Il ruolo dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato nella tutela dei consumatori

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“Utenti” e “Consumatori” nel Codice del Consumo.

La tutela dei consumatori è un obiettivo che, sempre più negli anni, è divenuto di primaria importanza per il legislatore italiano, tanto che, dopo un lungo lavoro di progettazione e discussione, iniziato a livello europeo già intorno agli anni ’70, si è giunti a una regolamentazione organica del settore con il Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206, chiamato correntemente “Codice del Consumo”. Il Codice è entrato in vigore in data 23 ottobre 2005 e comprende la maggior parte delle disposizioni vigenti in materia di tutela dei consumatori e parte delle disposizioni emanate dall’Unione Europea nel corso degli ultimi 25 anni che abbiano come argomento il consumatore e la sua tutela[1].

Il Codice si articola in sei parti: disposizioni generali; educazione, informazione, pubblicità; il rapporto di consumo; sicurezza e qualità; associazioni dei consumatori e accesso alla giustizia; disposizioni finali. E raccoglie al suo interno sia la normativa relativa ai contratti del consumo in generale sia le più specifiche norme inerenti alla pubblicità ingannevole e comparativa, alle televendite, ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali, ai contratti a distanza, alla multiproprietà, alla vendita di pacchetti turistici, alla sicurezza dei prodotti immessi sul mercato ovvero in libera pratica, alla responsabilità per danno da prodotti difettosi, alla vendita dei beni di consumo.

L’articolo 1 indica le finalità e l’oggetto della legge, decretando che “Nel rispetto della Costituzione ed in conformità ai principi contenuti nei trattati istitutivi delle Comunità europee, nel trattato dell’Unione europea, nella normativa comunitaria con particolare riguardo all’articolo 153 del Trattato istitutivo della Comunità economica europea, nonché nei trattati internazionali, il presente codice armonizza e riordina le normative concernenti i processi di acquisto e consumo, al fine di assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti”. L’articolo 2 chiarisce quelli che sono i diritti del consumatore, stabilendo: “1. Sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti, ne è promossa la tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa, sono favorite le iniziative rivolte a perseguire tali finalità, anche attraverso la disciplina dei rapporti tra le associazioni dei consumatori e degli utenti e le pubbliche amministrazioni. 2. Ai consumatori ed agli utenti sono riconosciuti come fondamentali i diritti: a) alla tutela della salute; b) alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi; c) ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità; c-bis) all’esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà; d) all’educazione al consumo; e) alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali; f) alla promozione e allo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti; g) all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza.”

Occorre a questo punto chiarire quale differenza intercorra tra “utenti” e “consumatori” secondo il D.Lgs. 206/2005. L’articolo 3 del Codice del Consumo contiene a questo proposito una definizione: “Ai fini del presente codice, ove non diversamente previsto, si intende per consumatore o utente la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta […]”. La norma chiarisce poi che i requisiti necessari per individuare la figura del consumatore sono essenzialmente due: il soggetto deve essere una persona fisica e non deve agire per scopi professionali[2]. Utente è invece il soggetto che fa uso di qualche cosa, che usufruisce di un bene o di un servizio offerto da enti pubblici o privati o da imprese concessionarie (servizi telefonici, gas, energia elettrica, televisione, autostrade). In definitiva, quindi, l’utente si differenzia dal cliente poiché quest’ultimo è portatore di una facoltà di scelta, nei fatti non consentita al primo. Il cliente può scegliere e pagare per ottenere un bene o un servizio, mentre l’utente invece paga beni o servizi pur non potendoli scegliere in quanto erogati in regime di monopolio direttamente dalla Pubblica Amministrazione, da un ente pubblico, da un’azienda municipalizzata, o da un soggetto che opera in regime di concessione.

