Il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: le novità

Marsella Dario 01/03/12
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Il D.L. n. 78 del 2010, poi convertito in legge n. 122 del 2010, nel Titolo II intitolato “Contrasto all’evasione fiscale e contributiva” ha riformulato in chiave più “severa” l’art. 11 del D.lgs. 74/2000, disciplinante il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte.

L’art. 11 del D.lgs. 74/2000, in attuazione dell’art. 9, comma 2, lettera a), n. 4), della legge delega 25 giugno 1999, n. 205, nella sua precedente formulazione prevedeva che: <<Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad € 51.645,69 aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altri beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva>>.

L’art. 28, comma 4 del decreto legge n. 78/10, al fine di rendere più severa e rigida l’applicazione dell’art. 11, è intervenuto prevedendo:

  1. L’abbassamento della soglia di punibilità da € 51.645,69 ad € 50.000 ;

  2. l’inserimento di un ulteriore comma che prevede un aumento della pena, qualora, la somma che il contribuente intende sottrarre sia superiore a 200 mila euro, c.d. aggravante;

  3. l’introduzione di un’ulteriore fattispecie incriminatrice;

Con l’introduzione del secondo comma dell’art. 11 è stata prevista, appunto, un’ulteriore fattispecie delittuosa, legata all’ipotesi di transazione fiscale, che punisce con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni:”chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e dei relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila”.

Con il decreto legge n. 78 del 2010 viene, inoltre, introdotta nell’alveo dell’art. 11 un’ipotesi aggravante, che punisce con la pena della reclusione, da uno a sei anni, (rispetto all’ipotesi di cui al primo e secondo comma che prevedono la reclusione da sei mesi a quattro anni!) coloro che pongono in essere le condotte previste dai commi 1 e 2 dell’art. 11 superando la soglia di punibilità di euro 200.000.

Il delitto in esame si colloca a chiusura del Capo II e, contrariamente allo spirito della riforma introdotta con il D.lgs. n. 74/2000, non considera rilevante il momento della dichiarazione, ma, bensì, quello del versamento e della riscossione dei tributi.

La disposizione che ci accingiamo ad esaminare, anche dal punto di vista della sua applicazione giurisprudenziale, non rappresenta, però, una novità nel panorama normativo italiano.

Infatti, provando a fare un breve excursus rileviamo che già l’art. 30 del Regio Decreto n. 1608/1931 – testo unico delle disposizioni concernenti le dichiarazioni dei redditi e le sanzioni in materia di imposte dirette – puniva con la reclusione fino a tre mesi il contribuente inadempiente per sei rate successive di imposte che, al fine di sottrarsi al pagamento di tali imposte, poneva in essere degli atti fraudolenti sui propri o altrui beni rendendo inefficace in tutto o in parte l’esecuzione forzata promossa dall’esattore.

La norma di cui all’art. 30 del R.D. n. 1608/1931 veniva poi ripresa nell’art. 261 del D.P.R. 645/1958 che puniva con l’ammenda il mancato pagamento di sei rate consecutive di imposte per un ammontare pari a dodici mila lire e, appunto, con la reclusione il contribuente inadempiente che, allo scopo di sfuggire al pagamento delle imposte dovute, compiva sui propri o altrui beni degli atti fraudolenti che vanificavano totalmente o parzialmente la procedura di riscossione esattoriale.

Ma l’antecedente più recente dell’art. 11 del D.lgs. 74/00 è rappresentato dall’art. 97 del D.P.R. n. 602/73, come modificato dall’art. 15 della L. n. 413/91, tradizionalmente definito come “frode nell’esecuzione esattoriale”.

L’art. 97, comma 6 del D.P.R. 602/73 perseguiva penalmente il contribuente che poneva in essere degli atti fraudolenti, in grado di rendere inefficace l’esecuzione esattoriale, a seguito del compimento da parte dell’Amministrazione finanziaria di atti ispettivi di controllo (accessi, ispezioni, verifiche), o di atti endoprocedimentali (inviti) o di provvedimenti terminali di procedimenti amministrativi (avvisi di accertamento o iscrizioni a ruolo). Quindi, la norma richiedeva, ai fini della rilevanza penale delle condotte compiute dal contribuente, tre presupposti, ovvero:

  1. l’esito infruttuoso della procedura di riscossione coattiva (reato di danno);

  2. la preventiva attività di verifica, accertamento o iscrizione a ruolo da parte dell’Amministrazione;

  3. il superamento della soglia di punibilità di 10 milioni di lire.

Proprio per tali presupposti la fattispecie incriminatrice si è rivelata di scarsa applicazione nel corso degli anni, spingendo, di tal che, il legislatore ad una sua riformulazione al fine di rendere più efficace la lotta al depauperamento del patrimonio del contribuente – debitore, soprattutto, prevedendo la soppressione del momento da cui ritenere rilevante la condotta.

Pronunce giurisprudenziali. Partendo dagli interventi giurisprudenziali, rileviamo che già con la prima pronuncia in materia di sottrazione fraudolenta di imposte, avvenuta con la sentenza della Sez. III Penale del 18 aprile n. 15864 del 2001, la Suprema Corte non considerava più come presupposto necessario al fine del perfezionamento della norma de qua, la sussistenza di una procedura di riscossione in atto; in effetti, la Cassazione precisava che: “con la nuova fattispecie penale non è più richiesto il presupposto della previa effettuazione di accessi, ispezioni o verifiche o dalla preventiva notificazione all’autore della manovra di inviti, richieste, atti di accertamento o iscrizioni a ruolo, expressis verbis previsto, invece, della normativa precedente nominata “frode nell’esecuzione esattoriale”.

