di Mirco Minardi
Sommario
Introduzione
Il principio del libero convincimento
Il prudente apprezzamento nella giurisprudenza della Suprema Corte
Conclusione
Il titolo della mia relazione è “Il sindacato della Corte di Cassazione sulla valutazione imprudente della prova”. Ora, se noi accordassimo un fondamento a quel che afferma la Corte la mia relazione dovrebbe durare non dieci minuti, bensì dieci secondi, in quanto è a tutti noto il principio secondo cui la Suprema Corte non può sindacare il modo in cui il giudice di merito ha valutato la prova libera, trattandosi di accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità. Al limite è possibile invocare il controllo della logicità e razionalità della motivazione. Un motivo che si spingesse a chiedere questa indagine verrebbe dichiarato inammissibile prima ancora che infondato.
Tuttavia, la mia frequentazione quotidiana sulla banca dati della Corte mi ha insegnato che ogni principio di diritto va sempre sottoposto a controllo. In particolare, va verificata la coerenza tra il principio affermato e la prassi effettiva, come pure la natura assoluta o relativa del principio.
Ad esempio, è costantemente ripetuto che il giudizio sulla attendibilità di un testimone appartiene in via esclusiva al giudice di merito[1]. Quindi, per riprendere l’esempio che faceva il Bigiavi[2], se il giudice affermasse la buona fede di un testimone per il modo in cui teneva la penna al momento della firma del verbale, ciò sarebbe insindacabile dalla Cassazione? La risposta è senz’altro negativa, ma in questo caso la Corte direbbe che è la motivazione ad essere insanabilmente viziata e non dunque l’art. 116 c.p.c. ad essere stato violato.
Cerchiamo di capire perché.
[1] Tra le tantissime e più recenti, v. Cass., sez. II, 08/08/2019, n. 21187.
[2] W. Bigiavi, Il controllo di logicità da parte della Corte di cassazione, in Foro it., 1940, IV, 33 ss.
Un primo ostacolo è dato dal fardello del principio del libero convincimento che si troverebbe consacrato, per usare le parole del Satta, nell’art. 116 c.p.c., anche se poi lo stesso Satta scriveva che di questa norma “si sentiva davvero ben poco il bisogno” [3].
In realtà, per quanti sforzi si possano fare, non è possibile trovare nell’art. 116 c.p.c. la dimostrazione che l’ordinamento processuale sia improntato sul libero convincimento del giudice, come invece ripetutamente affermato dalla Suprema Corte, forse sulla scorta della relazione che Calamandrei scrisse per il Ministro Grandi in cui, in effetti, si legge che “romano è il principio che la prova è diretta a formare il libero convincimento del giudice”.
Anzitutto, come ha rilevato Carmine Punzi[4], se esaminiamo il codice civile notiamo che la libera valutazione rappresenta l’eccezione più che la regola, visto che davvero tante sono le norme che il giudice è tenuto a rispettare in materia di valutazione della prova.
In secondo luogo, l’art. 116 c.p.c. stabilisce che il giudice valuta la prova secondo il suo «prudente apprezzamento». Libertà e prudenza sono tutt’altro che sinonimi, non solo nell’esperienza giuridica, ma anche nell’esperienza di tutti i giorni.
Nel 1974, nella sua monografia dedicata al principio de quo, Mario Nobili[5] scriveva che “a forza di vantare con dogmatica sicurezza il principio del libero convincimento come fondamento imprescindibile del sistema, da troppo tempo se ne trascura l’approfondimento critico, con la conseguenza di una grande varietà di significati e soprattutto di una immagine equivoca della libertà del giudice”.
Michele Taruffo, da parte sua, ha affermato che «libero convincimento» è una espressione “incerta e nebulosa” [6] e, mi permetto di aggiungere, per certi versi pericolosa, perché può davvero indurre il giudice di merito a credere che sia libero di formarsi il proprio convincimento.