Come precedentemente affermato, i diritti dei consumatori definiti come “fondamentali” sono elencati all’articolo 2 del Codice del Consumo, e sono la salute e la sicurezza, gli interessi economici, il diritto all’informazione e ad adeguate istruzioni, il diritto al risarcimento, alla rappresentanza e alla partecipazione. Con la definizione dei diritti fondamentali, si è superato il concetto di interessi collettivi o diffusi, elevando espressamente le posizioni del consumatore, negli ambiti elencati, al rango di veri e propri diritti soggettivi, garantendone di conseguenza la tutela individuale o collettiva, quest’ultima tradotta in quelle “class actions”, previste dal Codice del Consumo. Il meccanismo della class action consente a più consumatori di aderire all’azione legale già iniziata, anche attraverso l’appoggio fornito dalle associazioni a difesa dei consumatori che hanno legittimazione attiva e passiva ad agire in giudizio. Occorre tuttavia precisare che solo alcune associazioni di difesa del consumatore sono “riconosciute” dallo Stato (art. 137 Codice del Consumo) ed iscritte ad un Albo nazionale tenuto dal Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti (CNCU) presso il Ministero dello Sviluppo economico[3].

A questo proposito occorre sottolineare come dalla molteplicità di configurazioni conflittuali che caratterizza la società contemporanea nasca l’esigenza di modificare la tutela tradizionalmente invocata a difesa di situazioni prevalentemente individuali, affinché essa divenga meglio atta a contrastare violazioni di carattere essenzialmente collettivo. Infatti, singoli individui danneggiati da un comportamento illecito o scorretto difficilmente vengono a trovarsi nelle condizioni migliori per ottenere un’adeguata soddisfazione : in alcune occasioni addirittura essi non sono neppure in grado di riconoscere l’esistenza di un pregiudizio che possa essere fatto valere in giudizio, o comunque non sono assolutamente in grado di sostenere forti costi processuali a fronte di risarcimenti aleatori e spesso molto inferiori al danno effettivamente subito. Gli interessi “in cerca di tutela” così individuati, necessariamente hanno bisogno di qualcosa in più della semplice legittimazione dell’individuo danneggiato in via diretta e personale, e probabilmente anche della eventuale legittimazione del rappresentante dell’interesse pubblico.

Guardando ad alcune tipologie di azioni di classe che si sono sviluppate all’estero, si può notare come in Francia, ad esempio, per secoli ha perdurato una certa diffidenza nei confronti della tutela collettiva di interessi di categoria, e conseguentemente anche nei confronti delle azioni collettive esercitate dalle associazioni rappresentative di tali interessi. Purtuttavia, verso la metà degli anni ’60 del Novecento anche in Francia l’esigenza sempre più frequente di tutelare gli interessi di intere categorie di soggetti determinò l’affermazione della action de classe, nella quale l’azione esercitata non mira soltanto a garantire l’interesse di un soggetto singolo, bensì la somma degli interessi di tutti gli altri membri del gruppo che si trovino nella medesima situazione.

In realtà è dall’ordinamento statunitense che promana la forma tradizionale di class action, ossia di quel congegno giuridico grazie al quale è possibile far valere in un solo giudizio i diritti soggettivi di un gran numero di persone senza il concorso della loro volontà. Il presupposto imprescindibile della class action è, si sa, la comunanza di un medesimo interesse fra più soggetti, comunanza che risulta prevalere sull’aspetto individuale della singola situazione sostanziale soggettiva, fornendo uno strumento processuale che permette di far valere in giudizio, oltre al proprio anche i diritti di una pluralità di altri soggetti.

Un altro aspetto molto rilevante della tutela del consumatore approntata dal codice del consumo è quello della garanzia per il consumatore, collegata al fondamentale diritto al risarcimento, nel senso che i consumatori devono poter contare su consulenza e assistenza per ottenere il risarcimento per prodotti difettosi o per danni risultanti dall’uso di beni e servizi. Nel nostro ordinamento, la garanzia di conformità è disciplinata dal Codice del Consumo (art. 130 e ss.). Per qualsiasi bene acquistato, il consumatore ha diritto a due anni di garanzia da parte del venditore. In particolare, per qualsiasi difetto che non dipenda da un utilizzo scorretto del bene, il consumatore potrà chiedere al venditore la riparazione o il ripristino dello stesso o, nel caso non possa essere riparato, la sostituzione con uno nuovo. La garanzia di conformità ha una validità di due anni che decorrono dalla consegna del bene al consumatore. Tale termine si computa da quando il consumatore ha effettivamente la disponibilità del bene, poiché l’operazione di acquisto può perfezionarsi anche in un momento antecedente alla consegna dello stesso (come accade per gli acquisti online)[4].

