Dalle ultime stime effettuate dall’INPS emerge che quasi un milione e mezzo di italiani svolge un’attività lavorativa inquadrabile nell’ambito della parasubordinazione; non solo, ma le statistiche dell’ultimo decennio evidenziano un trend di settore in costante aumento [1].
Alla luce delle più recenti normative, in particolare a seguito della riforma del lavoro attuata con il Job Act del 2015, la dottrina maggioritaria ritiene che la parasubordinazione sia una forma intermedia tra il rapporto di lavoro subordinato ed il lavoro autonomo. Tuttavia, sono molte le incertezze interpretative che permangono riguardo le fattispecie contrattuali ad esso riconducibili e non sono pochi i lavoratori che, una volta firmata la lettera di assunzione, si vedono costretti a rivolgersi a fiscalisti e consulenti del lavoro per decodificare il proprio inquadramento contrattuale e far luce su aspetti quali, orario di lavoro, retribuzione mensile, ferie, permessi, scadenza, licenziamenti ed eventuali tutele previdenziali spettanti.
A distanza di anni dalla loro entrata in vigore, i contratti di collaborazione si sono rivelati lo strumento ideale per accontentare le richieste di maggiore flessibilità da parte delle aziende, tuttavia, in molti casi, rappresentano anche una delle principali fonti di precarietà e di sotto protezione del lavoratore.
Indice
- Le questioni qualificatorie
- Le diverse tipologie di contratto di lavoro parasubordinato
- Il co.co.co
- Il rischio di un “utilizzo improprio” del co.co.co
- Dal co.co.co al co.co.pro
- La riforma Fornero
- Il Job Act e la normativa vigente
- L’abolizione delle collaborazioni occasionali e del lavoro accessorio
- Il contratto di prestazione occasionale (CpO)
Le questioni qualificatorie
Per individuare il campo di applicazione della normativa sulla parasubordinazione è necessario operare una previa distinzione ontologica rispetto alle figure affini della subordinazione e del lavoro autonomo. La questione non è puramente definitoria, in quanto dall’inquadramento giuridico della fattispecie discendono le particolari tutele contrattualistiche ed i relativi trattamenti fiscali. Il termine stesso “parasubordinazione” è indicativo della natura ibrida dei contratti ad essa afferenti che, per certi aspetti, sono riconducibili al rapporto di lavoro autonomo mentre, per altri, sono del tutto assimilabili a quello subordinato. L’elemento che li differenzia maggiormente dal contratto di lavoro autonomo è il necessario coordinamento dell’attività lavorativa con la struttura organizzativa del committente, da cui si origina quella particolare condizione di debolezza e soggezione economica del prestatore nei confronti del committente, tipica del lavoratore subordinato [2] . Ciò che invece rende i contratti parasubordinati accostabili al lavoro autonomo è l’assenza di un vincolo di subordinazione vero e proprio, in quanto, al pari del prestatore autonomo, il lavoratore parasubordinato si obbliga a compiere un’opera o un servizio a favore del committente senza alcun vincolo effettivo di subordinazione [3]. Il problema sorge dal fatto che non è possibile qualificare un rapporto di lavoro a priori, in base, cioè, al tipo di mansioni assegnate; é quindi necessario verificare in concreto, a posteriori, come una certa attività venga effettivamente svolta dal lavoratore. Non sempre, tuttavia, risulta agevole tracciare i confini tra le diverse modalità con cui una prestazione può essere resa: esistono lavoratori autonomi che di fatto sono vincolati all’organizzazione aziendale del datore come se fossero dei dipendenti (basti pensare ad un libero professionista che mette a disposizione le sue energie di lavoro per raggiungere delle finalità a lui estranee, proprie dell’azienda); viceversa, ci sono dei lavoratori subordinati che dispongono di ampi margini operativi all’interno dell’organizzazione aziendale sfuggendo talora alla potestà direttiva del datore per ciò che concerne orari, luoghi e modalità di svolgimento della prestazione. Sicché, soprattutto alla luce delle sempre nuove forme di lavoro introdotte nel mercato, diviene difficile ascrivere una certa prestazione all’una piuttosto che all’altra categoria e non rimane che svolgere un’operazione interpretativa prendendo le mosse dalla frammentaria legislazione vigente.
