svolta in Afghanistan hanno consentito l’ingresso a livello internazionale dei martiri islamici disposti a battersi in nome dell’ideologia islamica.
Si tratta di piccoli gruppi difficili da controllare, la cui mobilità ne rende difficile l’individuazione e l’arresto dopo il misfatto.
Sono presenti in Egitto, dove hanno largamente fornito quadri alle fasce militanti della Associazione dei Fratelli Musulmani, al-Jihad e la Jama’ah al-Islamiyyah.
 
 
 
7.1. IL RADICALISMO IN EGITTO.
Le strategie del radicalismo egiziano non sono cambiate rispetto al passato: i Fratelli Musulmani continuano a perseguire lo scopo del rovesciamento del regime di Mubarak, accusato di apostasia e di tradimento, e si prefiggono la rifondazione dello stato egiziano su basi islamiche.
L’obiettivo viene perseguito attraverso una capillare opera di penetrazione, propaganda e reclutamento di tutte le fasce della società, in particolare modo di quelle oggi escluse dai vertici del potere. L’opposizione più moderata agisce attraverso strumenti legittimi, quali le stesse istituzioni democratiche del Paese (assemblea del Popolo, associazioni sindacali, associazioni studentesche, municipalità, moschee, ecc.).
I gruppi militanti, viceversa, sostengono l’immediata caduta del regime con il ricorso a forme di lotta armata e azioni terroristiche; rifiutano ogni possibile trasformazione graduale della società egiziana o di dialogo; la loro base dottrinale è quella classica.
Gli obiettivi degli oppositori radicali del regime egiziano sono la sua caduta immediata, con conseguente purificazione di tutti quei settori della società contaminati e contrari all’Islam “vero” (comunità copte, ambienti religiosi filo-governativi, giornalisti, musulmani non osservanti soprattutto fra le professioni, ecc.):
Restano una costante di questo fondamentalismo: l’ostilità nei confronti dell’Occidente e di Israele, considerata come longa manus dell’imperialismo occidentale ed americano.
Coerentemente con le impostazioni ideologico-dottrinali ne consegue una strategia della violenza, fisica e psicologica, una strategia del terrore, che ha come obiettivi più immediati l’assassinio del Presidente stesso e dei suoi Consiglieri più fidati e vicini, l’uccisione dei membri delle Forze Armate e dei Servizi di Sicurezza, la distruzione di infrastrutture economiche e governative (per minare la stabilità economica dello Stato) e, soprattutto a quest’ultimo fine, forme sempre più violente di attacchi contro i turisti stranieri volte a destabilizzazione una delle maggiori fonti di introiti per la nazione, si pensi ai recenti drammatici attentati nella penisola del Sinai ed a Sharm el Sheikh.
Una nuova tattica è quella di colpire strutture turistiche e i turisti stessi (verosimilmente per indebolire l’economia del Paese, fortemente sostenuta dalle entrate dal turismo, e per colpire l’Occidente stesso – indirettamente – in una delle sue versioni più decadenti).
Altro obiettivo di questi gruppi sono gli scrittori, gli intellettuali, gli insegnanti, i giornalisti… e quanti a loro sembrano opporsi all’Islam radicale.
Un’altra espressione di questo radicalismo è costituita da un irrigidimento dei costumi in senso rigorosamente coranico (velo per la donna, abiti castigati, barba per gli uomini, niente alcolici, ecc.), si tratta più che altro di fatti simbolici di una mentalità estremamente rigida e conservatrice, castigatrice di quelle manifestazioni imitate dal costume occidentale considerate a loro volta simbolo di decadenza e corruzione.
 