 

 

Il ruolo dell’AGCM nella disciplina del Codice del Consumo

L’autorità alla quale si possono rivolger cittadini o le associazioni dei consumatori per il controllo dei messaggi pubblicitari e delle pratiche commerciali è l’AGCM. In realtà, il ruolo e i poteri dell’Autorità Garante per la concorrenza e il mercato si sono progressivamente ampliati e moltiplicati nel tempo, con una logica a volte discutibile che porta a ritenere che l’Autorità sia chiamata a intervenire in qualsiasi ipotesi ove si discuta di regolamentazione del mercato e di rapporti con i consumatori. Nel 2007, in particolare, è stata introdotta la tutela da parte dell’AGCM contro tutte le pratiche commerciali scorrette delle imprese nei confronti dei consumatori: se un’impresa tenta di falsare le scelte economiche del consumatore, ad esempio, omettendo informazioni rilevanti, diffondendo informazioni non veritiere o addirittura ricorrendo a forme di indebito condizionamento, l’Antitrust può intervenire anche in via cautelare e imponendo sanzioni che, per le pratiche messe in atto a partire dal 15 agosto 2012, possono arrivare a 5 milioni di euro (il precedente tetto massimo era di 500.000 euro). Per diritto del consumatore alla correttezza, alla trasparenza e all’equità nei rapporti contrattuali si intende tra l’altro la necessità della predisposizione e formulazione del regolamento contrattuale in modo chiaro e comprensibile, nel rispetto della clausola di buona fede, impostando i contenuti in modo tale che siano considerati “giusti” da entrambe le parti. La cooperazione tra le parti è necessaria per facilitare gli adempimenti e in particolare per permettere al consumatore di valutare liberamente e consapevolmente la convenienza e l’opportunità della contrattazione, riequilibrando le asimmetrie informative.

La tutela contro le pratiche scorrette si estende, per effetto della legge di conversione del decreto legge 1/2012 anche alle microimprese, cioè alle entità, società o associazioni, che, a prescindere dalla forma giuridica, esercitano un’attività economica (anche a titolo individuale o familiare), occupando meno di dieci persone e realizzando un fatturato o un totale di bilancio non superiori ai due milioni di euro all’anno[5]. L’Antitrust può anche analizzare l’eventuale vessatorietà di clausole contrattuali inserite nei contratti con i consumatori, su richiesta, anche in via preventiva, delle imprese che lo richiedano relativamente a clausole che intendono utilizzare nei rapporti commerciali con i consumatori. Infatti, all’interno del Codice del consumo (più precisamente nella III parte, titolo I), costituiscono oggetti di specifica trattazione le “clausole vessatorie”. L’espressione “clausole vessatorie” è utilizzata con riferimento a specifiche clausole contrattuali. La vessatorietà della clausola in linea di principio presuppone che vi sia stata una predisposizione unilaterale del contratto da parte del professionista, tale da impedire una contrattazione specifica sulle condizioni contrattuali, e che ad essa sia seguito un disequilibrio della posizione del consumatore nel contesto contrattuale. L’articolo 33 c. definisce vessatorie le clausole che determinano uno squilibrio giuridico delle posizioni contrattuali tra le parti, vale a dire uno squilibrio dei reciproci diritti ed obblighi in misura significativa, considerata la natura del bene o del servizio oggetto del contratto e le circostanze esistenti al tempo della sua conclusione o il contenuto di un altro contratto al primo collegato o da esso dipendente.

