Il processo civile tra ragionevole durata ed efficienza: il case management come spunto de iure condendo

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Sommario: 1. note introduttive: alla ricerca delle forme processuali più idonee a garantire la ragionevole durata e la giustizia delle decisioni. – 2. Case management, jurisdictional proportionality, easy case e complex litigation: uno sguardo al nuovo processo civile inglese. – 3. Il procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c. tra elasticità delle forme e garanzie costituzionali. – 4. Una prospettiva de iure condendo: verso forme processuali liquide per la maggior competitività del sistema di tutela giurisdizionale dei diritti.

  1. Note introduttive: alla ricerca delle forme processuali più idonee a garantire la ragionevole durata e la giustizia delle decisioni

L’obiettivo principale cui tende il moderno processo civile è quello di rendere decisioni quanto più giuste nel minor tempo possibile: è la giustizia della tabellarizzazione, dell’adozione di protocolli, di formalizzazione e standardizzazione degli atti processuali, della sinteticità, delle succinte motivazioni e, più in generale, ripetendo l’adagio costituzionale, della ragionevole durata.

In un’economia globalizzata che non accenna a frenare una giustizia compassata è inutile o addirittura dannosa[1]. La riduzione dei costi e dei tempi della giustizia passa, dunque, per l’adozione di strumenti che possano garantire l’economia processuale.

È necessario, in via preliminare, intendersi sull’esatta portata dell’espressione in parola richiamando due considerazioni di ordine generale:

  1. Il proprium dell’economia processuale sta nella diminuzione del rapporto tra il numero di liti derivanti dall’interazione sociale e quelli risolti dalle Corti, a parità di risorse impiegate;
  2. l’economia processuale può essere realizzata dagli operatori del sistema della giustizia attraverso l’esercizio di poteri discrezionali orientati nel senso della predetta diminuzione.

A sviluppare coerentemente la considerazione sub b) si giunge a foggiare un modello di gestione del processo che attribuisce ai giudici l’opportunità – rectius: la discrezionalità – di operare nelle zone grigie della nostra procedura, laddove il legislatore non abbia predeterminato forme e termini processuali.

Il tema che ci proponiamo di affrontare in questo contributo è il ruolo del giudice come manager del processo, al quale, essendo dotato di ampi poteri nella scelta delle forme processuali, delle prove e dei termini, è permesso di conformare il rito all’oggetto della lite, ottenendo dal sistema la massima efficienza possibile.

Il Carnelutti, già negli anni ’40, affermava che “la struttura del processo deve essere in funzione della qualità della lite[2]. Per quanto sia possibile, la struttura del processo deve essere adeguata alla struttura della lite. Osserva ancora il Carnelutti che le liti “sono diverse l’una dall’altra come le malattie: né alcun medico penserebbe a prescrivere per tutti i malati lo stesso metodo di cura[3]”.

In tal senso, nostro obiettivo vuol essere quello di lumeggiare concetti, istituti e caratteristiche proprie del case management e dei poteri di case manager – volgendo lo sguardo agli ordinamenti anglosassoni che già battono questa via – per la costruzione di un modello processuale improntato alla massima efficienza, nel rispetto dei corollari del giusto processo, ex artt. 111 Cost. e 6 CEDU, che in taluni casi possa far a meno del modello c.d. ordinario basato sulla predeterminazione delle forme e dei termini.

