Il medico non risponde per omessa diagnosi di tumore se i sintomi manifestati dal paziente sono riconducibili anche a diversa patologia di cui egli era affetto

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Fatto

Nella causa oggetto di commento, i genitori e i fratelli di una paziente deceduta a seguito di un tumore benigno al cervello avevano convenuto in giudizio l’azienda sanitaria locale, lamentando il ritardo nella diagnosi della suddetta patologia nonché la incompletezza delle cartelle cliniche relative alla propria congiunta.

In particolare, i parenti avevano dedotto che la paziente, nel corso del 2011, si era recata per ben tre volte presso il pronto soccorso della struttura sanitaria, lamentando vomito e cefalea, e i medici della struttura sanitaria le avevano diagnosticato la presenza di diabete mellito di tipo I, senza disporre ulteriori approfondimenti circa l’origine dei sintomi manifestati dalla paziente. Inoltre, durante il secondo accesso al pronto soccorso, la paziente manifestava anche difetto di deambulazione, che però non aveva comunque indotto i medici a svolgere alcun approfondimento neurologico. Soltanto dopo il terzo accesso all’ospedale, a seguito di una caduta dal letto del reparto ospedaliero dove era ricoverata, i medici avevano eseguito un esame neurologico dal quale era emersa la presenza di un tumore benigno al cervello che li aveva portati ad eseguire una serie di interventi chirurgici. Detti interventi, però, non avevano sortito l’effetto positivo sperato e la paziente era quindi morta a causa dell’insorgenza di broncopolmonite e anossia cerebrale.

In considerazione di ciò, i parenti della defunta avevano agito presso il tribunale di Sassari chiedendo il risarcimento dei danni subiti a causa della morte della congiunta. Tuttavia, il tribunale di primo grado aveva rigettato la richiesta, ritenendo che gli attori non avessero adeguatamente provato il nesso di causalità tra la condotta posta in essere dai sanitari e la morte della paziente. In particolare, secondo il giudice sardo, nel momento in cui la paziente aveva effettuato i tre accessi al pronto soccorso non vi erano sintomi tali da far pensare ai medici la presenza del tumore, in quanto tra l’altro la cefalea era anche un sintomo proprio dell’altra patologia di cui era affetta la paziente (cioè il diabete mellito); inoltre, la incompletezza delle cartelle cliniche non aveva alcun nesso eziologico con la morte della paziente.

La decisione di primo grado veniva confermata anche dalla corte territoriale, cui si erano rivolti gli attori impugnando la prima sentenza.

In ragione di ciò, i parenti della paziente deceduta ricorrevano in Corte di Cassazione, lamentando: (i) in primo luogo, che i giudici territoriali avevano errato nel non ritenere inadempienti i medici dell’ospedale di Sassari per il fatto che avevano svolto con ritardo (cioè solo dopo la caduta dal letto della paziente) gli approfondimenti diagnostici per verificare l’origine della cefalea (lamentata dalla paziente sin dal primo accesso al Pronto Soccorso) e per non aver tenuto correttamente la cartella clinica (in particolare per non aver descritto i quattro interventi chirurgici cui la paziente si era sottoposta); (ii) in secondo luogo, per mancato rispetto del principio di ripartizione dell’onere della prova in materia di responsabilità medica, per non aver i giudici di merito ritenuto che la struttura sanitaria avrebbe dovuto provare di aver correttamente adempiuto alle proprie obbligazioni, anche in ordine alla corretta tenuta della cartella clinica.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i suddetti motivi di doglianza esposti dai ricorrenti e ha confermato la decisione di merito.

Per quanto concerne il primo motivo di ricorso, gli Ermellini hanno ritenuto che la Corte di Appello avesse correttamente escluso la colpa dei medici dell’ospedale per il ritardo nella diagnosi del tumore cerebrale della paziente.

Nello specifico, è stato correttamente ritenuto dai giudici di merito che i sintomi di cefalea e vomito manifestati dalla paziente al momento degli accessi al Pronto Soccorso erano troppo generici e riconducibili a una pluralità di patologie, fra le quali anche quella di cui la paziente era effettivamente affetta e immediatamente diagnosticata dai medici (cioè il diabete mellito di tipo I). Inoltre, non vi erano altri sintomi specifici che avrebbero dovuto portare i sanitari a svolgere degli approfondimenti diagnostici a livello neurologico. Infine, detti sintomi riferiti dalla paziente erano sporadici e isolati ed erano regrediti dopo che la stessa era stata sottoposta alla terapia farmacologica indicata dai medici. In considerazione di ciò, secondo gli Ermellini non vi era alcun elemento che avrebbe permesso ai medici di formulare delle ipotesi diagnostiche alternative rispetto al diabete mellito, correttamente diagnosticato.

Secondo la Corte Suprema, inoltre, la non completezza della cartella clinica (in considerazione della mancata descrizione dei 4 interventi chirurgici cui era stata sottoposta la paziente) non si poneva in correlazione causale con la morte della paziente. Infatti, come affermato dalla CTU svolta in primo grado, il decesso della paziente non era collegato a qualche errore commesso durante l’esecuzione degli interventi chirurgici (che, sempre secondo la CTU, erano da ritenersi opportuni ed erano stati eseguiti correttamente), bensì da complicanze cagionate dal diabete mellito di cui la paziente era affetta (precisamente dalla broncopolmonite contratta durante il ricovero in ospedale e dal danno encefalico da anossia). In considerazione di ciò, pur ritenendo che la non completa tenuta della cartella clinica configuri un inadempimento della struttura sanitaria, nel caso di specie non si può imputare alcuna responsabilità alla struttura sanitaria per il decesso della paziente, in quanto non sussiste il nesso di causalità tra tale inadempimento e la morte della paziente.

Per quanto concerne, infine, il secondo motivo di ricorso invocato dagli attori, la Corte di Cassazione lo ha rigettato, ricordando – preliminarmente – che la giurisprudenza è ormai pacifica nel ritenere che, in materia di responsabilità medica, il creditore debba dimostrare anche la causalità materiale, cioè il nesso tra la condotta posta in essere dai sanitari e l’evento dannoso subito dal paziente, mentre il debitore è tenuto a fornire la prova liberatoria consistente nella dimostrazione di aver correttamente eseguito la propria prestazione o che l’inadempimento è dovuto a una causa al medesimo non imputabile.

Ciò premesso, gli Ermellini hanno ricordato che il suddetto onere probatorio gravante sul creditore (cioè di dimostrare il nesso di causalità materiale tra condotta dei sanitari e danno subito dal paziente) è preventivo rispetto all’onere probatorio “liberatorio” gravante sul debitore convenuto. Pertanto, solo dopo che l’attore ha assolto l’onere probatorio sul medesimo gravante, graverà sul convenuto assolvere al proprio onere probatorio. Mentre nel caso in cui l’attore non riesca ad assolvere al proprio onere probatorio, la domanda dovrà essere rigettata per tale motivo, senza dover verificare se il convenuto abbia assolto o meno al proprio onere probatorio.

Nel caso di specie, secondo gli Ermellini, gli attori non avevano provato il nesso di causalità tra la condotta dei sanitari (cioè la mancata diagnosi del tumore, durante i primi accessi al Pronto Soccorso della paziente) e il danno lamentato dagli attori (cioè la morte della propria congiunta).

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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