La giurisprudenza, negli anni, ha elaborato alcuni indici attraverso i quali è possibile configurare di volta in volta, con una certa approssimazione, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato [4] il che, procedendo per esclusione, ha fornito un efficace orientamento pratico ai fini dell’individuazione degli elementi sintomatici della parasubordinazione:
- la natura prevalentemente personale della prestazione effettuata;
- l’ assenza di vincoli di subordinazione al potere direttivo del datore;
- l’autonomia del collaboratore, in relazione a orari, luoghi e modalità di esecuzione del lavoro;
- la continuità (intesa come durata nel tempo del rapporto tra le parti);
- il coordinamento con la struttura e l’organizzazione aziendale;
- la retribuzione predeterminata corrisposta a cadenza periodica
È importante precisare che nessuno degli indici riportati è di per sé determinante, ma la compresenza di più indici può sicuramente costituire una prova della natura parasubordinata del rapporto di lavoro.
Le diverse tipologie di contratto di lavoro parasubordinato
Allo stato attuale, a seguito di un’evoluzione normativa complessa, sono sostanzialmente rinvenibili due aree contrattuali ascrivibili alla parasubordinazione:
-il contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co)
-il contratto di prestazione occasionale (CpO)
Vediamone sinteticamente l’evoluzione normativa e gli aspetti caratterizzanti.
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Il co.co.co
Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.) rappresenta la prima forma di lavoro parasubordinato introdotta nel nostro ordinamento con la legge 533/1973 che, modificando l’articolo 409 cpc, ha esteso l’applicazione delle disposizioni sul processo del lavoro anche ai rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale, nonché a tutti gli altri rapporti di collaborazione che si concretizzano “ in una prestazione d’opera continuativa e coordinata prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato” [5]. In tale occasione, dunque, si è giunti ad inquadrare giuridicamente come collaborazioni coordinate e continuative alcuni rapporti di lavoro ritenuti “atipici”, non specificamente riconducibili, cioè, al lavoro subordinato o a quello autonomo. Al fine di assicurare una tutela minima al collaboratore, che si viene a trovare in una condizione di debolezza socio-economica equiparabile a quella del lavoratore subordinato, al co.co.co sono state estese, a più riprese, alcune misure proprie del rapporto di lavoro subordinato. Tra le varie, ricordiamo l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, l’istituzione, presso l’INPS, di un’apposita “gestione separata” per i contributi versati (con la quale si mira ad assicurare anche ai co.co.co, le prestazioni di invalidità, vecchiaia e superstiti); sono previste poi ulteriori misure previdenziali quali: l’assegno per il nucleo familiare, l’indennità di maternità e di paternità e l’indennità di malattia in caso di degenza ospedaliera. Da allora, nuove forme atipiche di lavoro hanno cominciato via via a fare il loro ingresso nel mercato del lavoro ed ogni volta che risultava impossibile inquadrarle nell’ambito del lavoro autonomo o di quello subordinato (uniche due categorie contemplate dal codice civile) esse venivano necessariamente ricondotte alla disciplina del co.co.co.
Il rischio di un “utilizzo improprio” del co.co.co
All’atto pratico, tuttavia, lo strumento della collaborazione coordinata e continuativa è stato spesso utilizzato dalle aziende per eludere la normativa sul lavoro subordinato. Il pericolo che si corre, infatti, è quello che il datore di lavoro mascheri, dietro ad un apparente co.co.co, un rapporto di lavoro subordinato a tutti gli effetti, così da limitare i diritti spettanti al lavoratore e potersi sollevare dall’obbligo di fornire le tutele più intense ed onerose riservate al lavoratore subordinato. Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un susseguirsi di interventi legislativi volti ad arginare questo fenomeno che potremmo definire di abuso del lavoro parasubordinato. Il contratto a progetto, il cosiddetto co.co.pro, fu introdotto proprio allo scopo di contrastare questa pratica dilagante.
