Il Fisco in TV. I casi dell’imprenditore del nord assolto perché non poteva pagare l’Iva e quello del calciatore sudamericano che non vuole pagare Equitalia

Minelli Bruno 02/12/13
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Che il fisco italiano, tendenzialmente, fosse di difficile comprensione ai più è un dato notorio, e ultimamente se ne è avuta la riprova, quando due fatti mediatici sono stati non correttamente letti dai media ed offerti in pasto al pubblico indistinto, a cui è giunta un’informazione parziale; a scusante, vi è senz’altro la necessità di semplificare, di tradurre in massima una sentenza, un comportamento fattuale, di per sé, complesso.

Primo episodio – un contribuente, che non poteva versare l’Iva per il momento contingente della crisi, sarebbe stato assolto, ma da cosa?

Il messaggio che stava passando è stato quello che il giudice avrebbe disposto l’annullamento delle tasse per impossibilità a pagarle, intervenendo su una materia indisponibile.

In realtà, le tasse vanno pagate a prescindere; per gli stessi condoni, in ogni caso normativamente previsti, il legislatore deve stare molto attento nella loro formulazione per evitare il rischio dell’incostituzionalità della norma (con gli art. 3, 23 e 53) e/o del contrasto della medesima con la normativa europea, in particolare quella sulla cifra sugli affari (iva).

C’è voluto uno dei tanti talk d’intrattenimento, quello domenicale di Rai 1, l’Arena, per riportare nel corretto binario l’informazione; nel fatto specifico, è stato il giudice penale ad assolvere il contribuente, perché l’omissione del versamento delle imposte stava diventando un obbligo/prestazione da onorare impossibile, ma ciò non significava che il debito d’imposta fosse stato annullato.

Da quello che si è potuto capire (le prime notizie, non complete, sono filtrate dalla difesa), era successo che un contribuente aveva regolarmente presentato la propria dichiarazione, esponendo un debito Iva che non onererà col versamento. Tecnicamente non è quindi un’evasione, mentre l’Ufficio preposto non ha posto in essere un accertamento – non v’è stata sottrazione d’imponibile con l’omissione di corrispettivi/ricavi ovvero con costi indeducibili non afferenti i ricavi o creati ad arte per abbattere il reddito e/o per portare illegittimamente in detrazione l’Iva sugli acquisti – il contribuente ha dichiarato tutto ma, per l’impossibilità a reperire il denaro, non ha versato; in questi casi, il sistema informatico dell’Agenzia, dopo aver liquidato la dichiarazione, emetterà una diffida a pagare e/o una cartella di pagamento, mentre il funzionario dovrà stilare rapporto alla Procura, ai sensi dell’art. 10 ter del dlg N° 74/2000, se il versamento omesso supera i 50 mila €.

Due, allora, sono i piani; quello principale perseguito dall’Agenzia, tendente a recuperare il credito dell’Iva non versata, e quello secondario (dal punto di vista dell‘Erario), distinto e separato, del procedimento penale.

E’ nel secondo che vi è stata l’assoluzione del giudice, che ha usato buon senso e dimostrato di stare al passo coi tempi, anche se tecnicamente si potrebbe obiettare che la cifra sugli affari è un’imposta tendenzialmente neutra per le partite Iva e, nel caso in questione, il contribuente doveva versare la differenza fra l’Iva incassata dai suoi clienti e quella versata ai suoi fornitori – per cui, in ultima analisi, la mancanza di denaro per pagare equivale a dire che il differenziale dell’iva a debito, già riscossa, è stata distratta per fini diversi da quelli suoi propri del riversamento all’Erario.

La sentenza di assoluzione sarebbe stata più comprensibile per la tassazione diretta, dove gli autonomi sono legati all’alea del rischio d’impresa e non vi è (pre)riscossione per conto del pubblico, ma tant’è, a fronte di drammi personali, emersi dal dibattimento, il giudice penale ha ritenuto prevalenti le esimenti dai tecnicismi ed ha assolto.

Non risulta che il contribuente, ed è questo il secondo piano, abbia eccepito nel tribunale giurisdizionale delle imposte, la commissione tributaria, art. 2 dlg 546/1992, la cartella di Equitalia conseguente all’omissione del versamento; per il Fisco il suo credito si è definitivamente consolidato e metterà in campo tutte le strategie per soddisfarsi, anche quelle a favore del contribuente da ultimo previste (rateizzazione decennale) – il legislatore, evidentemente, ha avvertito le difficoltà dei tempi (diluendo il pagamento, ma non cassandolo).