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L’opera affronta i singoli mezzi di prova, tipici e atipici, analizzandone caratteristiche e valore, al fine di guidare il professionista nella scelta più corretta per sostenere la propria linea difensiva.La peculiarità del volume consiste nella trattazione della prova in relazione ai singoli tipi di procedimento: oltre alle prove nell’ambito del rito ordinario, gli Autori affrontano la tematica in relazione, fra gli altri, al procedimento di separazione, al procedimento monitorio e a quello cautelare.La trattazione si sviluppa basandosi sul dato normativo e sulle recenti pronunce giurisprudenziali relative all’utilizzo nonché alla portata probatoria dei singoli mezzi di prova, aiutando in tal modo l’operatore ad orientare il proprio lavoro, confrontandosi con casi pratici.a cura di Gianluca MorrettaAvvocato, partner dello studio R&P Legal, con particolare esperienza nel contenzioso civile e commerciale. È esperto nella tutela della proprietà industriale e intellettuale.Maria Teresa BartalenaAvvocato, si occupa di diritto civile e svolge la propria attività prevalentemente nel settore banking and finance.Nicola Berardi Avvocato, opera nel settore del diritto commerciale, con particolare riferimento al diritto della proprietà industriale e delle nuove tecnologie.Alberto CaveriAvvocato, partner dello studio R&P Legal, si occupa di contenzioso ordinario e arbitrale per conto di enti pubblici e primarie società.Ludovica CerettoAvvocato, svolge la propria attività nei settori del commercio elettronico, del trattamento dei dati personali, del diritto della comunicazione e della pubblicità, dei servizi online e del diritto d’autore.Antonio Faruzzi Avvocato, opera nel settore del diritto commerciale, occupandosi in particolare di operazioni straordinarie di fusione ed acquisizione e di contenziosi civili.Beatrice GalvanAvvocato, si occupa di diritto civile, con particolare esperienza nel contenzioso civile e nel diritto commerciale e societario.Paolo GrandiAvvocato, partner dello studio R&P Legal, esperto di contenzioso commerciale e societario. 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È autore di pubblicazioni su condominio e locazioni.Serena SibonaDottoressa, laureata nel 2017 presso l’Università di Torino, ha maturato esperienze accademiche all’estero. Da gennaio 2018 si dedica prevalentemente al diritto commerciale e al trattamento dei dati personali.Caterina Sola Avvocato, partner dello studio R&P Legal, da oltre 25 anni svolge la propria attività nell’ambito del contenzioso civile, avendo maturato particolare esperienza soprattutto nei procedimenti cautelari ed esecutivi.Stefania Tiengo Avvocato, partner dello studio R&P Legal, si occupa principalmente di contenzioso civile e di assistenza alle imprese nell’ambito della contrattualistica, soprattutto nel settore immobiliare e delle locazioni.Monica Togliatto Avvocato, partner dello studio R&P Legal, dottoressa di ricerca in diritto civile presso l’Università degli Studi di Torino. Si occupa di diritto della pubblicità, proprietà intellettuale ed industriale, diritto dei consumatori.Margherita Vialardi Avvocato, si occupa prevalentemente di contenzioso civile ordinario e arbitrale, con particolare esperienza nel settore della responsabilità professionale.Matteo Visigalli Avvocato, si occupa di diritto civile prestando assistenza giudiziaria, ordinaria e arbitrale, con particolare specializzazione nel contenzioso commerciale e societario.

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  1. Case management, jurisdictional proportionality, easy case e complex litigation: uno sguardo al nuovo processo civile inglese

Come già accennato, nei paesi di Common Law si marcia verso un ripensamento dei poteri del giudice nel processo civile. Dagli anni ’70 ad oggi si è passati da un modello adversary[4] –costruito su scarsi poteri di controllo del giudice, nel quale le parti si affrontano nel rispetto formale delle regole di procedura – a un modello che privilegia un ruolo attivo dell’organo giudicante, capace di far fronte ai problemi più complessi del percorso giudiziale (durata, liti complesse, collettive, costi)[5].

In Inghilterra, le Civil Procedure Rules del 1998 hanno cambiato radicalmente la procedura civile. Queste norme, infatti, hanno modificato la cultura originaria della English civil litigation ed hanno favorito un ruolo di maggior coinvolgimento del giudice nell’avanzamento della lite e nel suo svolgimento formale.

Non a caso la fase antecedente alle riforme del ’98 viene ricordata come il periodo del “party control”.

Lo spirito spiccatamente pragmatico dei giuristi inglesi si è tradotto nell’adozione di strumenti flessibili e fluidi, panacea di tutti i mali della giustizia[6], da quello dei costi giudiziari in Inghilterra, all’abuso del processo stesso.