 
 
7.2. IL FONDAMENTALISMO ALGERINO.
Non dissimile da quello egiziano è il fondamentalismo algerino, dove il Fronte Islamico della Salvezza (FIS) ha coagulato attorno a sé vaste fasce della popolazione, sia fra le masse rurali e dei diseredati sia fra quegli “esclusi” dal potere, perlopiù appartenenti alle professioni (medici, architetti, ingegneri, matematici, ecc.).
Ponendosi come alternativo alla attuale leadership, ne denuncia apertamente il fallimento politico, economico e sociale. Ma, per quanto riguarda l’Algeria in particolare, non vanno sottovalutati i particolarismi etnico-culturali, in particolare l’eterna frattura fra elemento berbero ed elemento arabo (esempio della Giordania).
 
 
 
8. LA “GUERRA SANTA”.
La storia non ha conosciuto solo il Gihad mussulmano esistono anche diverse guerre ispirate a motivi religiosi.
Comunemente si ritiene che la religione e la guerra siano termini antitetici, che la guerra sia rifiutata dai religiosi.
Ma tale netta separazione non è sempre esistita.
I Cristiani in passato hanno combattuto feroci lotte per la difesa della fede (si pensi alle guerre crociate) ed hanno imposto con la violenza delle armi la loro fede in interi continenti (Asia ed America).
Si possono ricordare le tragiche lotte fra cattolici e protestanti che hanno insanguinato l’Europa fino a pochi decenni fa ( si pensi all’Irlanda del Nord).
Le stragi compiute nel “nome di Dio” purtroppo affondano le loro radici in un passato remoto, per questo si può dire non costituiscono una esclusiva dell’Islam.
Esistono dei principi ispiratori validi per tutte le “guerre sante”, una sorta di minimo comun denominatore che verrà immediatamente illustrato.
Innanzitutto un carattere comune in tutti i combattenti, è quello di (credere di) seguire la volontà divina, di rincorrere una ricompensa eterna.
I Crociati non temevano la morte, così come oggi i kamikaze islamici non esitano a farsi esplodere, i pasdaran iraniani passavano cantando sui campi minati iraqeni, per liberare la strada all’esercito.
Il credente, a differenza del laico, non valuta le effettive forze in campo, non valuta gli avvenimenti nella loro realtà, è in qualche modo impermeabile all’esperienza, pensa che il proprio Dio onnipotente gli darà la vittoria.
Gli attentatori dell’11 settembre, non hanno valutato le conseguenze dei loro atti che hanno finito per sollecitare la vendetta del potente Occidente, la riprovazione generale, l’isolamento.
Allo stesso modo i Talebani non hanno valutato le loro effettive forze, sicuri che Allah non li avrebbe abbandonati e in pochi mesi hanno perso il controllo del paese.
Un altro aspetto che caratterizza la “guerra santa” o meglio il terrorismo di matrice islamica è la imprevedibilità delle azioni terrostiche.
Gli estremisti islamici elaborano i loro progetti per lungo tempo ed agiscono a prescindere (almeno in apparenza) da precisi schemi e da una programmazione che consenta alle forze di sicurezza di approntare efficaci sistemi di prevenzione e difesa, anche se in questo campo negli ultimi tempi sono stati fatti notevoli progressi.
Si pensi agli attentati alla stazione ferroviaria di Atocha in Spagna, alla metropolitana di Londra, agli estemporanei attacchi terrostici che si susseguono in Egitto ed in Indonesia.
Infine occorre considerare la spietatezza che connota ogni guerra di religione.
Il nemico è un miscredente, un nemico di Dio, che va distrutto fino ad ottenere la sua completa conversione.
Così nascono le stragi e i massacri indiscriminati degli eretici.
 