In realtà, il principio in esame, a meno di intenderlo in maniera del tutto diversa dal senso letterale delle parole di cui è composto, non solo non trova nell’art. 116 c.p.c. la sua base di riferimento, ma non la trova in nessuna norma del codice, per la semplice ragione che nel nostro ordinamento[7] il giudice non è affatto libero di formarsi il convincimento come dimostrano gli esempi che seguono: può il giudice affermare che nonostante i testimoni abbiano totalmente confermato in maniera coerente i fatti allegati dall’attore, rigettare la domanda sul rilievo che qualcosa dentro di lui gli dice che le cose siano andate diversamente? Può il giudice, nonostante il ctu abbia escluso che il farmaco sia stato somministrato in dosi eccessive e che abbia provocato la bradicardia e il successivo arresto cardiaco, dissentire in forza del suo intimo convincimento? Può il giudice, nonostante il DNA abbia escluso che Tizio sia il padre di Caio, affermare il contrario sulla base della percepita somiglianza fisica? Può il giudice, in forza della suo libero convincimento, ritenere provato un fatto anche se gli elementi presuntivi non sono gravi precisi e concordanti? La risposta a queste domande non può che essere negativa. Il “sentimento della certezza morale della verità” di cui parlava il Mattirolo[8] appartiene ormai ad un lontano passato ed ha osservato correttamente Michele Cantillo[9] che più la società si evolve in senso tecnologico meno spazio c’è per il libero convincimento; ed era il 1998.
In realtà, il giudice civile italiano è tenuto ad adottare un vero e proprio «metodo» per la valutazione dei fatti giuridicamente rilevanti; ed in questo metodo si racchiude la prudenza di cui parla l’art. 116 c.p.c. che si sostanzia nell’uso di criteri logico razionali, cioè basati su regole di completezza, coerenza, congruenza e di massime di esperienza condivise in un certo momento storico. In sintesi, il prudente apprezzamento non è altro che una clausola generale richiamata da una norma giuridica. Violare quel canone significa violare la norma giuridica che quel canone richiama.
Conserva il giudice una certa libertà? Certamente, ma pur sempre nel perimetro tracciato dalla razionalità e dalla ragionevolezza.
Ritengo, dunque, che ci si debba liberare del principio del «libero convincimento» per sposare quello positivo del «prudente apprezzamento» di cui parla l’art. 116 c.p.c. per tutte le prove libere e l’art. 2729 c.c. per le prove indirette.
[3] S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, Vol. I, Milano, 1966, pag. 463.
[4] C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, Vol. II, Torino, 2010, pag. 90.
[5] M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, pag. 3.
[6] M. Taruffo, Libero convincimento del giudice (diritto processuale civile), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990, 1.
[7] Ben diversa, ad esempio, è la situazione in quegli ordinamenti in cui il verdetto è espresso dalla giuria popolare, la quale non è chiamata a motivare la propria decisione, come negli Stati Uniti.
[8] L. Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile, Vol. III, Torino, 1931, pag. 371.
[9] AA.VV., La Cassazione civile, Giur. sistematica di diritto processuale civile, Vol. II, Torino, pag. 1641.
Si è però già accennato che il rapporto della Suprema Corte con la clausola generale del «prudente apprezzamento» è un pessimo rapporto. I ricorsi che denunciano la violazione dell’art. 116 c.p.c. per l’errata valutazione della prova ottengono solitamente questa risposta: “In tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione” [10].
Di sindacato sulla valutazione imprudente in queste massime non si parla. Perché? Poco fa ho fatto riferimento al condizionamento del principio del libero convincimento, ma c’è un altro fattore da tenere in considerazione che consiste in un errore di fondo ovvero quello di ritenere che la «valutazione della prova» sia altro rispetto alla «motivazione sulla questione di fatto».
Giovanni Verde[11] ha icasticamente affermato che «separare la questione di fatto da quella di diritto è come separare la carne dal sangue in modo indolore in un organismo vivente». Ispirandomi a Lui, si potrebbe affermare che «separare la valutazione della prova dalla motivazione in fatto della sentenza è come cercare di separare i globuli rossi dai globuli bianchi con le mani». E’ infatti impossibile separare la valutazione della prova dalla motivazione in fatto della sentenza.