Di conseguenza, accanto al controllo legale del rito, è stata avvertita l’esigenza del controllo del giudice, che, dalle riforme del ’98, riveste il ruolo di organizzatore del processo[7].

Pertanto, il modello di case management si è imposto quale necessità storica, con il chiaro obiettivo di rendere il processo idoneo a promuovere una giustizia quanto più effettiva ed accessibile; soluzione a situazioni di abuso dello strumento del processo. In tale modello, effettività e accessibilità hanno stretta relazione con il principio della ragionevole durata e quello dell’economia processuale[8].

Il modello processuale di active case management è caratterizzato oltre che dal conferimento al giudice di ampi poteri di identificazione della controversia, delle questioni più complesse, che richiederebbero un rito diverso, anche dall’attuazione cooperativa delle parti.

Altra novità inedita nei sistemi processuali, data la sua ampiezza, è che al giudice del case management è conferito il potere di scegliere il procedimento (track) in base alle caratteristiche individuali di ciascuna causa civile, foggiando il rito come un abito su misura per la singola lite, secondo una valutazione di economia processuale ed efficienza, senza pregiudizio alcuno del diritto di difesa.

Il prius per l’accoglimento di un sistema processuale siffatto risiede nell’idea – avversata, invero, dai nostri pratici – che una relativa assenza di predeterminazione può significare una accentuata crescita di efficienza.

Così ogni aspetto della cognizione viene dominato dai poteri del giudice: dalla scelta del rito, alle modalità del contradditorio, passando per la scelta delle forme e dei termini, financo ad incidere sull’ammissibilità di talune prove per l’acquisizione delle quali sarebbe più idoneo un rito a cognizione non semplificata.

Si vuole, dunque, evitare lo sperpero della “risorsa giustizia”, oggi quanto mai limitata e preziosa, così da dedicare al singolo caso tempi e risorse adeguati, sia rispetto alle esigenze di quel caso, ma anche a quelle complessive del carico giudiziario[9].

È questa la Jurisdictional Proportionality, tra le risorse complessive a disposizione dell’ordinamento giudiziario e quelle spendibili per la risoluzione della singola controversia.

Pertanto, l’adeguata trattazione delle liti trova un tertium comparationis nella ragionevole durata; le recenti riforme in materia processuale sono tutte nate sotto il segno dell’economia processuale e volgono verso l’obiettivo di realizzare il valore della ragionevole durata. Lo spazio necessario: nulla di più e nulla di meno al diritto alla difesa.

Le riforme italiane ci portano diversi esempi di tale impostazione. Così, l‘art. 702-ter, comma 5 e l’art. 669-sexies, comma 1°, c.p.c., hanno come nucleo inderogabile soltanto il rispetto del contraddittorio, per il resto la discrezionalità del giudice è piena. Le scelte del legislatore attuale ci conducono alla sommarizzazione, con cognizione piena sebbene non predeterminata nei tempi e nelle forme.

  1. Il procedimento sommario di cognizione ex 702-bis c.p.c. tra elasticità delle forme e garanzie costituzionali

In Italia merita di essere ricordata, fra gli interventi legislativi di carattere alluvionale, la legge del 18 giugno 2009, n. 69, che, da un lato, ha abrogato il rito sommario societario, dall’altro, invece, ha introdotto il procedimento sommario di cognizione (artt. 702-bis-702-quater).

Sia concessa una notazione di carattere sistematico: alquanto discutibile pare la collocazione di questo nuovo rito in prosecuzione della disciplina dei procedimenti cautelari (capo III-bis del titolo I del libro IV del codice). Manca qualsivoglia trait d’union rispetto ai riti c.d. speciali, se non quella generica finalità acceleratoria che è propria di questo nuovo rito, il quale, peraltro, differentemente dai procedimenti cautelari, prescinde dalle particolari ragioni di urgenza (periculum in mora)[10].