Per  “pratica commerciale” si intende “qualsiasi azione, omissione, condotta, dichiarazione o comunicazione commerciale, ivi comprese la pubblicità diffusa con ogni mezzo […] e il marketing, che un professionista pone in essere in relazione alla promozione, alla vendita o alla fornitura di beni o servizi ai consumatori” (art. 18, lett. d), d.lgs. n. 146/2007). Questa si rivela scorretta quando risulta essere falsa o idonea a falsare il comportamento del consumatore che raggiunge, spingendolo verso direzioni diverse da quelle che avrebbe assunto in sua assenza. Secondo il Codice del Consumo, le pratiche scorrette ai danni del consumatore possono essere suddivise in due macrocategorie: pratiche commerciali ingannevoli e pratiche commerciali aggressive. Sono definite pratiche commerciali ingannevoli, tutte quelle pratiche idonee a indurre in errore il consumatore medio falsandone il processo decisionale in vari modi e in relazione a vari aspetti del prodotto/servizio in oggetto. A questo proposito, il consumatore può essere tratto in inganno rispetto al prezzo, alla disponibilità sul mercato, alle caratteristiche o ancora ai rischi connessi al suo utilizzo. L’AGCM considera illecite anche tutte le pratiche che inducono il consumatore ad adottare comportamenti incauti e privi delle corrette precauzioni nell’utilizzo di prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza che possano minacciare – anche indirettamente – la salute di adolescenti e bambini[6]. Un esempio di pratica commerciale ingannevole è quello oggetto del Provvedimento dell’AGCM che ha coinvolto la nota catena di discount Lidl. Nello specifico, il procedimento istruttorio – avviato il 23 aprile 2019 – concerneva alcuni comportamenti relativi alla promozione e commercializzazione (sia nei punti vendita fisici che attraverso il sito internet) delle proprie linee di pasta di semola di grano duro a marchio “Italiamo” e “Combino”, mediante confezioni che rappresentavano in modo ingannevole le caratteristiche di tale prodotto, enfatizzandone l’italianità in assenza di adeguate indicazioni sull’origine anche estera del grano duro impiegato nella produzione della pasta. Nel provvedimento viene illustrato come, nel caso di entrambi i marchi, il packaging presenti una serie di elementi visivi potenzialmente fuorvianti agli occhi del consumatore medio, tralasciando invece informazioni che consentirebbero una scelta maggiormente consapevole. Nel caso di “Italiamo”, sono oggetto di analisi le confezioni di Pasta di Gragnano IGP commercializzate con tale marchio, la cui ingannevolezza è dovuta al fatto che la parte frontale e maggiormente visibile della confezione è sfruttata per comunicare le caratteristiche che concorrono a determinare l’italianità del prodotto nell’immaginario del consumatore (attraverso elementi quali lo scudetto tricolore che sovrasta il nome del marchio e la dicitura “Specialità della Campania”). Mentre solo sulla parte laterale, sotto la lista degli ingredienti e in caratteri notevolmente e intenzionalmente più piccoli rispetto a quelli utilizzati per le informazioni sopracitate, è riportata l’indicazione “Paese di coltivazione del grano: UE e non UE”, accompagnata dall’informazione che il paese di molitura è l’Italia.

Comportamento simile è quello che interessa il marchio “Combino”, che nella parte anteriore del packaging – oltre a un’immagine evocativa del paesaggio italiano – presenta la dicitura “Specialità Italiana”, affiancata da altri elementi evocativi quali la coccarda con i colori della bandiera italiana su cui è presente la dicitura “Prodotto in Italia”: il tutto a caratteri ben visibili. E nuovamente, sul retro della confezione in questo caso ma sempre al sotto alla lista degli ingredienti, è riportata l’indicazione “Paese di coltivazione del grano: UE e non UE”, accompagnata dall’informazione che il paese di molitura è l’Italia.

