Il regime degli atti tardivi della pubblica amministrazione: sviluppi legislativi e giurisprudenziali

Camilla Furlan 23/02/21
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Nell’ambito del principio di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione, sancito espressamente dalla Costituzione all’articolo 97, si inscrive il principio di doverosità dell’azione amministrativa. Esso, infatti, impone alla PA di esercitare il potere attribuitole dalla legge entro un termine ragionevole, contribuendo a delineare in concreto i caratteri dell’efficienza dell’attività amministrativa.

Il principio in esame trova il proprio fondamento anche a livello comunitario, nell’articolo 41 della Carta di Nizza che, sancendo il diritto alla buona amministrazione, riconosce al privato il diritto di vedere trattate le questioni che lo riguardano, oltre che in modo equo e imparziale, entro un termine ragionevole.

Nell’ottica della tutela del cittadino, peraltro, il principio di doverosità dell’azione amministrativa è logicamente connesso con i principi della certezza del diritto e della tutela dell’affidamento del privato: solo imponendo all’amministrazione un dovere di agire entro un tempo ragionevole, tali garanzie possono essere concretamente rispettate.

La doverosità dell’azione amministrativa, deducibile anche dall’articolo 2 della L. 241/1990 che sancisce l’obbligo di concludere il procedimento e ne prevede i termini, ha una portata generale e sussiste ogniqualvolta è riconosciuto al privato il potere di presentare un’istanza alla PA, in quanto titolare di una posizione giuridica qualificata.

La questione maggiormente problematica relativa al principio in esame concerne le conseguenze della sua violazione. Infatti, si è ampiamente dibattuto in merito al regime degli atti tardivi della pubblica amministrazione, intervenuti in seguito alla scadenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere amministrativo.

La sorte di tali atti è stata oggetto di una recente modifica normativa, introdotta con il D.L. 76/2020, che ha aggiunto il comma 8 bis all’articolo 2 della legge 241/1990, nonché, per quanto riguarda gli atti successivi alla nomina del commissario ad acta, di un’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

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L’inerzia dell’amministrazione: silenzio inadempimento e silenzio significativo

Al fine di analizzare le problematiche relative agli atti tardivi della pubblica amministrazione, è preliminarmente necessario osservare come l’inerzia dell’amministrazione assuma nell’ordinamento amministrativo diversi significati.

Infatti, se da un lato il silenzio della pubblica amministrazione costituisce un mancato esercizio del potere, che realizza un fatto illecito fonte di responsabilità ex art. 2043 c.c. (c.d. silenzio-inadempimento), dall’altro lato l’inerzia dell’amministrazione può integrare una forma semplificata di esercizio dell’attività amministrativa. In tali casi, il silenzio della PA costituisce un comportamento, esercizio del potere, dal quale discende un effetto equivalente a quello che sarebbe sorto con l’adozione del provvedimento. È, dunque, il legislatore a risolvere sul piano sostanziale la situazione di incertezza in cui si trova il cittadino, attribuendo alla condotta omissiva un valore provvedimentale: l’interesse del privato a una decisione tempestiva è tutelato mediante l’attribuzione di un valore legale all’inerzia della PA, che può assumere il significato di accoglimento o rigetto dell’istanza del privato.

Alla luce di quanto disposto dall’articolo 20 della L. 241/1990, in tutti i casi in cui non sia diversamente previsto, il silenzio della pubblica amministrazione equivale ad assenso; solo quando è espressamente sancito dalla legge il silenzio assume il significato di rigetto dell’istanza del privato.

Gli atti tardivi della Pubblica Amministrazione

Con riguardo al regime degli atti tardivi della PA, rispetto alla formazione del silenzio-inadempimento, la tradizionale interpretazione prevalente esclude che l’infruttuoso decorso del termine per provvedere produca la consumazione del potere e l’illegittimità del provvedimento. Infatti, salvi casi eccezionali di termini decadenziali, la violazione del dovere di provvedere entro il tempo stabilito non determina l’invalidità o l’inefficacia dell’atto tardivo della pubblica amministrazione, ma espone quest’ultima all’azione avverso il silenzio inadempimento, volta a conseguire una pronuncia che condanni l’amministrazione ad adottare il provvedimento, nonché al rimedio risarcitorio, come risulta dal combinato disposto degli articolo 31 e 117 c.p.a.