Lungi dal ricondurre il rito in questione nel novero dei riti speciali, l’art. 702-bis racchiuderebbe il tentativo del legislatore di semplificare quanto più possibile le forme del processo di cognizione nel rispetto dei principi dell’art. 111 Cost.: la riserva di legge in materia processuale, il principio del contraddittorio, l’uguaglianza delle parti, l’imparzialità del giudice ed infine la ragionevole durata del processo. Non si tratta di un processo a cognizione semplificata poiché superficiale[11], rectius: la sommarietà appartiene solo alla prima fase in quanto contro l’ordinanza che chiude la prima fase, ovvero il primo grado del procedimento sommario, è proponibile l’appello nelle forme e nei modi di cui all’art. 702-quater.

È il caso di rilevare che l’omissione di ogni formalità non essenziale al contraddittorio, ex art. 702-ter, nonché la facoltà concessa al giudice di procedere nel modo che egli ritiene più opportuno agli atti di istruzione, costituiscono il proprium della sommarietà, ovvero la semplificazione e la discrezionalità delle forme di trattazione e istruzione della causa[12], con provvisorie deroghe ai principi del giusto processo, ex art. 111 Cost., che potranno, altresì, essere realizzati in grado di appello.

Il processo sommario di cognizione è, dunque, alternativo rispetto al processo a cognizione piena, regolato negli artt. 163 e ss c.p.c., allorquando la controversia rientri nelle materie devolute al Tribunale in composizione monocratica. Non sono contemplate limitazioni al diritto d’azione, di talché è possibile utilizzare il procedimento sommario di cognizione per ogni tipo di azione, che sia di condanna, di mero accertamento o costitutiva.

Se invece il giudice ritiene che le difese svolte dalle parti richiedano un’istruzione non già sommaria, bensì piena, con ordinanza non impugnabile, può disporre il passaggio al processo a cognizione piena, fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.[13].

Può dunque dirsi che la cognizione ex 702- bis è sì sommaria ma allo stesso tempo esauriente e, fuor di ossimoro, nell’ipotesi di easy case il procedimento sommario di cognizione è la scelta più adeguata, mentre nell’ipotesi di complex litigation lo strumento del mutamento del rito assicura il rispetto del principio di economia processuale, di talché le risorse impiegate saranno in funzione della qualità e della complessità della lite.

Proprio a tale riguardo, la Corte costituzionale ha riconosciuto che i principi costituzionali che innervano il giusto processo non presuppongono l’esistenza di un unico modello processuale[14]; in altri termini, il legislatore può disporre delle forme processuali con una certa libertà.

La durata del processo, per essere ragionevole, nei termini descritti dal comma 2 dell’art.111 Cost., deve conciliarsi anche con le altre tutele costituzionali e con il diritto delle parti di agire e difendersi in giudizio garantito dall’art. 24 Cost: i corollari del giusto processo sono in reciproca tensione e rappresentano interessi costituzionali dirimenti che, nella discrezionalità operativa del giudice, in un’ottica di case management, devono essere bilanciati per perseguire una giustizia quanto più rapida ed effettiva.

  1. Una prospettiva de iure condendo: verso forme processuali liquide per la maggior competitività del sistema di tutela giurisdizionale dei diritti

È possibile allo stato del diritto positivo italiano rinvenire nella legislazione processuale ipotesi di case management? Abbiamo già accennato all’espansione dei poteri discrezionali del giudice nel nuovo procedimento sommario di cognizione (art. 702-ter, comma 5) e nel procedimento cautelare uniforme (art. 669-sexies).

Vediamo ora se seguendo le tracce della riforma del 2009 è possibile rinvenire altre ipotesi. L‘articolo 81-bis delle Disposizioni di attuazione del Codice di Procedura Civile, introdotto dalla legge 69/2009, e l‘art. 175 c.p.c., stabiliscono che il giudice può fissare un calendario del processo all’inizio della trattazione della causa, sentite le parti e tenuto contro dell’urgenza e della complessità della causa, nel rispetto del principio della ragionevole durata del processo[15]. Questa disposizione è ispirata alla disciplina francese del calendrier du procès. Anche nel procedimento inglese, d’altra parte, ci sono disposizioni simili che parlano di trial date, essendo attributo alle parti e al giudice il potere di fissare il tempo del processo.