Dal co.co.co al co.co.pro
Il primo intervento legislativo si è avuto con il D.Lgs 276/2003, in attuazione della cosiddetta Legge Biagi, con il quale si giunge a stabilire che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, per essere legittimi, debbano essere riconducibili ad uno o più “progetti specifici” consistenti in programmi di lavoro (o singole fasi di esso) determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato (cosiddetti co.co.pro)[6]. Tale previsione normativa si è tradotta nel divieto di instaurare rapporti di lavoro “atipici” (ossia, non riconducibili ai rapporti di lavoro subordinati o autonomi) quando essi siano privi di un progetto giustificatore al quale legare la prestazione collaborativa; l’inosservanza di tale divieto comporta una conseguenza piuttosto gravosa per il datore: il rapporto di lavoro, infatti, viene trasformato automaticamente come lavoro subordinato a tempo indeterminato, con efficacia immediata ex tunc (dall’origine del rapporto). Alla luce di tale riforma, a sopravvivere come contratti “puri” di collaborazione coordinata e continuativa sono solo alcune attività che la legge considera a basso rischio di elusione della normativa a tutela del lavoro subordinato; per esse, pertanto, non occorrerebbe l’inserimento di un progetto, in quanto si tratterebbe di prestazioni “genuinamente autonome”, facilmente riconoscibili laddove gestite dal lavoratore in funzione del risultato aziendale. Tra queste ricordiamo l’esercizio di alcune professioni intellettuali (per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi), le attività svolte a favore di associazioni e società sportive dilettantistiche, le attività di amministratori e sindaci partecipanti a collegi e commissioni e, ancora, quelle dei titolari di pensione di vecchiaia.
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La riforma Fornero
Con la successiva Riforma del Lavoro, attuata con legge n. 92 del 2012, ogni tentativo di elusione delle normative a tutela del lavoro subordinato viene ulteriormente mitigato attraverso un irrigidimento della regolamentazione dei contratti a progetto. La Riforma Fornero ha modificato innanzitutto l’originaria definizione di lavoro a progetto, eliminando il riferimento ad un “programma di lavoro o fasi di esso” e introducendo la specificazione che “il progetto deve essere funzionalmente collegato ad un determinato risultato finale e non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente […]. Il progetto, pertanto, deve essere dotato di una sua specifica autonomia rispetto all’attività del committente. [7] .
Il Job Act e la normativa vigente
Una significativa inversione di tendenza si è avuta a partire dal DLgs 81/2015, emanato in attuazione del cosiddetto Job Act, con il quale si ripristina il regime ante riforma Biagi (quello sostanzialmente in essere prima del 2003)[8]. Il Job Act mira a favorire una maggiore stabilità occupazionale introducendo il divieto di stipulare nuovi co.co.pro (mentre quelli già in essere potranno proseguire fino alla loro naturale scadenza) ed introduce l’obbligo di ricondurre eventuali contratti co.co.co, posti in essere dal 1°gennaio 2016, entro la disciplina del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Nello specifico, si stabilisce che sarà obbligatorio qualificare come lavoro subordinato tutti quei rapporti di collaborazione personale caratterizzati da modalità di esecuzione organizzate dal committente (anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro), per i quali, pertanto, non sarà più possibile applicare la normativa prevista per i co.co.co [9]. Con la Circolare ministeriale n.3 del 2016 si sono chiariti alcuni aspetti controversi del Job Act, precisando che la disciplina del lavoro subordinato dovrà applicarsi ogni volta che il collaboratore sia tenuto ad osservare orari di lavoro determinati e quando il luogo di lavoro sia individuato dal committente. Si specifica inoltre che per “attività svolta personalmente” si deve intendere ogni attività eseguita dal lavoratore senza l’ausilio di terze persone.