Né, d’altra parte, il contribuente avrebbe potuto eccepire alcunché nel merito; il suo debito non è in discussione, è lui stesso ad averlo dichiarato, giustificando così la chiosa finale del dirigente dell’Agenzia all’Arena che sottolineava come il giudice penale non avesse annullato il debito del contribuente e non avrebbe comunque potuto farlo, non avendo la giurisdizione sulla materia tributaria, mentre di fronte al giudice tributario non saprei cosa avrebbe potuto eccepire il contribuente, se non vizi propri della cartella, e/o questioni di notifica per la medesima.

Ed è qui, il secondo episodio, legato anch’esso a una trasmissione televisiva, Che tempo che fa, dove Diego Armando Maradona, dopo la celebre manina contro l’Inghilterra ai mondiali del 1986, ha utilizzato tutto il braccio, nel cd gesto dell’ombrello, anch’esso destinato ad entrare nelle biografie a venire del personaggio.

Il messaggio che qua è arrivato è quello del calciatore – evasore fiscale, tale anche perché così definitivamente sancito dalla Suprema Corte di Cassazione.

Non è esattamente così. Per spiegarlo, occorre avere contezza della sentenza n° 3231 del 17/02/2005 dove Maradona si appella all’ultimo grado della giustizia italiana per vedersi annullare dei ruoli conseguenti ad accertamenti fiscali del periodo 1985/1990; il problema del calciatore si evidenzia nella sua drammaticità (per il calciatore) nel rubricato a) de svolgimento del processo… il 18 dicembre 1991 sono notificati al sig. Diego Armando Maradona, calciatore, sei avvisi di accertamento dell’Irpef per ciascuno degli anni che vanno dal 1985 al 1990, mediante affissione all’albo della Casa Comunale di Napoli; la notifica è effettuata ex art. 60.1.e) dpr 29 settembre 1973, n° 600, senza che sia posto in essere alcun tentativo presso la S.S. Calcio Napoli spa.

Incidentalmente, quindi, si ritrae che avverso gli atti principali, gli avvisi di accertamento per i periodi dal 1985 al 1990, Maradona non si è opposto, così essi sono diventati definitivi trascorsi 60 giorni dalla notifica; né sono conseguite le iscrizioni a ruolo e la notifica delle cartelle, reiterate per più anni con gli avvisi di mora.

A rigore, quindi, nessun tribunale italiano nel merito si è espresso sulla legittimità della ripresa fiscale dell’Agenzia.

Per altre due volte il calciatore non si è opposto, dopo la notifica del 1991 degli avvisi presupposti, nel 1993 e nel 1998 per gli avvisi di mora.

Solo a seguito della notifica di un successivo avviso, nel 2001, per la ragguardevole cifra di £. 52.620.831.284 (oltre 27 milioni del nuovo conio), si è instaurato il processo tributario, che verteva, a quel punto, sulla ritualità, o meno, delle notifiche pregresse.

Dalla descrizione riassuntiva delle doglianze avverso la sentenza di merito di seconde cure, appare evidente la strategia dei patrocinatori del calciatore, volta, essenzialmente, a contestare quattro aspetti censurabili della sentenza CTR e da questa, secondo il ricorrente, non correttamente valutati:

  • Il fatto della notifica, ex art. 60, comma 1, lett, e, del dpr n°600/1973, in luogo dell’art. 140 del codice di procedura civile,

  • Il fatto che non fosse stato messo in campo il tentativo di ricercare il calciatore dove presumibilmente sarebbe stato trovato, sede del Calcio Napoli (art. 139 cpc),

  • L’ammissione nella sede del secondo grado di merito di prove introdotte nel processo tributario da una parte, il Concessionario della Riscossione, già estromessa nel giudizio precedente (per vizio di delega di rappresentanza),

  • Il fatto che nel processo tributario sarebbero state ammesse notizie irritualmente acquisite e non aventi valore probatorio (tratte dall’autobiografia del calciatore).

La battaglia sugli articoli da applicare era, a prima vista, decisiva; vero è che l’articolo contestato, art. 60, comma 1, lett. e, del dpr n° 600/1973, richiama le procedure dell’art. 140 del codice di procedura civile, ma ne limita gli adempimenti all’affissione dell’avviso di deposito presso l’albo del comune; ma il 140 invece prevede anche altri adempimenti – decisivo, per il contribuente, la notizia per raccomandata con avviso di ricevimento. Mancherebbe, cioè, nel caso di Maradona l’ulteriore adempimento dell’invio della raccomandata, e, quindi, ci sarebbe irritualità nelle notifiche e possibile, come conseguenza, caducazione degli effetti in atti.