Tuttavia, la procedura civile italiana è ancora priva di un sistema sanzionatorio che garantisca l‘osservanza del calendario processuale; donde deriva l’inadeguatezza dello strumento suddetto a garantire un controllo efficace del giudice. L’assenza di coercizione influisce negativamente sull’efficienza del processo, diversamente dal sistema inglese, il quale, invece, risponde all’inosservanza con adeguate sanzioni[16].

L’attribuzione di maggiori poteri di direzione e controllo al giudice può accrescere il grado di parità delle parti nel processo; ancora, il corretto esercizio dei poteri discrezionali può condurre ad un processo più equo, più democratico, nonché più celere, attraverso la flessibilità delle forme processuali.

Questi poteri non minerebbero il principio dispositivo bensì si limiterebbero ad aspetti del giudizio indipendenti rispetto all’oggetto del processo il quale, beninteso, rimane sempre nel monopolio delle parti. In tal senso, l‘articolo 702-ter del c.p.c. costituisce una prima, sebbene timida, apertura del sistema italiano ad un modello deformalizzato, unitamente al calendario del processo (art. 81-bis disp att.), pur essendo ancora lontani dal vero e proprio caso di case management di matrice anglosassone.

Pertanto, appare possibile leggere nel rito ex 702-bis c.p.c., laddove affida al giudice una valutazione prognostica sulla scelta del rito più opportuno, un rinvio al case management britannico, nello sforzo inesausto di migliorare, per quanto possibile, l’efficienza della giustizia civile. Al netto delle considerazioni dianzi svolte, ci pare fortemente criticabile l’atteggiamento del legislatore che ha addirittura elevato a modello[17] il procedimento sommario di cognizione, riconducendo nel suo alveo procedimenti sparsi nella legislazione speciale che ben poco – se non nulla – hanno in comune[18].

Con il d.lgs n. 150 del 2011 il procedimento sommario di cognizione viene elevato a dignità di modello processuale, insieme al rito c.d. ordinario ed al processo del lavoro, perdendo così il carattere di elasticità che ne costituisce il proprium.

Vale la pena notare che per espressa previsione dell’art. 54, della legge delega n. 69/2009, ai procedimenti speciali ricondotti nel rito sommario di cognizione non si applica la possibilità di conversione del rito, sebbene si tratti di controversie aventi ad oggetto prevalentemente diritti indisponibili[19]. A proposito si è parlato di rito sommario “secco” o “bloccato”, non idoneo alla trasformazione in rito ordinario, neppure quando la fattispecie concreta risulti complessa e di non facile liquidazione.

Le esigenze di economia processuale non posso soffocare i principi costituzionali del diritto alla difesa e del contraddittorio: ciò che andrebbe attinto dagli altri Paesi è una cultura della giustizia e delle riforme per fugare l’ormai risalente idea secondo cui il processo sia una “pratica da evitare” e laddove non sia possibile da liquidare in fretta.

Per queste ragioni, il processo civile deve essere come un Giano bifronte: guardare e alle ragioni di economia processuale e alla tutela dei diritti fondamentali delle parti. L’economia processuale è perseguibile attraverso strumenti deflativi che, da un lato, non portino le parti a dedurre nel singolo processo più di quanto debba essere dedotto, poiché in tale ipotesi all’effetto deflativo generale seguirebbe un effetto inflativo delle questioni trattate nel singolo processo, dall’altro, promuovendo la giustizia privata, con un controllo di omologazione a posteriori. Non ci pare che la preclusione da giudicato implicito[20], per le ragioni suesposte, valga quale strumento di economia processuale in senso tecnico, poiché alla tendenziale riduzione del numero dei fascicoli, dovuta all’estensione dei limiti oggettivi del giudicato anche a questioni non discusse, segue l’inflazione delle deduzioni nel singolo processo e, per una sorta di eterogenesi dei fini, la regola processuale dell’estensione del giudicato anche a questioni non discusse nel contraddittorio tra le parti rende attuale un interesse che altrimenti sarebbe solo potenziale[21].