La non perentorietà del termine entro il quale provvedere risulta confermata, secondo un argomento sistematico, dall’articolo 152 c.p.c., secondo il quale i termini sono ordinatori salvo che la legge disponga diversamente.

Peraltro, nel caso di provvedimenti tardivi favorevoli, la salvaguardia della validità dell’atto tardivo si giustifica in un’ottica di tutela del privato: questi, altrimenti, verrebbe doppiamente pregiudicato, dal ritardo e dalla preclusione del bene della vita cui aspira.

Orbene, la violazione del dovere di esercitare l’attività amministrativa imposto alla PA non produce l’estinzione del potere o l’invalidità dell’atto tardivo, essendo il corrispettivo diritto del cittadino protetto nella sua dimensione patrimoniale, ma non essendo esso in grado di prevalere sull’interesse alla conservazione del potere e della decisione.

Per quanto riguarda le ipotesi di silenzio significativo, la questione relativa al regime degli atti tardivi adottati dalla PA si presenta maggiormente problematica, anche in ragione della novella legislativa introdotta dal Decreto Semplificazioni.

Il silenzio-assenso, così come il silenzio-rigetto, costituiscono esercizio del potere della pubblica amministrazione ed equivalgono ad un provvedimento tacito. Per tale ragione, la dottrina considera illegittima l’adozione da parte della pubblica amministrazione di un provvedimento esplicito tardivo, adottato dopo il silenzio, affermando che il potere di cui la PA è titolare, si consuma con la formazione del silenzio.

Diversamente, la giurisprudenza prevalente ritiene che l’atto tardivo sia annullabile. In particolare, tale orientamento afferma che l’atto tardivo non è esercitato in carenza di potere, ma costituisce un cattivo esercizio del potere, che configura un’ipotesi di invalidità sottoforma di annullabilità per violazione di legge, nello specifico quella che regola l’esercizio del potere pubblico. Pertanto, il destinatario di un atto tardivo contrario al silenzio potrà vedersi tutelato attraverso l’azione di annullamento.

Tuttavia, dopo la formazione del silenzio assenso o rigetto, all’amministrazione residua ancora uno spazio di manovra: essa può annullare in autotutela gli effetti derivanti dal silenzio, qualora ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 21 nonies L. 241/1990. In particolare, l’atto di secondo grado potrà essere adottato in presenza di un interesse pubblico alla rimozione degli effetti del comportamento della PA e dovrà intervenire entro un termine ragionevole, previa valutazione comparativa dell’interesse pubblico con gli interessi dei destinatari dell’atto e dei controinteressati.

Diversamente che nel caso del silenzio-inadempimento, in cui non può esserci autotutela in quanto manca l’esercizio di un potere di primo grado e un atto da rimuovere, dinnanzi al silenzio esercizio di potere essa è ammessa, in quanto non insiste sull’atto, ma sugli effetti di esso, che si producono con la formazione del silenzio.

Oltre che nei rapporti verticali, tra amministrazione e cittadino, il silenzio della PA può assumere il significato di provvedimento tacito di assenso anche nei rapporti orizzontali, tra pubbliche amministrazioni. In particolare, nei casi in cui alla decisione concorrano più amministrazioni che svolgono una funzione co-decidente, esso funge da strumento di semplificazione dell’attività amministrativa.

Tali ipotesi si configurano con la conferenza dei servizi, ai sensi degli articoli 14 bis e 14 ter della legge sul procedimento amministrativo, e con silenzio nei rapporti tra le pubbliche amministrazioni, i cui effetti sono disciplinati all’articolo 17 bis della medesima legge.

Nel primo caso, si forma il silenzio-assenso quando la PA non partecipa alla conferenza, vi partecipa ma rimane silente o esprime un dissenso non motivato: in tutti questi casi, l’inerzia dell’amministrazione equivale ad un assenso.

Ugualmente, nel caso in cui l’amministrazione procedente richieda a un’altra PA co-decidente un nulla osta, un assenso, un concerto o un’intesa e quest’ultima rimanga silente, il silenzio viene considerato assenso.