 
 
9. LE STRAGI DELL’11 SETTEMBRE E DELL’11 MARZO.
La maggior parte degli attentati avviene in paesi musulmani, l’attacco nei paesi occidentali costituisce un fenomeno relativamente recente, ma dall’alto valore simbolico.
Con gli attacchi dell’11 settembre gli attentatori hanno inteso dimostrare la debolezza del sistema occidentale, che poteva subire perdite in quella che è stata considerata da sempre una roccaforte inespugnabile: gli Stati Uniti d’America.
Secoli di sconfitte e le continue umiliazioni subite sembravano dimenticate.
All’annuncio degli attentati dell’11 settembre le reazioni popolari nei paesi islamici furono sorprendenti, almeno secondo il pensiero occidentale.
Migliaia di palestinesi scesero nelle vie per festeggiare, dall’Indonesia all’Egitto il fondamentalismo è esploso fronteggiato a fatica dai governi.
Anche in Occidente ed in Italia era difficile trovare islamici che condannassero esplicitamente ed in modo fermo gli attentati rifugiandosi in un atteggiamento ambiguo.
All’intervento americano in Afganistan, folle enormi in Pakistan scesero in piazza a favore di Bin Laden, fronteggiate da soldati con armi in pugno.
Ciò senza dimenticare che un numero non indifferente di musulmani nati e vissuti in Occidente sono partiti alla volta dell’Iraq per lottare contro gli invasori americani e inglesi.
Fino all’11 marzo 2004, gli esperti e gli osservatori internazionali, pressoché concordemente e nonostante le minacce e gli anatemi provenienti da numerosi esponenti di rilievo delle principali organizzazioni terroristiche di matrice islamica, consideravano l’Europa una sorta di base logistica, utilizzata, cioè, per attività di proselitismo ad ampio raggio (specie tra le masse di immigrati clandestini), per organizzare l’invio nelle zone di guerra di militanti muniti di documenti falsi di identità e per raccogliere mezzi e denaro (anche attraverso attività illecite) da spedire ai combattenti per sostenerne e finanziarne le attività.
Ma la strage di Madrid dell’11 marzo ha obbligato tutti ad un repentino cambiamento di opinione che ha spinto le forze di sicurezza a dotarsi di nuovi ed aggiornati strumenti di conoscenza, analisi e contrasto del fenomeno terroristico internazionale.
 