Quando fino al 2012 si parlava di motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria si parlava anche e soprattutto di valutazione della prova omessa, insufficiente o contraddittoria. E il risultato cui perveniva la giurisprudenza della Cassazione non era poi così diverso rispetto a quello della dottrina: valutazione prudente significava valutazione operata secondo criteri logico razionali, facendo uso di massime di esperienza vere, accettate dalla comunità in un certo momento storico.
Di conseguenza, costituiva valutazione imprudente quella illogica, contraddittoria, insufficiente, parziale, irragionevole, congetturale, apodittica, incomprensibile, insostenibile.
Facciamo qualche esempio di regole generali di prudenza ricavate dalla giurisprudenza:
– il giudice non può tralasciare la valutazione di prove decisive (questa regola è oggi espressamente codificata nel n. 5 dell’art. 360 c.p.c.);
– gp>[12];
– il giudice non può considerare la presunzione una prova di rango inferiore[13];
->l’inverosimigp>[14];
– il giudice non può ritenere aprioristicamente falsa una testimonianza solo perché resa da uno stretto congiunto, dal coniuge, da un amico o da un dipendente della parte[15];
– il giudice deve sincerarsi che il c.t.u. abbia risposto alle osservazioni critiche, specifiche e potenzialmente decisive sollevate dai c.t.p.[16];
– le massime di esperienza non possono essere scambiate con le congetture[17];
e così via.
La modifica del n. 5) dell’art. 360, primo comma, c.p.c. avvenuta nel 2012[18] nella sostanza non ha cambiato nulla, come aveva previsto parte della dottrina[19].
Al di là delle proclamazioni delle Sezioni Unite e delle sezioni semplici, ad ascoltar le quali parrebbe essere valida una sentenza insufficiente, i vizi che si facevano valere prima si fanno valere oggi e le sentenze che venivano cassate prima, vengono cassate oggi e come non venivano annullate prima non vengono annullate oggi.
Non ci si deve far fuorviare dalle massime che affermano che è sparito il controllo sulla motivazione in fatto se non nel caso di omesso esame di un fatto decisivo. Semplicemente c’è stata una ridistribuzione dei vizi tra i motivi di cui ai numeri 3), 4) e 5) dell’art. 360 c.p.c. ed anche questo era stato anticipato dalla dottrina[20], tanto è vero che:
– il sindacato sulle presunzioni è stato suddiviso; una parte è andato sotto il n. 3) dell’art. 360 c.p.c. come violazione o falsa appp>[21];
– tutto ciò che prima rientrava nella insufficienza, intesa come apparenza, illogicità, contraddizione della motivazione è andato sotto il n. 4) e oggi si fa valere come nulp>[22];
– il rigetto della domanda per mancanza di prova, dopo aver ingiustamente rigettato la richiesta di prova, dopo le modifiche del 2012 è stata considerata una ipotesi di motivazione contraddittoria da far valere in relazione al n. 4)[23];
– l’omesso esame delle conclusioni del c.t.u. è rimasto nel n. 5), come pure è rimasto nel n. 5), ovviamente, l’omesso esame di un fatto decisivo[24].
Ritorniamo però alla questione della motivazione in rapporto con la valutazione della prova.
Il fatto che la motivazione inglobi la valutazione sulla prova non significa che perda di significato l’art. 116 c.p.c. e ciò per due ragioni. In primis, è tutto da dimostrare che l’art. 132 n. 4) c.p.c., là dove obbliga il giudice ad indicare le concise ragioni di fatto, intenda come requisito a pena di nullità anche la logicità, razionalità e ragionevolezza della motivazione.