Più difficile risulta coniugare le garanzie costituzionali di natura processuale con la sollecita definizione delle controversie. De iure condendo, l’accento delle riforme dovrà cadere sulla capacità del sistema di giustizia di applicare correttamente la legge, così da incentivare un ricorso più frequente alle forme di composizione amichevole delle liti, così da provocare conseguentemente un virtuoso circuito deflativo.

Le ricadute di un percorso di questo tipo possono poi condurre anche a un complessivo miglioramento del contenzioso pendente per numero e qualità: in via ipotetica, la giurisdizione italiana potrebbe, in tal caso, acquisire una maggior forza attrattiva per il contenzioso di dimensione transnazionale, allorquando le parti abbiano a disposizione margini di forum shopping.

Il miglioramento del sistema giurisdizionale, in termini di competitività, sarebbe poi un fattore di aumento di redditività del sistema economico nazionale.

Se si accolgono queste premesse di ordine generale, la soluzione tecnica che meglio coniuga riduzione dei tempi del processo, economicità ed efficienza consiste, prendendo a mo’ di esempio il sistema inglese, nel principio di proporzionalità, cui abbiamo già accennato, secondo il quale le forme e i tempi del processo debbono, per quanto possibile, dipendere dalla valutazione discrezionale e revocabile del giudice, in considerazione del grado di complessità di ogni specifica causa.

Appare dunque apprezzabile che si eliminino incongrue rigidità della fase introduttiva, le quali mortificano l’accesso alle vie della giustizia, con pesanti ricadute sull’equità sociale, come si è fatto con l’introduzione dell’art. 183-bis c.p.c., che permette di volgere dal rito a cognizione piena al rito a cognizione sommaria, nell’auspicio che il legislatore delle riforme tenga conto di queste direttive (e che eviti inoltre di imporre inutili attività preparatorie alle parti preliminari all’udienza, come nell’infelice rito societario di cui al d.lgs. n. 5 del 17.1.2003, oggi abrogato).

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Note

[1] Sul tema del tempo e della giustizia nel moderno processo civile, nella prospettiva comparata, si rimanda ad A. GIUSSANI, Efficienza della giustizia e cultura delle riforme, 2017, p. 241-246, spec. 242, secondo cui “non sembra peregrino valutare l’efficienza della giustizia civile in base a un parametro più complesso[rispetto al rapporto tra giudizi promossi e giudizi conclusi, aggiunta di chi scrive]: quello del rapporto fra i conflitti generati dall’interazione sociale e i conflitti risolti in applicazione della legge sostanziale. In un’ottica di questo genere ostacolare l’accesso alla giustizia si traduce in realtà in perdite di efficienza, perché la risoluzione stragiudiziale dei conflitti esclusi dalla tutela giurisdizionale difficilmente può rispecchiare le scelte legislative: più che di economia processuale conviene in tali occasioni parlare di avarizia processuale; ma l’avarizia non è parsimonia, e non è qualità del buon padre di famiglia. Massimizzare la capacità dell’amministrazione della giustizia di applicare correttamente la legge, invece, può innescare un circolo virtuoso deflativo proprio perché può rendere più frequente una composizione amichevole delle liti in termini corrispondenti a tali scelte […]. Una siffatta competitività del sistema giurisdizionale sarebbe però tutt’altro che deleteria per il sistema economico nazionale. Se si accolgono queste premesse di ordine generale, la soluzione tecnica che meglio coniuga accelerazione ed efficienza consiste, secondo le ricerche comparatistiche, nel principio di proporzionalità, secondo il quale le forme e le tempistiche del processo debbono assai largamente dipendere dalla valutazione discrezionale e revocabile del giudice intorno al grado di complessità di ogni specifica causa”.

[2] F. CARNELUTTI, Lineamenti della riforma del processo civile di cognizione, in Studi di diritto processuale, Padova, 1939, p. 398.