 
10. LA REAZIONE DELL’OCCIDENTE E GLI STRUMENTI NELL’AZIONE DI CONTRASTO DEL FENOMENO.
A questo punto occorre chiedersi se esiste effettivamente un pericolo grave per l’occidente.
Il progetto degli estremisti è chiaro: incitare gli islamici a seguire il loro esempio.
Certo è che la vulnerabilità delle economie e della strutture dei paesi è direttamente proporzionale al grado di sviluppo raggiunto.
E’ chiaro come si possono svolgere continue azioni di combattimento in paesi come l’Iraq e l’Afganistan ottenendo risultati modesti, mentre è sufficiente un attacco terroristico ad una stazione della metropolitana, anche con poche vittime, per causare conseguenze disastrose.
Il motore fondamentale dell’economia dei paesi sviluppati, infatti, è costituito dalla fiducia, dalla pacificità dalla convivenza, dalla stabilità del paese, per questo il dilagare del terrorismo avrebbe conseguenze infinitamente più gravi di qualsiasi crisi economica o energetica.
Sotto il profilo delle possibili forme di protezione contro gli attacchi terroristici è difficile individuare ed approntare efficaci difese passive dagli attentati, infatti, non è possibile proteggere tutti gli obbiettivi.
Occorre poi considerare che milioni di islamici vivono in Occidente, e molti di essi sono ormai completamente assimilati ed indistinguibili rispetto agli altri cittadini.
Si pensi ai recenti attentati di Londra i cui protagonisti erano nati addirittura in Gran Bretagna.
Esistono poi altri elementi su cui occorre soffermarsi per comprendere le potenzialità del terrorismo islamico.
La diffusione della conoscenze tecniche rende relativamente agevole la costruzione delle cosi dette armi di distruzione di massa, si pensi all’uso di una bomba atomica “sporca” in una grande città dell’occidente.
Tutto l’Occidente condanna senza remore il terrorismo islamico, ma si divide in due correnti sulle modalità con cui combatterlo: una parte potremmo dire pacifista e una interventista.
L’orientamento “pacifista” ripudia lo strumento della guerra e quindi ogni intervento militare, ritenendo che occorre lottare con gli strumenti democratici, quali l’attività diplomatica e di persuasione svolta con la collaborazione dell’ONU.
A parte le questioni di principio, tale orientamento ritiene che ogni azione militare alimenterebbe altre espressioni del terrorismo, iniziando una spirale perversa e incontrollabile.
Ritiene poi in generale che le operazioni militari hanno scopi diversi da quelli dichiarati di combattere il terrorismo (controllo delle fonti energetiche, predominio politico ecc.).
I paesi anglosassoni all’indomani dei fatti dell’11 settembre hanno chiaramente e coscientemente scelto l’opzione militare ed interventista.
Gli USA, in particolare, hanno interpretato l’11 settembre come un attacco all’America simile a quello di Pearl Harbour, ritenendo di essere di fronte ad una vera e propria nuova guerra (mondiale) dichiarata e iniziata dal terrorismo islamico.
Si tratta di una guerra, anche se di genere diversa da quelle precedenti, ma pur sempre di una guerra globale. Gli Usa non ritengono che sia possibile combattere il terrorismo con mezzi comuni democratici, perchè questo ha origini in paesi diversi dai quali riceve costante aiuto.
Per sconfiggere il fondamentalismo è necessario affrontarlo nei paesi islamici che lo sostengono (e fanno parte del c.d. “asse del male”).
Pertanto, occorre sostenere i paesi islamici moderati contrari al fondamentalismo e abbattere tutti i governi che lo proteggono.
In questo ambito si colloca l’intervento in Afganistan.
I Talebani e Al Qaeda hanno proclamato una resistenza ad oltranza; in effetti dopo qualche scontro veramente accanito si sono dileguati e le fazioni filo americane si sono presto insediate presso la capitale Kabul, senza troppe difficoltà, anche se episodi di guerriglia contro le forze della coalizione non sono mai cessati.
Soprattutto negli ultimi tempi, si sta registrando una recrudescenza degli attacchi contro gli eserciti in missione di pace, in concomitanza con gli attacchi in Iraq, il che ha fatto pensare che tali attacchi fossero oramai espressione di vera e propria regia internazionale da parte di Al Qaeda.  
Con l’intervento in Afganistan si è voluto dimostrare che in nessun paese sarà più tollerata la nascita e l’affermazione di governi fondamentalisti, che qualsiasi governo che mostri di non combattere con energia e risolutezza il terrorismo fondamentalista rischia di essere rovesciato dalle forze militari occidentali.
Ma l’uso della forza non può costituire l’unico strumento di contrasto del fenomeno, fondamentale importanza riveste, infatti, la cooperazione internazionale tra gli Stati e le rispettive istituzioni, che ha già portato a concreti risultati nel campo della lotta al terrorismo, sia sotto il profilo della prevenzione, che sotto quello della individuazione dei responsabili delle stragi.
Indispensabile sotto tale profilo è la creazione di una rete giudiziaria europea che consenta un rapido scambio di informazioni e un coordinamento rapido ed efficiente delle indagini sull’attività dei gruppi terroristici, che sempre più spesso superano i ristretti ambiti nazionali (le indagini a seguito delle stragi dell’11 settembre e dell’11 marzo costituiscono un esempio illuminante in proposito).
Occorre poi che siano intensificati gli sforzi affinché i governi si impegnino per individuare una definizione comune dell’atto terroristico e del gruppo terroristico: esistono, infatti, ancora persistenti difficoltà connesse all’inquadramento giuridico ed alle definizioni delle attività riconducibili ai cosiddetti “movimenti di liberazione”, che determinano ancora oggi forti ostacoli alla collaborazione tra Stati per quanto concerne lo scambio di informazioni.
Sul fronte interno è necessario dotare le forze di polizia e di intelligence di strumenti tecnologici adeguati a combattere il fenomeno.
In ogni caso, la drammaticità degli eventi che i mezzi di informazione consegnano ogni giorno ad una comunità internazionale sempre più attonita non possono farci dimenticare che la lotta al terrorismo deve comunque essere condotta nel pieno ed assoluto rispetto dei diritti umani fondamentali, al fine di non tradire lo spirito di libertà e di rispetto per la persona che ormai da secoli è considerato alla base della cultura e della civiltà occidentale.
 