Orbene, anche in tali casi si applica agli atti tardivi il medesimo regime applicabile nei casi di silenzio-assenso nei rapporti verticali.

Le novità introdotte dal Decreto Semplificazioni.

Le fattispecie menzionate sono espressamente richiamate dal Decreto Semplificazioni (D.L. 76/2020) nel nuovo comma 8 bis dell’art. 2 della legge sul procedimento amministrativo.

Tale norma ha una rilevante portata innovativa, in quanto dispone l’inefficacia degli atti tardivi adottati dalla pubblica amministrazione, al fine di incentivare il rispetto dei termini procedimentali e l’osservanza del dovere di esercitare l’attività entro un termine ragionevole.

Alla luce della disposizione in esame, soggiacciono alla sanzione dell’inefficacia i provvedimenti, le autorizzazioni, i pareri, i nulla-osta e gli altri atti di assenso adottati dopo la scadenza dei termini relativi alla conferenza dei servizi, ai rapporti tra le pubbliche amministrazioni, al silenzio-assenso e alla scia.

Con riguardo alla natura dell’inefficacia prevista dal comma 8 bis dell’art. 2 L 241/1990, si sono prospettate due possibili linee interpretative.

Secondo una prima prospettiva, l’inefficacia dell’atto tardivo costituirebbe la conseguenza di un vizio, venendosi a configurare un’ipotesi di inefficacia – nullità. In particolare, tra i casi tassativi di nullità degli atti amministrativi previsti dalla legge sul procedimento, quello che appare meglio aderire all’inefficacia dell’atto tardivo è la carenza di potere: l’atto diverrebbe nullo perché adottato in totale assenza di potere, consumato dal decorso del termine per provvedere e dalla formazione del silenzio. Di conseguenza, la tutela per il soggetto che si vede pregiudicato dall’atto tardivo sarebbe rappresentata dall’azione di nullità.

L’adesione a tale orientamento interpretativo genera dubbi in merito al campo di applicazione della norma in esame. Essa, infatti, prevede l’inefficacia degli atti tardivi in una serie determinata di ipotesi. Tuttavia, considerando l’inefficacia come nullità per carenza di potere, essa potrebbe essere applicata estensivamente anche a fattispecie non espressamente previste, quali casi di silenzio-rigetto o di silenzio-inadempimento, in cui il potere si è consumato. Attraverso tale interpretazione, dunque, sembrerebbe che la norma sancisca in via generale l’inefficacia degli atti tardivi, nonostante il catalogo di fattispecie dettato dal legislatore.

L’altra possibile interpretazione della norma concepisce l’atto come inefficace, senza tuttavia prevedere una causa e prescindendo dalla nullità. In particolare, secondo tale prospettiva, il legislatore prescriverebbe l’inefficacia come sanzione della tardività. Le conseguenze appaio diverse sia con riferimento alla tutela del soggetto pregiudicato dall’atto tardivo che con riguardo al campo di applicazione della norma.

Per quel che concerne la tutela del privato, non esistendo un’azione apposita per l’inefficacia, l’unica via percorribile sarà l’azione di mero accertamento. Tale azione, a differenza di quella di nullità, può essere accidentale e non è assoggettata a un termine decadenziale o di prescrizione.

Quanto al campo di applicazione della norma, concependo l’inefficacia come una sanzione essa sarà di stretta applicazione, non suscettibile di estensione ai casi non espressamente previsti, per i quali può continuare a valere la soluzione prospettata dalla giurisprudenza prima del D.L. 76/2020, secondo la quale l’atto tardivo sarebbe annullabile per violazione di legge dovuta al cattivo esercizio del potere.

Altro aspetto rilevante della novella legislativa concerne il potere di annullamento in autotutela, che viene fatto salvo dal nuovo comma 8 bis.

La norma infatti dispone che, se il silenzio-assenso è illegittimo a causa della carenza dei presupposti previsti per l’accoglimento dell’istanza, non essendo possibile adottare l’atto tardivo di rigetto in quanto inefficace, la PA può annullare gli effetti del silenzio in autotutela. Tuttavia, evidenzia come debbano sussistere i presupposti elencati dall’art. 21 nonies della L. 241/1990.