[3] F. CARNELUTTI, Diritto e processo, Napoli, 1958, pag. 156-157.Così anche F. CIPRIANI, Il processo civile italiano fra efficienza e garanzie, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, p. 1256, secondo cui “è sperabile che in questo nuovo secolo sia rivalutato e attuato il principio carneluttiano dell’elasticità, che in verità fotografa molto bene la necessità che il processo si adegui alle necessità della singola causa”.

[4] Sul presunto contrasto fra modello avversario e inquisitorio ebbe a scrivere Jolowicz, in Adversarial and Inquisitorial Models of Civil Procedure, in Int. Comp. L. Q., 52, 2003, p. 281: “a pure adversarial procedure is no more capable of existing in the real world than a purely inquisitorial one… the most that can be said is that some systems are more adversarial — or more inquisitorial — than others”.

[5] A. DONDI, V. ANSANELLI e P. COMOGLIO, Processi Civili in Evoluzione, Milano, 2015, p. 47.

[6] R. TISCINI, Il procedimento sommario di cognizione, fenomeno in via di gemmazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1, 2017, p. 120

[7] R. DONZELLI, La fase preliminare del nuovo processo civile inglese e l‘attività di case management‖ giudiziale, in Davanti al giudice. Studi sul processo societario, a cura di L. Lanfranchi e A. Carratta, 2005, Torino, p.11.

[8] Così in Inghilterra processi la cui durata media era di cinque anni giungono ora a decisione, statisticamente, in diciotto mesi, così B. FICCARELLI, in Fase preparatoria del Processo civile e case management giudiziale, Napoli, Edizione Scientifiche Italiane, 2011, p. 135.

[9] P. BIAVATI, Osservazioni sulla Ragionevole Durata del Processo di Cognizione, in Riv. trim. dir. proc. civ., fasc. 2, 2012, p. 475.

 

[10] C. MANDRIOLI e A. CARRATTA, Diritto processuale civile, IV, XXVI edizione, Giappichelli editore, Torino, 2017. P. 399; A. CARRATTA, in C. MANDRIOLI e A. CARRATTA, Come cambia il processo civile, Torino, 2009, p. 137.

[11] G. CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Napoli, ristampa 1965, p. 202.

[12] Cass., 25 febbraio 2014, n. 4485, in Banca dati DeJure; nella giurisprudenza di merito Trib. Campobasso 9 maggio 2013; Trib. Prato 10 novembre 2009; Trib. Bologna 29 ottobre 2009; Trib. Tivoli, 4 novembre 2010, in banca dati DeJure; sull’ammissibilità del procedimento sommario di cognizione in ipotesi di condanna generica, sulla base della considerazione che è sufficiente per la pronuncia di tale condanna “la prova sommaria o presuntiva della sussistenza in concreto di un danno, Trib. Cagliari 6 novembre 2009, nonché il protocollo applicativo del Tribunale di Verona, in guida al dir., 2010, n. 13, p. 117, con commento di R. CAPONI.

[13]  In taluni casi il mutamento del rito pare esser obbligato, così Cass., 3 gennaio, 2012, n. 3, in banca dati DeJure, secondo cui il mutamento del rito, da sommario a ordinario, deve avvenire quando nel processo sommario di cognizione venga sollevata una questione relativa alla sospensione necessaria o facoltativa del processo per pregiudizialità (artt. 295 c.p.c. e 337, comma 2, c.p.c.); così anche Cass., 30 gennaio 2017, n. 2272, in banca dati DeJure; così, sebbene il dettato normativo affermi che in base alla natura delle difese svolte dalle parti il giudice può ordinare il mutamento del rito, Trib. Milano, sez. spec. impr., 20 marzo 2015, in Foro it., 2015, i, 2949, ha affermato che l’errore nella scelta del rito sommario, invece di quello ordinario, dovrebbe comportare la pronuncia di un’ordinanza di conversione del rito. Così anche nel caso in cui, a seguito a domanda riconvenzionale proposta dal convenuto, si richieda un accertamento incidentale su questione pregiudiziale, nel qual caso il giudice dovrà separare le cause e far procedere l’accertamento pregiudiziale nelle forme del rito ordinario, già citata Cass., 3 gennaio 2012, n. 3.