La differenza non è, come potrebbe sembrare, esiziale; se il contribuente non è stato trovato (o rifiuta il ritiro), ma non ci sono dubbi che la sua abitazione (o ufficio, o azienda) è a quell’indirizzo, il legislatore prevede l’ulteriore adempimento della comunicazione postale (art. 140 cpc); nel caso, invece, si accertasse che a quell’indirizzo non ci sia l’abitazione, o sia stata trasferita senza darne comunicazione all’Anagrafe ai fine della variazione, basta l’affissione all’albo (art. 60 legge fiscale), essendo anacronistico reiterare una comunicazione ad un indirizzo inesistente, tenendo anche conto che non è opponibile al Fisco la variazione non comunicata.

Da qui discende l’interesse da parte di un ricorrente che ha ricevuto una notifica, ex art. 60, di contestare il fatto conclamato nella relata di notifica dell’assenza dell’abitazione, ovvero, come sottilmente proposto dai patrocinatori in Cassazione del giocatore, la suddetta relata costituirebbe soltanto una mera valutazione del messo, superabile con qualsiasi mezzo di prova, anche presuntiva, cosicchè, chiosano i difensori nel censurare i giudici di merito, il giudice d’appello avrebbe dovuto compiere l’accertamento definitivo di tale circostanza sulla base delle prove fornite dalle parti e non ritenere insindacabile la valutazione del pubblico ufficiale notificatore.

L’art. 139 cpc appariva più debole come tesi difensiva, in quanto la legge speciale ammette deroghe ai principi generali dell’art. 137 e seguenti del codice di procedura civile, ed una di queste deroghe era proprio la fattispecie di cui alla relata del messo; la doglianza sicuramente rientrava nella strategia difensiva di ribaltare, con tutti i mezzi, il giudizio di merito, tanto che gli stessi giudici di Cassazione definiscono ponderoso il ricorso, con undici motivi di impugnazione, articolati in maniera così complessa che..-

Le dotte disquisizioni sugli articoli da applicare nella notifica, che potevano fare la differenza nell’esito finale, sono rimaste pura accademia, avendo la Corte, alfine e come vedremo, preso una decisione che in gran parte prescinde da esse.

I giudici di legittimità hanno, infatti, rilevato la validità della notifica al contribuente del primo avviso di mora, quello del 1993, ed era in quella sede che lo stesso avrebbe dovuto eccepire l’irritualità (eventuale) della notifica degli avvisi presupposti, e, il non averlo fatto, ha comportato l’inoppugnabilità degli stessi, così come per gli avvisi successivi del 1998 e del 2001; chiosano ne deriva che è irrilevante accertare se sia inesistente o invalida la notificazione, effettuata nel 1991 degli avvisi di accertamento che costituiscono il presupposto dell’avviso di mora notificato nel 1993.

Nella disamina che portava alle conclusioni, il giudice affrontava poi le modalità di acquisizione delle prove degli avvisi di mora, prodotte da un soggetto che poi ha cessato di essere parte del giudizio per carenza di mandato; la soluzione che offre è quella del potere istruttorio che hanno le commissioni tributarie, art. 7.1, dlg n° 546/1992, e che è implicitamente derogatorio rispetto al principio dispositivo in tema di prova. I giudici di merito avrebbero, cioè, potuto ordinare all’Ufficio la produzione di documenti ritenuti necessari ai fini della risoluzione della controversia; poiché già li detenevano, si sono astenuti dalla richiesta, ma i documenti comunque potevano essere ritenuti ammissibili ed essere valutati ai fini della decisione dei giudici tributari regionali.

In pratica, quindi, il giudice di legittimità, valutato corretto l’iter motivazionale dei giudici regionali che ha portato a ritenere notificati gli avvisi di mora del 1993, si astiene da ogni considerazione sulla ritualità, o meno, delle notifiche degli avvisi di accertamento e di quelli di mora intercorsi tra il 1998 ed il 2001, anno in cui il calciatore si oppone nella sede giurisdizionale di competenza alle richieste della parte pubblica. Ne è conseguito il rigetto del ricorso.

La soluzione prospettata è singolare, ed ha un qualche senso logico solo sul postulato che la ritualità della notifica è stata valutata per il primo avviso di mora; i giudici, infatti, rimarcano che era in quella sede che il contribuente avrebbe potuto/dovuto eccepire la notifica degli atti presupposti (avvisi di accertamento); non lo ha fatto, trova sbarrata ogni possibilità di difesa – ma il potere della parte pubblica non può estendersi all’infinito (in attesa di una notifica corretta), per cui, se ad esempio e sempre a proposito della vicenda processuale del campione argentino, fosse stata valutata corretta la notifica degli avvisi di mora del 1998, la Corte non avrebbe potuto esimersi dal valutare le notifiche, anch’esse contestate, degli atti pregressi.

