Il ricorso cautelare in causam va respinto se non pertinente al merito del giudizio principale. Commento a Ordinanza di rigetto Trib. Manfredonia, 5 agosto 2008

Di Bari Matteo 04/12/08
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Questo articolo descrive un caso esemplare di “non pertinenza al merito” di un ricorso cautelare in causam e, quindi, una ragione di rigetto in più dei ricorsi cautelari molto comoda e di rapida soluzione delle problematiche legate all’eccessivo carico di lavoro dei Tribunali italiani.[1]
 
Il Tribunale di Manfredonia veniva investito di ben tre ricorsi cautelari, autonomi, ed in causam, ciascuno promosso da un danneggiato diverso di Tizio.
 
Tizio, nel lontano 2005, pensò bene, dopo la morte del suo locatore, di impossessarsi di gran parte dei beni di lui, malgrado vi fossero degli eredi legittimi e testamentari che ne avevano diritto e che egli conosceva benisssimo.
 
Tuttavia, sententosi anche lui erede honoris causa, pensò bene di impadronirsi, uti dominus, di alcuni dei beni di cui all’eredità.
 
Così, quando ricevette la lettera di Caia, che gli chiedeva di rinegoziare il contratto di affitto di un appartamento che aveva avuto in locazione dal de cuius, Tizio, siccome non gli stava più bene di pagare €. 250,00 a Caia, per di più con un contratto di locazione regolarmente registrato, ritenne di restituire la casa a Caia, trattenendosi però una stanza, che gli serviva come magazzino per il suo albergo.
 
Così la casa tornò sì alla legittima proprietaria, Caia, ma depauperata di una stanza, il soggiorno, che lui aveva trasformato, nel tempo, in un magazzino vini e alcolici, al riparo dal freddo e dai ladri.
 
Caia si ritrovò così un appartamento ereditato con il soggiorno murato a grezzo.
 
Tizio pensò bene di impadronirsi anche della veranda che divideva l’appartamento dall’albergo che lui gestiva. Così la veranda prospiciente all’appartamento e che si trovava tra i due edifici, quale pozzo-luce per dare aria alle finestre del piano- terra, rimase – interamente – nella disponibilità di Tizio, che pensò bene – vedremo poi – di ricoprire con una bella tettoia.
 
Analogo trattamento fu riservato a Mevia, che aveva ereditato l’appartamento a fianco di Caia, sua sorella.
 
Anzi, avendo Mevia ereditato l’appartamento intero, cioé non depauperato di alcuna stanza né di nessuna altra sua parte (bontà di Tizio!), Ella riuscì ad affittarlo ad alcuni medici, che ne fecero un ambulatorio medico.
 
Tizio, però, che possedeva ormai la veranda prospiciente anche questo appartamento, pensò bene di oscurare le finestre di questo apaprtamento, costruendo pile di cassette d’acqua minerale che, come palazzi, toglievano luce ed aria alle finestre dell’appartamento di Mevia.
 
Non contento di tutto ciò Tizio ebbe un’altra idea straordinaria. Siccome – nel frattempo – aveva avuto sentore che prima o poi avrebbe perso anche la veranda (e cioé lo strumento per disturbare Caia e Mevia), perché non aveva proprio alcun titolo per possederla, pensò bene di costruirvi sopra una tettoia in zinco, di circa 300 mq, e cioé per l’intera sua superficie – a terra – della veranda.
 
In qualità di mero inquilino, in meno di una settimana, alc entro del Paese, egli costruì una tettoia in zinco, in piena violazione delle norme urbanistiche (non aveva presentato né DIA né permesso di costruire) e del regolamento condominiale, che prevedeva la delibera condominiale per cambiare in modo strutturale l’aspetto del palazzo.
 
Nell’Autorimessa del palazzo, poi, Tizio, malgrado Caia, Mevia e Sempronia, le tre sorelle figlie del costruttore, fossero proprietarie ognuna di un appartamento, pensò bene di occupare e di appropriarsi di tutte, e dico tutte, le cantinole presenti, che erano nate – invece – per servire ognuna un appartamento sovrastante.
 