Dal principio della “presunzione di subordinazione”, introdotto dal Job Act, sfuggono alcune specifiche attività, alle quali, pertanto, si potrà continuare ad applicare il regime dei co.co.co:
- le prestazioni collaborative specificamente individuate dagli accordi collettivi
- le attività prestate nell’esercizio di professioni intellettuali (per le quali è prevista l’iscrizione in appositi albi professionali)
- le attività prestate dai componenti degli organi di amministrazione
- le prestazioni di lavoro rese in favore delle associazioni dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive riconosciute dal Coni
Pertanto, superata la previgente disciplina introdotta dalla riforma Biagi, il campo di applicazione dei co.co.co viene ulteriormente a restringersi ma, laddove sia espressamente ammessa per legge (nelle aree sopra citate), ne è consentita la stipulazione senza vincoli: non è più necessario indicare il progetto, non è più prevista la forma scritta né un contenuto prestabilito, e non è più previsto che il corrispettivo venga modulato sulla base dei minimi contrattuali collettivi; eliminati anche la sospensione del rapporto in caso di infortunio, malattia e gravidanza e l’obbligo del preavviso in caso di recesso.
L’abolizione delle collaborazioni occasionali e del lavoro accessorio
Dall’entrata in vigore del D.Lgs 81/2015 non sarà più possibile stipulare i cosiddetti mini co.co.co o contratti di collaborazione occasionale. Il mini co.co.co era un contratto avente natura meramente “occasionale e saltuaria” e le cui finalità erano quelle di assicurare al lavoratore le tutele minime previdenziali e di contrastare eventuali forme di lavoro non regolare. I mini co.co.co erano così definiti perchè caratterizzati da una durata non superiore a 30 giorni nell’anno solare e da un compenso complessivo che non superasse euro 5000 annui. E’ stato altresì soppresso il cosiddetto lavoro accessorio nella sua accezione originaria come regolamentato dalla Legge Biagi.
Il contratto di prestazione occasionale (CpO)
Per sopperire al sostanziale vuoto normativo, il legislatore, con legge n. 96 del 2017, ha introdotto il contratto di prestazione occasionale (CpO) [10]. Tale contratto è stipulato esclusivamente per l’esecuzione di attività svolte non abitualmente e di carattere subordinato, ossia legato ad un committente (si pensi al classico caso della baby-sitter o della commessa di un negozio che lavora solo nei fine settimana o, ancora, all’insegnante che impartisce lezioni private).Tali attività sono retribuite mediante buoni voucher emessi dall’INPS e registrati all’interno del Libretto di Famiglia rilasciato al committente dall’ente stesso [11]. Attraverso tale tipo di contratto, i lavoratori possono effettuare prestazioni del tutto occasionali (o comunque marginali rispetto alla loro occupazione principale) senza però incorrere nel rischio di elusione degli obblighi fiscali. La prestazione occasionale è di tipo parasubordinato in quanto non è svolta in totale autonomia ma il lavoratore deve comunque relazionarsi rispetto ad un committente, particolarità questa che lo distingue dal lavoro autonomo occasionale.
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Note
[1]fonte:INPS https://www.inps.it/news/osservatorio-sui-lavoratori-parasubordinati-i-dati-del-2019
[2] art 2094 c.c. “Prestatore di lavoro subordinato”
[3] art 2222 c.c. “Contratto d’opera”
[4] Corte di Cassazione, Ordinanza 23 gennaio 2020, n.1555; in tema di distinzione fra parasubordinazione e subordinazione cfr Tribunale di Gorizia sez.lav.,19/07/2018, n.88
[5] art 409 c.p.c, n.3 “Controversie individuali di lavoro” , come riformato dalla Legge n.533 del 1973, “Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie”
[6] articoli 61 e 69, co.1, D.Lgs n. 276 del 2003 “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30”
[7] art 1, commi 23,24,25, Legge n.92 del 2012 “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”
[8] art 2 del D.Lgs. 81/2015 “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”.
[9] art 52 D.Lgs. n. 81/2015 che ha abrogato l’art 61 co.2 del D.Lgs. 276/2003
[10] art 54-bis, legge 21 giugno 2017, n. 96 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, recante disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo”
[11] fonte: INPS https://www.inps.it/prestazioni-servizi/contratto-di-prestazione-occasionale
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