Il reato di diffamazione e i social network

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Postare un commento offensivo su un social network integra il reato di diffamazione a mezzo stampa.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24431/2015, ha stabilito che inserire un commento sulla bacheca di un social network significa dare al messaggio una diffusione che potenzialmente ha la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, e se risulta essere offensivo, si deve ritenere integrata la fattispecie del reato di diffamazione.

Il dovere di cronaca ci impone di scrivere subito in che consiste il reato di diffamazione a mezzo stampa.

La materia della diffamazione a mezzo stampa è un argomento delicato nella regolamentazione del mondo delle informazioni. La disciplina codicistica trova la sua ratio nella necessità di garantire i soggetti da informazioni inesatte o calunniose e nell’impossibilità delle vittime di accedere alla pari ai mezzi di informazione in modo da ottenere una rettifica, al quale, in molti casi, non può cancellare gli effetti negativi della notizia iniziale.

Il mondo di Internet, rispetto al mondo dell’informazione tradizionale, offre possibilità di accesso meno costose per coloro che volessero diffondere in rete rettifiche rispetto a notizie inesatte, e il semplice inserimento in rete non è sufficiente, un sito che gode di un ampio pubblico di fedeli “internauti” è in grado di ottenere un’audience molto ampia, che in minima parte sarebbe raggiungibile da chi volesse diffondere la smentita.

L’utilizzo distorto di Internet dovrebbe essere disincentivato dal fatto che un sito metta in gioco la propria credibilità attraverso l’esattezza delle informazioni che diffonde, ma l’autocontrollo indotto inizia ad essere meno efficace quando cambia la natura del pubblico raggiunto.

La questione della asimmetria tra potenziale calunniato e potenziale calunniatore resta anche nel mondo di Internet, un fallimento del mercato che può giustificare una presa di posizione pubblica che estenda la regolamentazione e gli obblighi di obiettività anche all’attività editoriale via Internet, cercando di evitare di andare a finire in una serie di oneri nel migliore dei casi inutili e nel peggiore forieri di un controllo esagerato.

Il reato è disciplinato dall’articolo 595 del codice penale, rubricato “diffamazione”, a norma del quale:

chiunque, al di fuori dei casi dei quali all’articolo 594 del codice penale, rubricato “Ingiuria”, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione sino a un anno o con la multa sino a € 1.032,00. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione sino a due anni, ovvero della multa sino a € 2.065,00. Se l’offesa è recata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altra forma di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad € 516,00.

L’articolo 596 bis del codice penale, rubricato “diffamazione a mezzo stampa”, dispone che se il delitto è commesso con il mezzo della stampa, lo stesso trattamento sanzionatorio, diminuito in misura non eccedente un terzo, è applicato al direttore o vicedirettore responsabile, all’editore e allo stampatore (per i reati dei quali agli artt. 57 c.p., Reati commessi col mezzo della stampa periodica, 57-bis c.p., Reati commessi col mezzo della stampa non periodica, e 58 c.p., Stampa clandestina), perché tenuti a esercitare sul contenuto del periodico il controllo necessario ad impedire che con il mezzo della pubblicazione siano commessi reati.

Il bene giuridico tutelato dal reato de quo è la “reputazione” e sulla questione la Suprema Corte di Cassazione ha precisato che l’oggetto della tutela penale del delitto in questione è l’interesse dello Stato all’integrità morale della persona, più precisamente, il bene giuridico è la “stima diffusa nell’ambiente sociale” o “ambiente professionale”, cioè l’opinione che gli altri hanno del suo onore e decoro (l’opinione della persona è rilevante solo allorché sia conforme a quella sociale).

Una interessante definizione si rinviene in una pronuncia di merito, in base alla quale la reputazione deve essere tutelata “sia come stima che una persona si è conquistata presso gli altri, sia come rispetto sociale minimo cui ogni persona ha diritto indipendentemente dalla buona o cattiva fama che derivi dalla sua condotta” (Trib. Roma, 14 giugno 1990).

Soggetto attivo del reato de quo è, in primo luogo, l’autore dello scritto dal contenuto diffamatorio. Ai sensi dell’articolo 57 del codice penale, nonché della normativa sulla stampa (l. 8 febbraio 1948, n. 47, Disposizioni sulla stampa, in Gazz. Uff. 20 febbraio 1948, n. 43, meglio nota come legge sulla stampa, l.s.), è responsabile anche il direttore del periodico, a titolo di concorso (quando anche se consapevole della potenzialità offensiva delle espressioni utilizzate nell’articolo, ne abbia, lo stesso autorizzato la pubblicazione), oppure per fatto proprio (se l’evento lesivo, pur non essendo voluto dal direttore, non si sarebbe verificato se avesse impiegato la dovuta diligenza nel controllare gli scritti destinati alla pubblicazione).

Ai sensi dell’art. 57 – bis del codice penale, le disposizioni delle quali all’articolo 57 del codioce penale, si applicano, nel caso di stampa non periodica, all’editore, se l’autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore, se l’editore non è indicato o non è imputabile. Inoltre, per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato, il proprietario della pubblicazione e l’editore (ex art. 11 l e seguenti).

Nel delitto di diffamazione non si deve di sicuro dimostrare l’animus diffamandi, è sufficiente il dolo generico anche nella forma del dolo eventuale, con l’accettazione del rischio della realizzazione di fatti diffamatori.

In relazione al soggetto passivo, è irrilevante l’indicazione nominativa del diffamato, potendosi la stessa dedurre da “relazioni inequivoche” a fatti e circostanze di notoria conoscenza, attribuibili a un determinato soggetto ma la giurisprudenza ha precisato che, la persona alla quale è diretta l’offesa, anche se non indicata nominativamente, deve essere “individuabile agevolmente e con sicurezza”.

La Suprema Corte ha affermato che in un caso di diffamazione posta in essere attraverso Internet, il reato si consumi al momento della ricezione del messaggio diffamatorio da parte di terzi rispetto all’agente ed alla persona offesa, trattandosi di un reato di evento non fisico ma, per così dire, psicologico, consistente nella percezione da parte del terzo dell’espressione offensiva, mentre ritiene che si tratti di un reato di pericolo, non richiedendosi un pregiudizio per la reputazione del soggetto passivo.

Ritornando ai social network, la Cassazione si confronta con l’utilizzo illecito e smodato degli stessi, e sottolinea la diffusività delle affermazioni che compaiono su questi siti.

In ragione del fatto che i commenti che compaiono sui social network hanno una diffusione capillare e potenzialmente illimitata, la Suprema Corte ritiene che le offese espresse in questo modo si debbano ritenere aggravate, come se commesse a mezzo stampa.

La diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall’utilizzo di una bacheca facebook ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché le stesse racchiudono un numero apprezzabile di persone, sia perché l’utilizzo di facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, “valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.

Di conseguenza, deve ritenersi che la condotta di postare un commento sulla bacheca facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione del commento, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone lo stesso apprezzabile per composizione numerica, in modo che, se è offensivo, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dal comma 3 dell’articolo 595 del codice penale.

Dott.ssa Concas Alessandra

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