Per tutti questi motivi, nel lontano 2005, Mevia e Caia agirono, ciascuna per proprio conto, in giudizio, nei confronti di Tizio, per avere indietro, iure successionis, le cantinole di loro spettanza nel garage, tutte possedute da Tizio; agirono per avere indietro la veranda occupata da Tizio, e sulla quale Tizio aveva costruito la sua tettoia in zinco di 300 mq, abusiva; e per avere liberate le finestre e luci degli appartamenti dalla tettoia e tornare ad avere luce ed aria alle finestre.
 
Si consideri che Caia non riusciva ad affittare l’appartamento perchè buio. Ma soprattutto perché Tizio continuava a detenere una stanza dell’appartamento, il soggiorno, in particolare, pregiudicando un appartamento che a catasto risultava composto di 4 vani e invece ne aveva soltanto tre.
 
Così – nel gennaio 2005 – furono introdotti due giudizi ordinari, uno da parte di Caia, uno da parte di Mevia.
 
Per la verità Mevia fu costretta ad introdurre un’ulteriore causa. Tizio – infatti – aveva lasciato marcire una porta stagna sull’attico, così consentendo alle piogge di entrare dal soffitto.
 
Le piogge, stagnando, si erano introdotte attraverso il soffitto al piano di sotto, rovinando l’appartamento di abitazione di Mevia e della sorella di lei Sempronia, che rinunciò – però – ad agire in giudizio.
 
Venne introdotta – così – un’ulteriore causa per Infiltrazioni di acqua piovana.
 
Tizio – infatti – si era sempre rifiutato- pur diffidato – di provvedere alla riparazione della porta, consentendo che il danno si riproducesse ogni volta che venivano giù piogge abbondanti.
 
Il fatto – poi – che l’appartamento danneggiato fosse l’abitazione principale di Mevia, aumentava la tensione sociale sottesa alla causa citata, perché Mevia si stava ammalando.
 
Ma le cause non finiscono qui.  
 
Anzi, quando Calpurnio, marito di Mevia, tentò di mediare e trattare con Tizio per ottenere almeno una delle cantinole nel garage, Tizio agì lui in giudizio, per lo spossessamento violento, e – incredibilmente – riuscì ad ottenere dal giudice la restituzione di quella unica cantinola che era in possesso degli eredi; salvo poi il rinvio alla causa di merito instaurata d’ufficio dallo stesso giudice.
 
Si tentò di far capire al giudice tutto quello che stava succedendo, ma invano.
 
Si tentò, in particolare, di far capire al giudice che Tizio era un mero inquilino e che semmai un tale tipo di comportamento poteva essere tenuto da un proprietario, e non certo da parte di un inquilino. Ma non ci fu verso.
 
Così Tizio, mero inquilino e conduttore dell’albergo, assistito da ben cinque avvocati diversi, si ritrovò ad avere quattro cause in piedi con ben tre persone diverse che egli stesso aveva spossessato.
 
Ora accadeva che Caia, Sempronia e Mevia, vista la paralisi delle loro cause (dal 2005 ad oggi le cause sono – ancora – in fase istruttoria!), e Calpurnio, decidessero – motu proprio – di acquistare il garage in questione .
 
E così fecero, il 7 novembre 2007, con atto regolarmente trascritto nei registri immobiliari.
 
Sennonché a Tizio, di cedere l’immobile ai proprietari, proprio non andava giù.
 
Anche se lui era un mero inquilino, decise di detenere il garage per sè, perché gli serviva per affittare i posti auto ai suoi amici e ai clienti dell’albergo.
 
Caia, Sempronia, Mevia – sorelle – e Calpurnio, marito di Mevia, diedero mandato di agire, per l’ennesima volta, nei confronti di Tizio, al loro Avvocato.
 
Caia, oltre allo spossessamento della stanza, della cantinola nel garage, della veranda, dell’oscuramento di luci e finestre del proprio appartamento, sfitto (perché è difficile affittare un appartamento buio – o meglio oscurato dal vicino, e senza una stanza!), lamentava – oggi – lo spossessamento dell’intero garage, di 310 mq. circa, di cui era divenuta proprietaria pro-quota.
 