In secondo luogo, il vizio di motivazione non copre tutto. Si supponga che il giudice di merito abbia accordato maggiore credibilità ad un teste per le fattezze del suo viso e quindi per la dimensione e la proporzione del naso, della bocca, degli occhi. Il primo istinto potrebbe essere quello di pensare che una sentenza del genere sarebbe cassata per assenza di una valida motivazione, come nell’esempio che faceva il Bigiavi. Si supponga, però, che il giudice giustifichi questa conclusione richiamando gli studi di fisiognomica, partendo da Aristotele e Ippocrate, passando per Pomponio Gaurico, Giambattista della Porta, Johan Kaspar Lavater, per arrivare alla morfopsicologia di Luis Cornan del secolo scorso. In questo caso non ci troveremmo di fronte ad una motivazione illogica o apparente, ma ad una motivazione fondata su quella che oggi viene considerata una pseudo-scienza o quanto meno una disciplina non generalmente condivisa. Affermare la nullità di una sentenza di questo tipo, sul presupposto che l’art. 132 n. 4) c.p.c. implicherebbe il dovere per il giudice di rendere una motivazione basata su discipline accettate dalla collettività, mi pare francamente una manifesta forzatura.
Ecco, dunque, che in questi casi soccorre la clausola generale dell’art. 116 c.p.c., che invece, facendo riferimento alla prudenza, richiama criteri di valutazione generalmente condivisi.
[10] Cass., sez. VI, 17/01/2019, n. 1229.
[11] Ne dà atto B. Sassani nella nota n. 1 del suo contributo intitolato Legittimità, “nomofilachia” e motivazione della sentenza: l’incontrollabilità in cassazione del ragionamento del giudice, in www.judicium.it, in cui si legge che il Prof. Verde l’ha espressa in una sua Relazione, nella sede della Corte di cassazione, in uno degli incontri-dibattito sulla riforma delle impugnazioni nel corso del mese di novembre 2012. Alla Relazione corrisponde sostanzialmente l’articolo Diritto di difesa e nuova disciplina delle impugnazioni in www.judicium.it.
[12] Cass., sez. trib., 17/12/2014, n. 26510.
[13] Cass., sez. III, 05/06/2007, n. 13082.
[14] Cass., sez. I, 10/09/1999, n. 9640.
[15] Cass., sez. I, 04/12/2014, n. 25663.
[16] Cass., sez. I, 20/03/2013, n. 7041.
[17] Cass., sez. lav., 23/11/2012, n. 20774.
[18] Il n. 5) dell’art. 360 c.p.c. è stato sostituito dall’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (conv., con modif., in l. 7 agosto 2012, n. 134). In precedenza, la disposizione prevedeva la possibilità di censurare il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio. Oggi, invece, si prevede come motivo l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
[19] M. Bove, Giudizio di fatto e sindacato della corte di cassazione: riflessioni sul nuovo art. 360 n. 5 c.p.c. , in www.judicium.it.
[20] M. Bove, op. ult. cit.
[21] Cass., sez. III, 06/07/2018, n. 17720.
[22] Cass., sez. III, 18/06/2019, n. 16294.
[23] Cass. 9 novembre 2017, n. 26538.
[24] Cass. 31 maggio 2018, n. 13770; Cass. 29 maggio 2018, n. 13399.
Dopo la riforma del 2012, l’invocazione da parte degli avvocati dell’art. 116 c.p.c. nei motivi di ricorso è raddoppiato[25]. Il che è abbastanza ovvio: quale norma migliore di questa per censurare gli errori sulla valutazione della prova[26]? Purtroppo, però, sono raddoppiate anche le pronunce di inammissibilità sotto tale profilo, perché i tempi non sono ancora maturi per un pieno riconoscimento della norma in esame.
[25] È sufficiente una semplice ricerca in una banca dati delle sentenze per esteso della Corte.
[26] Ovviamente non costituisce errore la scelta tra più opzioni, quand’anche si trattasse di quella meno plausibile. La valutazione errata, come già detto, è solamente quella illogica, irrazionale, insostenibile, inaccettabile.
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