 
 
11. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Gli attentati dell’11 settembre hanno determinato una reazione tale da compromettere seriamente la prospettiva egemonica di Al Qaeda e del fondamentalismo islamico in genere.
L’intervento degli U.S.A. in Iraq, al contrario di quello in Afganistan, ha ricevuto la disapprovazione di una larga parte degli Stati e dell’opinione pubblica, soprattutto perchè, a differenza dell’Afganistan , non si vedeva alcun nesso fra terrorismo e il regime, pure esecrabile, di Saddam Hussein.
Esso però rispondeva, secondo gli Stati Uniti, agli stessi parametri della guerra globale: abbattere un governo che poteva fornire armi di sterminio di massa ai terroristi.
Le guerre preventive sono illecite al punto di vista dei principi del diritto internazionale, ma sono efficaci dal punto di vista strategico.
D’altronde non si potrà mai sapere cosa sarebbe successo se gli U.S.A. non avessero scelto l’opzione militare, si può pensare che ci sarebbe stato meno terrorismo o che il terrorismo sarebbe dilagato.
Secondo i canoni della metodologia storica si possono mettere in relazione i fatti “effettivamente avvenuti” con altri fatti anche essi “effettivamente avvenuti” e non fatti avvenuti (come l’invasione dell’Iraq con la caduta del regime di Saddam Hussein) con ipotesi circa il futuro di quel paese se non vi fosse stato l’intervento militare.
Il fondamentalismo, presente in Iran, fortunatamente fino ad oggi non si è affermato in altri paesi, anche se sono sempre più numerosi i segnali sempre più forti di una sua pericolosa presenza, ovunque esso è combattuto con mezzi legali e con mezzi violenti, in occidente come in tutti i paesi islamici.
Ma mentre è possibile prevedere quali potrebbero essere le azioni dei laici, perchè essi sono in grado di valutare le conseguenze dei propri atti, non è facile prevedere, invece, (come abbiamo già avuto modo di osservare) i comportamenti dei fondamentalisti religiosi.
La storia, specialmente quella recente induce ad interrogarsi sull’efficacia delle guerre “preventive”, se queste insomma possano contribuire a rendere più sicure le nostre società, ovvero contribuiscano piuttosto ad alimentare il terrorismo internazionale.
È un interrogativo aperto al quale solo una seria ricerca ed un’approfondita riflessione possono rispondere, al fine di individuare le scelte più opportune e necessarie per contrastare il terrorismo dei nostri giorni[15].
Ad ogni modo si impone la prosecuzione di un dialogo con le forze più moderate del mondo islamico. Con gli esponenti del terrorismo non può esserci – da parte dell’Europa – né dialogo né tolleranza.
Quanto i Paesi islamici moderati chiedono oggi all’Europa, in nome di una sicurezza comune, è di assumere un ruolo più definito, più incisivo, distinto dalla azione politica degli Stati Uniti.
Preso atto che gli Stati Uniti sono oggi l’unica incontrastata superpotenza militare, all’Europa si chiede di colmare il vuoto di potere lasciato dall’URSS con una presenza che sia di ordine e collaborazione al tempo stesso. Si chiedono cioè quegli interventi in materia economica e culturale ritenuti ormai indispensabili per una certa stabilità interna.
Questo ruolo deve avvenire attraverso il rispetto reciproco e il dialogo, attraverso accordi bilaterali o nel contesto di organismi internazionali.
Obiettivo prioritario è un’azione culturale che miri a rivalutare ed enfatizzare agli occhi della popolazione tutta i momenti di intesa, collaborazione al di là del diverse forme di religione praticate.
In questo senso sarebbe opportuno tener conto di alcune linee guida:
– il raggiungimento di solide intese, che contribuiscano al rafforzamento delle forze islamiche moderate, contro quelle frange militanti che mirano a sovvertire con la violenza l’ordine del paese;