L’Autorità ha qualificato questi comportamenti come pratiche ingannevoli alla luce di numerosi studi e ricerche che hanno evidenziato come i consumatori italiani – molto più del consumatore medio europeo – attribuiscano un’elevata importanza all’origine del prodotto, anche per ragioni connesse al tema della food security. In particolare, un’indagine svolta dalla Commissione Europea in materia ha dimostrato che più del 60% dei consumatori italiani considera come molto importante l’origine del prodotto alimentare e più del 30% lo ritiene comunque come “abbastanza importante”. Nel caso specifico della pasta, più del 55% dei consumatori italiani ha dichiarato di considerare come molto importante questa informazione, intesa come il luogo dove il prodotto alimentare è stato fabbricato o trasformato.

Una volta iniziato il procedimento istruttorio, Lidl ha tentato di difendersi dalle accuse adducendo come argomentazione il fatto che il Regolamento europeo stabilisce che “i consumatori devono essere informati relativamente all’origine dell’ingrediente primario contenuto nel prodotto alimentare quando tale ingrediente proviene da un Paese diverso da quello nel quale il prodotto alimentare è stato fabbricato”. E poiché in questo caso il prodotto alimentare in oggetto è la pasta di grano duro e il solo ingrediente primario che la costituisce, ossia la semola di grano duro, è ottenuta in Italia, Lidl sostiene che sia l’alimento sia il suo ingrediente primario sono italiani (dando poca se non alcuna importanza al fatto che parte del grano duro arrivi dall’estero). Tale posizione non è stata condivisa dall’Autorità, che ha affermato che l’ingrediente generalmente associato dal consumatore medio alla denominazione della pasta è il grano duro, che ne rappresenta la componente fondamentale. Secondo la sentenza, il consumatore – catturato dai claim che colpiscono la sua attenzione nel modo più immediato e incisivo – sarà indotto a credere che il grano duro utilizzato nella produzione della semola sia di origine italiana, a meno che non approfondisca l’indagine visiva analizzando attentamente il packaging. Quindi, considerando l’importanza attribuita dai consumatori italiani all’indicazione d’origine della materia prima e del luogo di trasformazione, l’AGCM stabilisce che “l’incompletezza dell’informazione resa al primo contatto attraverso le confezioni delle paste a marchi Italiamo e Combino appare configurare una pratica commerciale scorretta”, comminando a Lidl Italia una sanzione di 1 milione di euro, ammontare calcolato anche tenendo conto della “dimensione economica del professionista, Lidl Italia S.r.l. che “rappresenta la più importante catena italiana di discount”.

Sono invece definite pratiche commerciali aggressive, di cui agli articoli 24-26 del Codice del Consumo, tutte quelle pratiche che limitano considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio, inducendolo ad assumere una decisione che altrimenti non avrebbe preso. In questo secondo caso, l’impresa agisce tramite molestie, coercizione o altre forme di indebito condizionamento (ad esempio, imponendo al consumatore onerosi ostacoli contrattuali). L’intensità dell’aggressività viene valutata in base alla natura, ai tempi, alle modalità e all’eventuale ricorso a minacce fisiche o verbali. Un caso di pratica commerciale aggressiva è quello oggetto del Provvedimento n. 281570231 che ha coinvolto BNL S.p.A.

L’avvio del procedimento istruttorio, in data 19 giugno 2019, è avvenuto a seguito di una serie di segnalazioni pervenute dall’AGCM ad opera di singoli consumatori e di una denuncia di Altroconsumo, con cui era stata segnalata la messa in atto di pratiche commerciali scorrette nella conclusione di contratti di mutuo immobiliare ipotecario (mutuo) o di mutuo immobiliare ipotecario con surrogazione (surroga). L’istruttoria ha riguardato i comportamenti posti in essere dal professionista attraverso cui questi avrebbe indotto: a) i consumatori intenzionati a stipulare contratti di mutuo e/o di surroga a sottoscrivere polizze assicurative di vario genere offerte dalla Banca, ponendo tale sottoscrizione come condizione per la concessione del finanziamento[7]; b) i consumatori intenzionati a concludere contratti di mutuo e/o di surroga ad aprire un conto corrente presso la medesima Banca, ponendo tale apertura come condizione per la concessione del finanziamento[8].