Mevia, oltre alle Infiltrazioni di acqua piovana, oltre allo spossessamento della cantinola nel garage, dello spossessamento della veranda, dell’oscuramento di luci e finestre del proprio appartamento, lamentava – oggi – lo spossessamento dell’intero garage, di 310 mq. circa, di cui era divenuta proprietaria pro-quota.
 
Sempronia, oltre alle Infiltrazioni di acqua piovana, per cui aveva rinunciato ad agire in giudizio, e oltre allo spossessamento della cantinola nel garage, per cui aveva rinunciato pur ad agire in giudizio, lamentava – oggi – lo spossessamento dell’intero garage, di 310 mq. circa, di cui era divenuta proprietaria pro-quota, assieme alle sorelle.
 
Calpurnio, oltre alle Infiltrazioni di acqua piovana subìte nell’appartamento con la moglie Mevia, oltre allo spossessamento della cantinola nel garage, della veranda, dell’oscuramento di luci e finestre dell’appartamento ereditato dalla moglie, lamentava – oggi – lo spossessamento dell’intero garage, di 310 mq. circa, di cui era divenuto comproprietario, perché in comunione legale con la moglie acquirente Mevia.
 
Fin qui l’antefatto storico o – se vogliamo – il merito delle cause descritte.
 
Caia, Mevia e Calpurnio, avendo già le predette cause pendenti, per le molestie, subìte da Tizio, diedero mandato all’avvocato per agire nei confronti di Tizio ed avere indietro il garage.
 
Veniva perciò presentato – per ciascuno degli espropriati – un ricorso cautelare in causam.
 
Per ciascuno il ricorso cautelare veniva presentato nella causa che egli aveva già in piedi con Tizio. Ciò per due motivi: 1) riduzione dei costi; 2) per il principio di economia processuale [2] che impone di razionalizzare l’azione giudiziaria.
 
I ricorsi cautelari in causam venivano assegnati tutti – tabellarmente – allo stesso Giudice Onoraio il quale – letti i ricorsi – sanciva – per tutti – che “nel caso in esame non si ravvisa la strumentalità della tutela cautelare invocata rispetto alle ragioni fatte valere nel giudizio di merito”.
 
In sostanza le azioni presentate non erano pertinenti al merito. E venivano, per ciò, tutte rigettate.
 
La motivazione: “dal raffronto tra la domanda proposta nel giudizio di merito e quella di cui al presente ricorso cautelare non sussiste identità di petitum e di causa petendi con conseguente difetto del suindicato rapporto di strumentalità”.
 
Si era ritenuto, prima di presentare il ricorso, che quello del recupero del garage, non fosse altro che un vagone da attaccare agli altri, già trascinati dalla medesima motrice. E diretti alla medesima destinazione: far cessare – cioé – le angherie compiute da Tizio nei confronti di Caia, Mevia, Sempronia e Calpurnio, attraverso lo spossessamento dei loro beni immobili.
 
Secondo questa giurisprudenza – per ogni atto compiuto da Tizio – doveva essere esperito un autonomo giudizio.
 
Il ricorso cautelare in causam deve avere un oggetto che deve coincidere con l’oggetto iniziale del giudizio, non potendosi ammettere un ricorso per condotte accessorie o consequenziali compiute dallo stesso convenuto, anche se di derivazione diretta di quello principale.-
 
Non ha importanza – quindi – che il ricorso cautelare cristallizzi l’ennesimo comportamento riprovevole del medesimo convenuto nei confronti del medesimo attore-ricorrente, anche se analogo a quelli tenuti dal convenuto e di cui al giudizio principale: ogni comportamento riprovevole deve formare oggetto di un giudizio autonomo, a prescindere dai costi processuali per gli attori ed a prescindere dal carico di lavoro dei Tribunali.
 
Questo l’orientamento del Tribunale di Manfredonia più recente che può essere condiviso o meno ma che rispecchia l’andamento delle pronunce attuali.


[1]    Questo articolo è dedicato all’Avv. Maria Rosaria D’ELIA, di Foggia, e che – a 41 anni – ci ha lasciati.
[2]    Si veda – sul punto – le Lezioni di diritto processuale di Ferruccio Tommaseo.

Di Bari Matteo

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