Ci si è chiesti se la possibilità per l’amministrazione di annullare gli effetti del silenzio attraverso l’autotutela si rinvenga anche nei casi di silenzio-assenso nei rapporti orizzontali.

L’art. 2 comma 8 bis L. 241/1990 prevede genericamente l’esercizio dell’autotutela. Tuttavia, in tali ipotesi si tratta di determinazioni pluristrutturate, in cui il silenzio si forma in un contesto endoprocedimentale: ciò che si può rimuovere in autotutela, dunque, non è il silenzio-assenso, ma la decisione finale. Pertanto, appare possibile affermare che la pubblica amministrazione può agire in autotutela, ma che essa deve avere ad oggetto la co-decisione finale, non il silenzio-assenso.

Gli atti adottati a seguito della nomina del commissario ad acta: i quesiti rimessi all’Adunanza Plenaria.

Un’altra questione rilevante riguarda il regime degli atti tardivi della pubblica amministrazione adottati a seguito della nomina del commissario ad acta.

Tale problema è strettamente connesso ad un ulteriore interrogativo, riguardante l’effetto che si attribuisce alla nomina o all’insediamento del commissario ad acta: non è pacifico, infatti, se l’intervento dell’ausiliario del giudice precluda l’esercizio del potere per la PA, producendo un effetto di esautoramento.

Con riguardo a tali questioni si sono sviluppati diversi orientamenti e, con l’ordinanza n. 6925 del 10 novembre 2020, è stata interpellata l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

Secondo una prima impostazione, la nomina del commissario ad acta realizzerebbe una forma di esautoramento della PA, con conseguente trasferimento della titolarità del potere in capo a questi. In particolare, non potendo lo stesso potere essere esercitato da due organi diversi, il potere-dovere dell’amministrazione di esercitare l’attività amministrativa verrebbe meno con la nomina del commissario ad acta: egli, infatti, essendo un ausiliario del giudice può esercitare lo stesso potere che la PA  avrebbe dovuto esercitare entro il termine stabilito.

Tale orientamento trova un fondamento normativo nell’art. 117 c.p.a. che, non contenendo più la previsione della legge precedente (art. 21 bis, terzo comma, L. 1034/1971), dalla quale si deduceva che la PA era abilitata a esercitare il proprio potere fino al momento dell’insediamento del commissario ad acta, sarebbe sintomatico della volontà del legislatore di esautorare la PA sin dalla nomina dell’ausiliario del giudice.

Orbene, alla luce di tali considerazioni, è possibile affermare che gli atti adottati dall’amministrazione dopo la nomina del commissario ad acta siano adottati in carenza di potere e siano dunque atti nulli, inefficaci.

Tuttavia, l’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria tende ad escludere che si tratti di un’ipotesi di difetto assoluto di attribuzione. Nel caso degli atti tardivi, infatti, c’è una norma attributiva del potere, solo che esso è stato esercitato dopo la decorrenza del termine e la nomina del commissario ad acta. Si tratterebbe dunque di una carenza di potere in concreto, che determina l’annullabilità dell’atto.

Di diverso avviso è la prevalente giurisprudenza, secondo la quale la nomina del commissario ad acta non determinerebbe la perdita del potere di provvedere in capo alla PA, in quanto il suo esautoramento si realizzerebbe solo con l’insediamento: è a partire da tale momento che il potere si trasferisce in capo al commissario ad acta e diviene potenzialmente esercitabile da questi.

Tale impostazione è coerente con quanto affermato dall’Adunanza Plenaria in una pronuncia recente, nella quale afferma che è proprio l’insediamento del commissario ad acta a privare l’amministrazione del potere di provvedere.

La lacuna dell’art. 117 c.p.a., secondo questa prospettiva, viene superata sostenendo come sia implicito nei principi generali che il potere spetti al commissario ad acta dall’insediamento, non potendone dunque più essere titolare la pubblica amministrazione.