A sua difesa, BNL presentò una serie di argomentazioni volte a dimostrare che entrambe le pratiche di cui ai punti a) e b) non soddisfacessero le condizioni necessarie affinché potesse ritenersi integrata una pratica commerciale scorretta. In merito alla pratica sub a) affermava, ad esempio, che le modalità di vendita delle polizze erano state idonee a garantire la corretta informazione del consumatore in merito alle caratteristiche dei prodotti che gli venivano proposti, grazie alla documentazione pre-contrattuale offerta dalla Banca stessa. In merito alla pratica sub b), invece, la Banca sosteneva di non aver mai condizionato l’erogazione dei mutui e delle surroghe all’apertura di un conto corrente, ma di essersi limitata a prospettare ai clienti cui erogava un mutuo e/o una surroga la possibilità di aprire un conto corrente presso la Banca medesima. Nonostante queste argomentazioni, l’Autorità ha ritenuto che le azioni messe in atto da BNL fossero risultate in una pratica commerciale aggressiva, in violazione degli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo, in quanto “hanno indebitamente condizionato i consumatori ad acquistare, in abbinamento a mutui conclusi anche tramite surroghe, polizze assicurative di vario genere (incendio e scoppio o a protezione del finanziamento), emesse da compagnie assicurative dello stesso Gruppo societario e collocate dalla stessa Banca.” e “alla luce delle evidenze acquisite, inoltre, BNL risulta aver esercitato, in occasione della stipula del mutuo e/o della surroga, un indebito condizionamento nei confronti del consumatore inducendolo ad aprire un conto corrente presso la stessa Banca.”.

Alla luce di tutto ciò, l’Autorità decide: – che entrambe le pratiche oggetto di analisi sono pratiche commerciali scorrette, vietandone pertanto la continuazione; – di irrogare alla società BNL S.p.A. una sanzione amministrativa pecuniaria di 4.000.000 € per la pratica sub a); – di irrogare alla società BNL S.p.A. una sanzione amministrativa pecuniaria di 1.650.000 € per la pratica sub b); – che il professionista comunichi all’Autorità, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica del presente provvedimento, le iniziative assunte in ottemperanza alla diffida di cui ai punti a) e b.

Note

[1] Uno tra gli aggiornamenti più recenti del Codice del Consumo risale al 2014, quando sono state introdotte disposizioni in materia di depenalizzazione, e di informazioni precontrattuali che riguardino i contratti a distanza e negoziati fuori dal comune. È stato istituito inoltre un apposito organismo di ADR per garantire ai consumatori che stanno al di là delle frontiere, di potere avanzare reclami a organismi indipendenti, imparziali e trasparenti, anche senza rivolgersi in prima battuta ai tribunali.

[2] La prima caratteristica è stata confermata anche dalla sentenza del 22 novembre 2001, n. 541 con cui la Corte di Giustizia Europea ha sancito apertamente il principio per cui la nozione di consumatore si riferisce esclusivamente alle persone fisiche. Riguardo alla seconda caratteristica, la Corte di Cassazione ha ribadito nel luglio 2008 (Cass. civ., sez. III, 10 luglio 2008, n.18863) che è consumatore la persona fisica che, pur svolgendo attività imprenditoriale o professionale, conclude un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di tale attività. Deve invece essere considerato professionista tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale. Con questa pronuncia si è affermato il principio per cui l’applicabilità della disciplina in oggetto presuppone un’indagine sullo scopo dell’atto posto in essere dal contraente, per cui si afferma la distinzione tra le esigenze professionali e le necessità della sfera privata, personale o familiare del contraente, concludendo nel senso che se si è in presenza di queste ultime si possa ritenere applicabile la disciplina di favore prevista per il consumatore.