– l’alleggerimento del problema demografico, al fine di evitare il riversarsi sul territorio europeo di ondate di emigranti, altrettanti emarginati, rafforzando le economie locali con investimenti mirati che consentano a ciascuno Stato un maggiore assorbimento dei cittadini nati sul proprio territorio;
– la formazione di quadri tecnici ed economici adeguati;
– il dialogo inter-religioso, che aiuti la distensione, la comprensione e la coesistenza di gruppi di credo religioso diverso sul medesimo territorio.
In ogni caso, la sempre più frequente drammaticità degli eventi che i mezzi di informazione divulgano ad una attonita comunità internazionale non possono (e non devono) far dimenticare che la lotta al terrorismo deve comunque essere condotta nel pieno ed assoluto rispetto dei diritti umani: “grave ed imperdonabile errore sarebbe quello delle democrazie occidentali di tradire se stesse, violando i diritti umani e trascurando i diritti fondamentali delle persone; diritti che almeno da cinque secoli sono alla base della civiltà occidentale. Questa sarebbe la vera vittoria dei terroristi e della sola parte che combatte una guerra di religione”[16].
Il caso “Abu Omar” che campeggia sulle cronache dei quotidiani nazionali e le successive, anche drammatiche, conseguenza costituiscono una conferma della assoluta irrinunciabilità del principio sopra riportato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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[1] cfr. ex multis A. F. Panzera, voce: Terrorismo, Diritto internazionale, in Enc. Dir., Milano, 1992, pag. 371, che sottolinea le differenze tra guerriglia e terrorismo , pur non escludendo il possibile impiego di “metodi terroristici” ad opera di partecipanti alla guerriglia e la possibilità che il terrorismo rappresenti la fase iniziale di una lotta armata che successivamente si trasforma in guerriglia, citando come esempio la rivoluzione algerina.
[2]Un interessante elenco di accordi compare nella risoluzione dell’Assemblea generale 58/81 del 8 gennaio 2004, paragrafo 7, ove sono sono annoverate: la Convenzione di Tokyo per la sicurezza dell’aviazione civile del 1963; la Convenzione dell’Aja per la repressione del sequestro di aeromobili del 1970; la Convenzione di Montreal per la repressione degli atti contro la sicurezza dell’aviazione civile del 1971 e il Protocollo aggiuntivo sulla soppressione degli atti illeciti negli aeroporti internazionali dell’aviazione civile del 1988; la Convenzione di New York per la prevenzione e la repressione dei crimini contro soggetti tutelati dal diritto internazionale inclusi gli agenti diplomatici del 1973; la Convenzione di New York contro la presa di ostaggi del 1979; la Convenzione di Vienna sulla protezione fisica del materiale nucleare del 1979; la Convenzione sugli esplosivi al plastico del 1988; la Convenzione di Roma per la repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima del 1988 e il Protocollo aggiuntivo sulla sicurezza delle piattaforme fisse stabilite sulla piattaforma continentale; la Convenzione di New York per la repressione degli attentati terroristici commessi con l’uso di esplosivi del 1997; la Convenzione di New York per la repressione del finanziamento del terrorismo del 1999.
Sostanzialmente identico è l’elenco formulato dalla ris. 51/210 del 17 dicembre 1996, paragrafo 6 (dove, per ragioni cronologiche, non sono richiamate le convenzioni del 1997 e del 1999).
Un richiamo alle "dodici convenzioni" è contenuto anche nel Report della 59ª sessione del 2 dicembre 2004 del Secretary-General’s High-Level Panel on Threats, Challenges and Change dove, al paragrafo 164 lett. b) si legge che: "the acts under 12 proceding anti-terrorism conventions are terrorism […]"