Secondo l’orientamento in esame, il regime dell’atto tardivo varia a seconda di quando l’atto è stato adottato. In particolare, se è stato adottato dopo la nomina del commissario ad acta ma prima del suo insediamento, non essendoci ancora stato l’esautoramento, la tardività non determina inefficacia dell’atto. Diversamente, se è stato adottato dopo l’insediamento, l’atto tardivo è inefficace in quanto la PA non ha più potere di provvedere. Anche in questo caso si pongono i dubbi sopra evidenziati con riguardo alla qualificazione del vizio in termini di nullità per carenza assoluta di potere o di annullabilità per carenza in concreto.

L’ultimo orientamento, condiviso da autorevole dottrina e dal Consiglio di Stato nell’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria, ritiene che non si realizzi nessun esautoramento della pubblica amministrazione, né con la nomina né con l’investitura del commissario ad acta. La competenza di quest’ultimo diviene concorrente con quella dell’amministrazione, in quanto essendo organi diversi non si verifica alcun effetto di esautoramento.

Anche alla luce di questa prospettiva si può giustificare la lacuna normativa dell’art. 117 c.p.a. rispetto alla norma previgente: l’eliminazione della previsione sarebbe sintomatica della volontà del legislatore di non esautorare l’amministrazione nemmeno con l’insediamento.

In quest’ottica muta il regime degli atti adottati tardivamente, i quali non sarebbero né illegittimi né inefficaci, in quanto la PA continuerebbe ad essere titolare del potere di provvedere, nonostante il concorrente potere del commissario ad acta.

Peraltro, nell’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria si evidenzia come la concorrenza del potere di provvedere dell’amministrazione e del commissario ad acta si possa dedurre da principi generali dell’ordinamento, quali quello di legalità, in relazione al riparto di competenze e in connessione con l’art. 97 Cost. In particolare, si evidenzia che il principio di legalità in relazione al riparto di competenze verrebbe violato qualora vi fosse l’esautoramento della PA in assenza di una disposizione di legge o di una sentenza esplicita del giudice basata su una norma di legge che prevedono tale effetto. Peraltro, anche alla luce del principio di certezza dei rapporti di diritto pubblico, emerge come solo un atto univoco, espresso e chiaro possa incidere sul riparto di competenze.

Appare opportuno osservare, tuttavia, che la tesi in esame presenta un profilo di criticità.

Il concorso di competenze può essere fonte di divergenze, in quanto la determinazione della PA può non coincidere con quella del commissario ad acta. Peraltro, se i due soggetti provvedono con atti antitetici, si pone il problema di individuare l’atto prevalente.

Alla luce di tali dubbi interpretativi, all’Adunanza Plenaria sono stati rimessi le seguenti questioni:
a) se la nomina del commissario ad acta (disposta ai sensi dell’art. 117, comma 3, del c.p.a.) oppure il suo insediamento comportino – per l’amministrazione soccombente nel giudizio proposto avverso il suo silenzio – la perdita del potere di provvedere sull’originaria istanza, e dunque se l’amministrazione possa provvedere ‘tardivamente’ rispetto al termine fissato dal giudice amministrativo, fino a quando il commissario ad acta eserciti il potere conferitogli (e, nell’ipotesi affermativa, quale sia il regime giuridico dell’atto del commissario ad acta, che non abbia tenuto conto dell’atto ‘tardivo’ ed emani un atto con questo incoerente);

b) per il caso in cui si ritenga che sussista – a partire da una certa data – esclusivamente il potere del commissario ad acta, quale sia il regime giuridico dell’atto emanato ‘tardivamente’ dall’amministrazione.

Conclusioni.

Orbene, alla luce dell’analisi svolta appare evidente come il principio di doverosità dell’azione amministrativa, che impone alla PA di determinarsi entro un tempo ragionevole, assuma nell’ordinamento una sempre maggiore rilevanza, sia grazie agli strumenti di esercizio dell’attività in forma semplificata, che consentono di rimediare in via preventiva al rischio che l’amministrazione rimanga inerte, sia a fronte delle novità legislative che, sancendo l’inefficacia degli atti tardivi, costituiscono un incentivo per la pubblica amministrazione ad esercitare il potere attribuitole tempestivamente.

Con riguardo alle questioni inerenti la nomina e l’insediamento del commissario ad acta, sarà opportuno attendere la pronuncia dell’Adunanza Plenaria.

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