[14] Corte cost., 9 febbraio 2001, n. 32, in Giust. Civ., 2001, I, p. 1171 e ss.

[15] Cfr. E. PICOZZA, Il calendario del processo, in Riv. dir. proc., 2009, p. 1162; secondo M. DE CRISTOFARO, Case management e riforma del processo civile, tra effettività della giurisdizione e diritto costituzionale al giusto processo, in Riv. dir. proc., 2010, p. 282, si tratterebbe di uno strumento di “contrattualizzazione del processo” sulla falsariga del modello francese. La giurisprudenza ritiene che sia discrezionale la calendarizzazione del processo, così ad esempio, Trib. Varese 15 aprile 2010, in Foro it., 2011, I, 1262 con nota di U. GIACOMELLI.

[16] M. BONCI, Active Case Management, English Reception and Italian Rejection, RePro, v. 38, n. 219, p. 225-237, maggio 2013, spec. 231, ove si legge che “What is more, the Italian judge lacks effective sanctions if a party breaches the timelimits contained in the order. In England the judges will fix the timetable for each case on the multi-track (covering cases of high financial significance) in consultation with the parties and their lawyers. To support this system, the English courts have a range of strong sanctions, notably cost orders, the power to stay proceedings, the making of unless orders which provide for automatic striking out of claims or defences where there has been breach of such a peremptory procedural order made by the court (although the court can award relief against such an automatic sanction, if the penitent party convinces the court that this is fair and reasonable, in the light of various criteria listed in the English procedural codes”.

[17] G. TRISORIO LIUZZI, Centralità del giudicato al tramonto? in La crisi del giudicato, atti del XXX convegno nazionale, Cagliari 2-3 ottobre 2015, p. 180.

[18] Dal suddetto melting pot risulta che sono regolate da rito sommario di cognizione le controversie relative in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato, di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno sul territorio nazionale in favore dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea o dei loro familiari, di espulsione dei cittadini di Stati che non sono membri dell’Unione europea, di accertamento dello stato di apolidia, dell’opposizione al diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari, nonché agli altri provvedimenti dell’autorità amministrativa in materia di diritto dell’unità familiare, dell’opposizione alla convalida del trattamento sanitario obbligatorio, delle azioni popolari e delle controversie in materia di eleggibilità, decadenza ed incompatibilità nelle elezioni comunali, provinciali e regionali, delle azioni in materia di eleggibilità e incompatibilità nelle elezioni per il Parlamento europeo, delle impugnazioni delle decisioni della Commissione elettorale circondariale in tema di elettorato attivo, delle controversie in materia di riparazione a seguito di illecita diffusione del contenuto di intercettazioni telefoniche, dell’impugnazione dei provvedimenti disciplinari a carico dei notai, dell’impugnazione delle deliberazioni del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, delle controversie in materia di discriminazione, delle controversie in materia di opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità, delle controversie in materia in materia di attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria e contestazione del riconoscimento (è competente la Corte d’Appello del luogo di attuazione del provvedimento, sic!).

[19] P. BIAVATI, Argomenti di diritto processuale civile, Bologna, 2018, p. 618.

[20] Un vero e proprio effetto deflativo può ammettersi in riferimento al decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, il quale, qualora non sia proposta opposizione, acquista efficacia di giudicato non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo in tal modo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda in altro giudizio (da ultimo, Trib. Arezzo, 1.04.2020, n.256, che ha sostanzialmente avallato l’orientamento dei giudici di legittimità). Tuttavia, un’estensione siffatta dell’effetto conformativo del giudicato al rapporto fondamentale non dedotto, quantunque non deducibile in via di ricorso ingiunzionale, rompe quel collegamento, oggi quanto mai flebile, tra domanda di parte, principio del contradditorio ed estensione dei limiti oggettivi del giudicato.

[21] A. GIUSSANI, in La crisi del giudicato, atti del XXX convegno nazionale, Cagliari 2-3 ottobre 2015, p. 356.

Guidomaria De Cesare

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