Da tale pronuncia si evince come l’intento del legislatore fosse quello di anticipare la linea di rilevanza penale, abbandonando, di tal che, l’opinione secondo cui: “il reato sarebbe configurabile solo in presenza di una procedura di riscossione coattiva”.

Queste conclusioni sono state smentite, però, dalla Sez. VI Penale della Cassazione con la Sentenza del 9 marzo 2005, n. 9251; in effetti, la Cassazione ha indicato come il reato in esame sia configurabile qualora sussistano tre presupposti:

  1. l’esistenza di specifiche procedure di riscossione di imposte sui redditi o sul valore aggiunto;

  2. l’individuazione di attività fraudolente miranti a frustrare tali procedure esecutive;

  3. l’identificazione dell’ammontare delle somme non corrisposte in misura superiore alla soglia fissata dal legislatore in euro 51.645,69, (ora, € 50.000).

Inoltre, questo indirizzo giurisprudenziale è stato confermato dalla Sentenza della Cassazione, Sez. II Penale, n. 7600 del 9 febbraio 2006, con la quale si è precisato che ai fini della configurazione del reato di sottrazione fraudolenta non è sufficiente l’esistenza di un debito tributario, cui segue una condotta depauperatoria, ma diviene necessario che l’atto fraudolento venga realizzato durante la procedura di riscossione di imposte dirette sui redditi o sul valore aggiunto. Quindi, si sottolinea anche in questo caso il ruolo fondamentale ricoperto: sia dalla presenza di un procedura esattoriale in fieri e sia dal carattere fraudolento delle manovre realizzate.

Tale orientamento è stato, pacificamente, superato dalla dottrina che non considera necessaria, ai fini della rilevanza penale della condotta, la presenza di una procedura di riscossione coattiva.

In effetti, viene sottolineato dalla dottrina – per dissipare equivoci interpretativi – che le argomentazioni relative alla necessarietà di un procedura di riscossione in fieri confliggono con la voluntas legis desumibile: dalla lettera della norma e dalla Relazione illustrativa al D.lgs. 74/00. Riesce, per questo, “difficile immaginare che il contribuente attenda sino all’inizio della procedura di riscossione coattiva prima di compiere gli atti fraudolenti aventi finalità evasiva egli obblighi d’imposta”.

Queste riflessioni sono state riprese anche da successivi interventi giurisprudenziali in materia. In particolare, nella Sentenza n. 17071 del 2006, pronunziata dalla III Sezione Penale della Cassazione, si ritiene che per la configurazione del reato di sottrazione fraudolenta ex art. 11 non occorre né che il soggetto attivo sia stato posto, in qualche maniera, in condizione di aspettarsi un’azione esecutiva, né che tale azione esecutiva sia in atto. In quanto, per la Suprema Corte: “l’art. 11 non contenendo più alcun riferimento alle suesposte condizioni, supera, dunque, l’impostazione in base alla quale il reato era configurabile solo se il contribuente era stato in qualche modo posto in condizione di aspettarsi un’azione esecutiva da parte degli uffici tributari. Per il perfezionamento del reato, infatti, si richiede ora solo che l’atto simulato di alienazione o gli altri atti fraudolenti sui beni siano idonei ad impedire il soddisfacimento totale o parziale del Fisco”.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la Sentenza n. 7916 del 26 febbraio 2007 della Sezione II penale della Cassazione, la quale, non ritiene fondata la censura in base alla quale si sostiene che non sarebbe configurabile il reato de quo senza una procedura di riscossione in fieri. Quindi, il dato testuale della norma evocata non consente dubbi sul fatto che il riferimento alla procedura di riscossione riguarda, esclusivamente, il momento intenzionale e non la struttura del fatto tipico. Inoltre, con l’importante Sentenza n. 14720 del 9 aprile 2008, la Sezione III della Cassazione, prendendo in esame un caso di cessione di beni aziendali, affrontava anche la questione relativa alla necessarietà o meno di una procedura di riscossione in atto.

Ancora, con la Sentenza n. 25147 del 22 aprile 2009, la Suprema Corte ha ribadito che la fattispecie di cui all’art. 11, da una parte, non richiede più che l’amministrazione finanziaria abbia già compiuto un’attività di verifica, accertamento o iscrizione a ruolo, e dall’altra, non richiede l’evento, che nella previgente disciplina era la condicio sine qua non per la configurabilità della c.d. “frode esattoriale”, ovvero la sussistenza di una procedura di riscossione in atto e la effettiva vanificazione della riscossione tributaria coattiva.

Infine, va precisato che la fattispecie delittuosa ex art. 11 del D.lgs. 74/2000 costituisce un reato “di pericolo” e non, quindi, “di danno”, e l’esecuzione esattoriale – non costituendo un presupposto della condotta tipica – è prevista solo come un’evenienza futura che la condotta tende a frustrare o vanificare.

Marsella Dario

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