[3] Elisabetta Rosi, La guerra, la guerriglia e il terrorismo: tutte le ambiguità di una norma oscura Nota a: Ufficio indagini preliminari, 24.01.2005 su D&G 2005, 6, 84

 
[4]SPOLITI, Spunti sulla figura del delitto terroristico in Giust. Pen. 1980 p 310 ss.
[5] RONCO, voce: Terrorismo in Nov. Dig. It. Pag. 752 ss.
[6] BOUTHOUL, La guerra, tr. it , Roma, 1975 Appendice terza: Il terrorismo, pag. 173
[7]RONCO,op. cit p. 754 ss.
[8] FERRI, Il silenzio-stampa nei rapimenti e sulle operazioni terroristiche in Giust. Pen. 1979, pag. 502 ss.; Sul ruolo dei mass-media per il terrorismo cfr. anche DE NIGRIS SINISCALCHI, Mass-media e terrorismo: problemi giuridici in Riv Pol. 1979, pag. 455 ss.
[9] Si fa riferimento all’ordinanza del G.U.P. di Milano del 24 gennaio 2005 (pubblicata in Dir. e giust., 2005, f. 6, pp. 92 ss.) -emessa congiuntamente alla sentenza con cui il medesimo G.U.P. ha riconosciuto la propria incompetenza e disposto la trasmissione degli atti all’Autorità giudiziaria di Brescia- con la quale è stata revocata la misura cautelare applicata a due soggetti imputati per il reato di cui all’art. 270-bis c.p.; il giudice milanese, infatti, non ha ritenuto qualificabile – alla luce degli elementi probatori a disposizione – come "terroristica" l’attività dell’organizzazione che i due contribuivano a finanziare, ma come legittima attività di "guerriglia", in quanto rivolta non contro civili, ma contro militari – fondando tale interpretazione sull’art. 18 del progetto di Convenzione globale contro il terrorismo (su cui infra, 2.1 e nota 71). Diversamente il G.I.P. bresciano, dopo aver ricevuto gli atti del procedimento, ha disposto nuovamente l’applicazione della misura cautelare per i due imputati, rilevando che la Convenzione citata dal G.U.P. milanese è ancora ferma allo stadio di mero progetto e ritenendo che "alla luce del comune modo di sentire della comunità politica […] che ha prodotto l’art. 270-bis c.p. (o altre norme equivalenti) deve ritenersi che azioni violente condotte anche con il ricorso a ‘kamikaze’ da portatori di ideologie estremistiche islamiche nei confronti di unità militari attualmente impiegate in Asia (tra cui un contingente italiano) non possono qualificarsi come atti di legittima e giustificata ‘guerriglia’, ma vanno senz’altro definiti come atti di “terrorismo”.
[10]Evidenzia l’utilità di un esame degli atti internazionali in materia di lotta al terrorismo G. Frigo, Per uscire dall’impasse del codice penale il soccorso della decisione quadro europea, in Guida al diritto, 2005, n. 6 pagg.. 88 ss
[11]PANZERA, voce: Terrorismo, (dir.int), in Enc. Dir. vol. XLIV, op.cit.p. 371 ss.
[12] Per un interessante e più completa rassegna storica v. DE SIO CESARI Giovanni, Terrorismo Islamico: radici storiche e culturali, in www.Giovannidesio.it.
 
 
[13] Per una sintetica, ma efficace ricostruzione dell’evoluzione recente del radicalismo islamico cfr. Armando Spataro, in Il terrorismo islamico su www.golemindispensabile.it n. 7 – ottobre 2004.
 
[14] Valeria PIACENTINI L’Islam e sua percezione della sicurezza europea e mediterranea in “per aspera ad veritatem” n. 9 settembre-dicembre 1997.
 
[15] Marco FOSSATI – Terrorismo e terroristiper aspera ad veritatem” n. 28 gennaio-aprile 2004.
 
 
[16] Così efficacemente si è espresso Guido Rossi sul "Corriere della Sera" del 30.3.04.
 

Blanda Vincenzo

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