[3] Esse attualmente sono 20: ADOC, Adiconsum, Assoutenti, ACU, Adusbef, Altroconsumo, Casa del consumatore, Centro tutela consumatori utenti, Cittadinanza attiva, Codici, Confconsumatori, Federconsumatori, Lega consumatori ACLI, Movimento difesa del cittadino, Movimento consumatori, Codacons, Cittadinanzattiva, Unione nazionale consumatori, Contribuenti Italiani, Sportello consumatori di Bolzano.

[4] Accanto alla garanzia di conformità, spesso i produttori (cioè coloro che producono il bene e che non necessariamente ne sono anche i venditori) prevedono una garanzia commerciale, di natura contrattuale, solitamente della durata di un anno, che si affianca ma non si sostituisce a quella di conformità: spetterà quindi al consumatore decidere quale delle due strade percorrere.

[5] A partire dal 13 giugno 2014, inoltre, l’Autorità vigila sul rispetto delle nuove norme sui diritti dei consumatori previste dalla Direttiva europea 83/2011/UE recepita con D.Lgs n.21/2014. Inoltre, l’Autorità vigila in materia di divieto di discriminazione dei consumatori e delle micro-imprese basata sulla nazionalità o sul luogo di residenza, così come previsto dalla Legge n. 161/2014.

[6] Al fine di rendere evidenti le pratiche commerciali scorretti, il Codice del Consumo prevede una “black list” di pratiche commerciali considerate sempre e inequivocabilmente ingannevoli o aggressive e che, quindi, sono vietate. In particolare, la nuova disciplina prevede un elenco di pratiche ingannevoli e uno di pratiche aggressive “in sé per sé”, considerate tali a prescindere dalla loro idoneità a falsare effettivamente le scelte del consumatore finale. Nel caso delle pratiche ingannevoli, tra le pratiche da considerarsi in ogni caso scorrette – riportate all’art. 23 co. 1) troviamo: a) affermazione non rispondente al vero, da parte di un professionista, di essere firmatario di un codice di condotta; b) esibire un marchio di fiducia, un marchio di qualità o un marchio equivalente senza aver ottenuto la necessaria autorizzazione; c) asserire, contrariamente al vero, che un codice di condotta ha l’approvazione di un organismo pubblico o di altra natura; d) asserire, contrariamente al vero, che un professionista, le sue pratiche commerciali o un suo prodotto sono stati autorizzati, accettati o approvati, da un organismo pubblico o privato o che sono state rispettate le condizioni dell’autorizzazione, dell’accettazione o dell’approvazione ricevuta; […]” Per quanto riguarda le pratiche commerciali considerate in ogni caso aggressive, all’art. 26 co. 1 ne sono annoverate svariate, tra cui: “a) creare l’impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto; b) effettuare visite presso l’abitazione del consumatore, ignorando gli inviti del consumatore a lasciare la sua residenza o a non ritornarvi, fuorché nelle circostanze e nella misura in cui siano giustificate dalla legge nazionale ai fini dell’esecuzione di un’obbligazione contrattuale; […] g) informare esplicitamente il consumatore che, se non acquista il prodotto o il servizio saranno in pericolo il lavoro o la sussistenza del professionista; h) lasciare intendere, contrariamente al vero, che il consumatore abbia già vinto, vincerà o potrà vincere compiendo una determinata azione un premio o una vincita equivalente, mentre in effetti non esiste alcun premio né vincita equivalente”.

[7] In merito all’aggressività della suddetta pratica, si ipotizzava la sua realizzazione (intesa come l’esercizio da parte del professionista di indebito condizionamento nei confronti del consumatore) attraverso lo sfruttamento da parte della Banca della propria posizione di potere rispetto a coloro che richiedevano il mutuo o la surroga, per limitarne la capacità di prendere una decisione libera riguardo all’acquisto della polizza.

[8] In merito a questa pratica, si ipotizzava la sua realizzazione attraverso le stesse modalità di cui al punto a), in questo caso volte a limitare la capacità del consumatore di decidere liberamente in merito all’acquisto di un mutuo e/o all’apertura di un conto corrente.

Simonetta Ronco

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