Al di là dei tecnicismi, nessuna corte italiana ha potuto valutare il merito della vicenda tributaria di Maradona, che è sconosciuta ai più proprio perché non è andata mai a giudizio, tanto che alcune possibili eccezioni non sono state mai citate dai media che si sono occupati della vicenda.

Per esempio, è notorio che i calciatori si fanno pagare gli emolumenti al netto; il loro rapporto, cioè, è come quello di un lavoratore dipendente a busta paga, con ritenute versate dal datore di lavoro/sostituto d’imposta; ma allora, cosa ha evaso il calciatore?

Il Calcio Napoli, datore di lavoro, non è stato chiamato in causa; evidentemente, si trattava di introiti privati del calciatore, tipo la gestione personale del merchandising, delle sponsorizzazioni, dei diritti d’immagine e che introiti, visto che il conto conosciuto presentato è stato di oltre 27 milioni di euro; comunque redditi non dichiarati, non si sa se per disattenzione/ignoranza, e/o perché ritenuti esenti e/o esclusi (alla Valentino Rossi), ovvero scientemente per evadere.

Né ci può aiutare a conoscere meglio il merito della vicenda il procedimento penale parallelo che si sarebbe dovuto instaurare proprio in ragione del dlg n° 74/2000; il calciatore non risulta processato sul punto. Anche ammesso che la vicenda avesse avuto un’appendice giudiziaria e, per qualche ragione, il calciatore fosse stato assolto, anche nell’ultimo grado di giudizio, la sua assoluzione penale non avrebbe avuto rilevanza ai fini tributari.

Né il calciatore può richiamarsi a casi simili giudicati dalla sezione V della Cassazione (sezione tributaria), come ad un certo punto reclamato dai suo avvocati: ogni caso fa storia a se. La stessa sezione su casi identici ha deciso in modo divergente anche in epoca recente. Da ultimo, il caso del modello VR, una modalità di rimborso Iva accelerata contenuto in dichiarazione: fino al 2011, se veniva omesso, la Corte dichiarava comunque legittimo il rimborso, ma il 16/09/2011, nella sentenza n° 18920, rivedeva il suo orientamento (l’omissione del VR comportava la perdita del rimborso), con ulteriore cambio di opinione (rimborso spettante anche in assenza di VR) il 21/10/2013 (sentenza n° 23756).

Tornando al primo caso, quello del contribuente che omette di versare per necessità, ed a proposito di divergenze di vedute da parte dei giudici, la Cassazione, questa volta la sezione penale, ha dichiarato penalmente perseguibile, ex art 10 ter del dlg n° 74/2000, sentenza n° 24185/2013, colui che, pur in presenza di difficoltà economiche, abbia omesso il versamento, anche quando il suo debito è sceso sotto la soglia dei 50 mila €, a motivo del pagamento delle prime rate (il debito Iva era stato rateizzato).

E Maradona? Dovrà continuare ad essere esule dalla sua seconda Patria, per sfuggire alle sollecitazioni ad adempiere di Equitalia?

Probabilmente si; non può appellarsi all’autotutela, la rivisitazione dell’atto da parte dell’Ufficio che lo ha emesso e che dovrebbe riconoscerne l’illegittimità. Il tempo passato non gioca a suo favore e la casistica sul punto è pressoché assente (a volte, a fronte di decisioni univoche contrarie o orientamenti diversi, l’Agenzia dispone la rinuncia – l’autotutela è possibile farla, anche su atti definitivi, purché, come il caso in questione, non sia intervenuta sul merito sentenza passata in giudicato), mentre non sembrano sussistere le condizioni di cui al dm 11/02/1997, n° 37 – regolamento del potere di autotutela.

Uno spiraglio per il giocatore, però a sconto, potrebbe aprirsi nella ventilata ipotesi di rottamazione delle cartelle – in questo caso, comunque, il pagamento delle imposte esposte in cartella dovrebbe essere totale (o, altra ipotesi, all’80%). La sanatoria, infatti, riguarderebbe solo la sanzione e gli interessi, che comunque non sarebbero poca cosa. Questa volta, però, sarebbe meglio per tutti se il calciatore si astenesse dal portare l’ombrello.

Minelli Bruno

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