Il precariato nella Sanità. Una lunga storia di abusi e di attese

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Con l’ordinanza n. 4863/2015 il Consiglio di Stato, Sezione IV, ha accolto l’istanza cautelare presentata dalla Fedir Sanità, l’organizzazione sindacale rappresentativa del personale PTA, avverso il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 6 marzo 2015 riguardante la stabilizzazione di migliaia di lavoratori della Sanità.

Dalla lettura dell’intervento legislativo, ampiamente millantato come la concreta espressione della “promessa mantenuta” dagli organi politici, emerge che le procedure di stabilizzazione interesseranno il personale del comparto Sanità e quello appartenente all’area della dirigenza medica e del ruolo sanitario in servizio presso le Aziende sanitarie e/o ospedaliere e non anche i dirigenti amministrativi, tecnici e professionali.

Invero, con il Dpcm in esame si è voluto dare attuazione al D.l. 101/2013  conv.  dalla L. 125/2013 a mezzo del quale il legislatore si era riproposto, nell’ottica del perseguimento degli obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni, di porre un freno al ricorso quasi spasmodico ai contratti a tempo determinato (che dovrebbe essere limitato solo ad esigenze di carattere temporaneo o eccezionale) e nel contempo di favorire la presa in servizio di vincitori e idonei utilmente collocati nelle graduatorie di concorso.

All’art. 1 del Dpcm si specifica infatti che:  “Il presente decreto in attuazione dei commi 6, 7, 8, 9 e 10 dell’art. 4 della legge decreto‐legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, disciplina le procedure concorsuali riservate per l’assunzione presso gli Enti del Servizio Sanitario Nazionale, e prevede specifiche disposizioni per il personale dedicato alla ricerca. Le procedure di cui al presente decreto sono riservate al personale del comparto sanità e a quello appartenente all’area della dirigenza medica e del ruolo sanitario”.

Quale dunque la sorte dei dirigenti del ruolo amministrativo, tecnico e professionale?
Il Consiglio di Stato, rigettato il responso del Tar Lazio contrario al ricorso e in accoglimento dell’istanza cautelare, ha rinviato la questione al Tar per la sentenza di merito, considerata la necessità di sottoporre tale esclusione ad un nuovo ed attento vaglio e non essendoci fondate ragioni atte a giustificarne la portata.

Una faccenda delicata, strettamente connessa al tema che negli ultimi tempi sta interessando prepotentemente il panorama politico ossia l’uso-abuso delle forme flessibili di lavoro nelle pubbliche amministrazioni.

Solo qualche giorno fa, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5072 del 16 marzo, hanno affermato che: “L’abusivo ricorso al contratto a termine – ed anzi, più in generale, l’illegittimo ricorso al contratto a termine – è fonte di danno risarcibile per il lavoratore che abbia reso la sua prestazione lavorativa in questa condizione di illegalità”.

In cosa consiste concretamente il danno da perdita di chance lavorativa?

Ad avviso degli ermellini il danno così inteso non è quello conseguente alla  perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato in quanto “una tale prospettiva non c’è mai stata: in nessun caso il rapporto di lavoro a termine si potrebbe convertire in rapporto a tempo indeterminato perché l’accesso al pubblico impiego non può avvenire – invece che tramite concorso pubblico – quale effetto, sia pur in chiave sanzionatoria, di una situazione di illegalità. (…) Ossia se l’Amministrazione pubblica avesse agito legittimamente non commettendo l’abuso, non avrebbe posto in essere la sequenza di contratti a termine in violazione di legge e il lavoratore non sarebbe stato affatto assunto”.

Il lavoratore dunque si trova a dover subire un danno dalla illegittima apposizione del termine o comunque dall’abuso della successione di contratti a tempo determinato, restando in tal modo “intrappolato” in una condizione di precarietà che lo porta a perdere  occasioni migliori di lavoro stabile, mediante concorso pubblico o attraverso la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato.

Ad ogni modo, precisa la Suprema Corte, non può escludersi che la reiterazione per anni dei contratti a termine possa arrecare al lavoratore “un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore”.

Assodato che, secondo i parametri costituzionali ed europei,  nel pubblico impiego un rapporto di lavoro a tempo determinato in violazione di legge non è suscettibile di conversione in rapporto a tempo indeterminato, secondo le Sezioni Unite, in caso di violazione di norme poste a tutela dei diritti del lavoratore, sussiste in capo a quest’ultimo il solo diritto al risarcimento dei danni subiti nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010.

L’onere probatorio di tale danno grava sul lavoratore (art. 2729 c.c.) e a quanto pare risulta essere difficile da assolvere. Orbene, nel tentativo di fornire delle indicazioni coerenti e conformi alla normativa comunitaria,  occorre tenere a mente la disposizione contenuta nell’art. 32, comma 5, L. 183/2010 che contempla l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato.

E’ infatti previsto che “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604”.

Dunque il lavoratore deve ritenersi esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo. Il richiamo all’art. 32, comma 5, deve essere interpretato in chiave agevolativa considerato che in quella misura risulta assolto l’onere della prova del danno che grava sul lavoratore.

Sulla base delle considerazioni svolte dalla sentenza in esame, il Codacons ha avviato una nuova azione collettiva riservata ai precari del settore sanità della Calabria.

Secondo le dichiarazioni rese, tutti i lavoratori precari impiegati presso le Aziende Sanitarie pubbliche della Calabria con contratti a termine che abbiano superato – nella loro durata complessiva – i 36 mesi (comprensivi di proroghe e rinnovi), possono ora aderire all’azione collettiva lanciata dal Codacons e ottenere l’assunzione a tempo indeterminato, il riconoscimento dell’anzianità di servizio e il risarcimento del danno fino a un massimo di 50.000 euro (www.codacons.it).

Antonella Aloia

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