La vicenda
La vicenda oggetto della sentenza commentata vede una paziente, il proprio coniuge e i figli agire nei confronti di una struttura sanitaria e di un medico per ottenere il risarcimento dei danni subiti per un’omessa diagnosi.
In particolare, gli attori avevano sostenuto in primo grado che la paziente era affetta da una endocarrdite infettiva, accusata subito dopo essere stata dimessa dalla struttura sanitaria per un intervento che aveva ivi eseguito. Secondo gli attori, il medico e la struttura sanitaria avevano omesso di diagnosticare la malattia e ciò aveva causato un progressivo peggioramento delle condizioni di salute della paziente e la necessità di effettuare, oltre a una serie di ricoveri ospedalieri, anche un intervento al cuore con la sostituzione di una valvola e una tracheotomia.
Secondo gli attori, poi, la paziente, a causa dei suddetti interventi e delle condizioni di salute connesse alla ritardata diagnosi, era stata costantemente assistita dai familiari attori (cioè il marito e i figli) sia durante i ricoveri ospedalieri che a casa, e che all’esito della malattia erano comunque residuati dei postumi permanenti invalidanti pari al 50%, cui dovevano aggiungersi il gran turbamento psichico e il mutamento delle abitudini di vita degli attori (e quindi anche dei congiunti della paziente).
Durante il processo di primo grado, la paziente moriva e conseguentemente i coniugi proseguivano la causa non solo in proprio, ma anche quali eredi della paziente deceduta.
Il giudice di primo grado, dopo aver eseguito una consulenza medico-legale, accertava la responsabilità della struttura ospedaliera e del medico per i danni subiti dalla paziente e quindi condannava i convenuti a risarcire agli attori i danni subiti quali eredi della paziente. Invece, il tribunale rigettava le domande risarcitorie che erano state promosse dai congiunti della paziente in proprio.
Gli attori, non soddisfatti della decisione di primo grado, impugnavano la sentenza dinanzi alla corte di appello di Roma, la quale però confermava la responsabilità del medico e della struttura sanitaria, ma rigettava le domande risarcitorie promosse in proprio dai parenti della paziente (per il danno non patrimoniale da essi subito, dovuto al peggioramento delle loro condizioni di vita a causa della assistenza prestata alla parente).
In considerazione di ciò i congiunti della donna deceduta proseguivano l’iter giudiziale, impugnando la sentenza d’Appello dinanzi alla corte di cassazione.
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La decisione della Corte di Cassazione
L’argomentazione difensiva addotta dai ricorrenti per chiedere la riforma della sentenza emessa dalla corte d’appello di Roma si fonda sul fatto che la stessa è errata laddove ha ritenuto di non accogliere la loro richiesta risarcitoria per il danno non patrimoniale conseguente al peggioramento delle condizioni di vita dei congiunti dovuta al fatto che essi erano stati costretti ad assistere la paziente, fino alla sua morte, a causa degli esiti invalidanti della malattia non diagnosticata (invalidità che le impediva di provvedere autonomamente alle proprie esigenze di vita).
In particolare, secondo i ricorrenti l’ errore della corte d’appello di Roma sarebbe consistito, da un lato, nell’aver ritenuto non provato il suddetto danno connesso al peggioramento delle proprie condizioni di vita (il quale, secondo il giudice d’appello, sarebbe stato soltanto allegato dai ricorrenti) e, dall’altro lato, non aver ritenuto a tal fine idonea la presunzione connessa al fatto che vi era un legame familiare tra la paziente e i ricorrenti.
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso e lo ha accolto, cassando la sentenza impugnata.
Preliminarmente gli Ermellini hanno ritenuto opportuno evidenziare come il giudice di secondo grado avesse escluso la sussistenza del danno invocato dai ricorrenti in considerazione di due motivi:
- il fatto che l’assoluta dipendenza della paziente dai familiari (che aveva costretto questi ultimi all’assistenza quotidiana) era incompatibile con il grado di invalidità che era stata accertata dalla CTU;
- il fatto che l’assistenza prestata dai ricorrenti, per quanto gravosa dal punto di vista psicologico, era comunque da qualificarsi come “familiare”.
Ciò detto, i giudici supremi hanno sostenuto che, nel nostro ordinamento, anche ai congiunti di coloro i quali hanno subito delle lesioni personali invalidanti è possibile riconoscere il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale. Infatti, dal fatto dannoso che ha causato le lesioni possono tranquillamente derivare anche danni non patrimoniali per i congiunti della vittima.
Tale danno non patrimoniale subito dai congiunti della vittima di lesioni, poi, può essere provato anche per presunzione dalla stessa gravità delle lesioni subite; ma, in tal caso, è necessario che gli attori abbiano quanto meno allegato l’esistenza del danno non patrimoniale. Il giudice, quindi, anche d’ufficio deve cercare la prova del suddetto danno non patrimoniale anche utilizzando strumenti presuntivi e cioè ricavandone l’esistenza dalla avvenuta prova dell’esistenza di fatti noti da cui poter ricavare (appunto) presuntivamente l’esistenza del danno non patrimoniale (ignoto).
In applicazione di tali principi generali, la Corte di Cassazione ha sostenuto che i giudici di secondo grado hanno errato nel ritenere che la mancanza di una totale dipendenza della paziente (che aveva subito le lesioni) dai propri congiunti e che l’assistenza da questi ultimi prestata avesse carattere “familiare” danneggiata escludesse la sussistenza del danno non patrimoniale invocato.
Secondo gli Ermellini, infatti:
- in primo luogo, un gravoso impegno di assistenza può essere necessario anche quanto il soggetto da assistere ha soltanto un’ invalidità parziale;
- inoltre, l’impegno assistenziale comporta necessariamente un peggioramento delle condizioni di vita di colui il quale presta l’assistenza;
- in secondo luogo, il fatto che l’assistito sia un familiare non esclude detto peggioramento; infatti, anche se il motivo per cui la persona presta l’assistenza è dovuto ai legami d’affetto o di solidarietà intercorrenti con l’assistito, che caratterizzano i rapporti familiari, egli (cioè colui il quale presta l’assistenza) deve comunque modificare le proprie abitudini di vita in ragione delle esigenze di assistenza del parente e pertanto subisce un danno.
In considerazione del fatto che colui il quale presta l’assistenza al soggetto leso subisce un pregiudizio non patrimoniale dato dal peggioramento delle sue condizioni di vita, se tale pregiudizio è serio e la lesione invalidante del congiunto è grave, il giudice dovrà risarcire anche tale pregiudizio non patrimoniale (oltre che il danno invalidante subito dal soggetto leso dal sinistro).
Le questioni del grado di invalidità subita dal soggetto leso e del fatto che l’assistenza sia prestata anche da altri eventuali parenti, rileva soltanto ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale subito da colui il quale presta l’assistenza (ma non possono essere usati per escludere la risarcibilità del danno stesso).
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