1. Premessa
All’indomani della legge n. 663 del 1986, c.d. legge “Gozzini”, la cui ratio era ispirata all’ideale rieducativo, l’emergenza mafiosa tornò in auge con tutta la sua recrudescenza, tanto da determinare un nuovo inasprimento della legislazione penitenziaria in ragione delle sopraggiunte esigenze di difesa sociale e di prevenzione speciale.
Introdotta nella legge fondamentale dell’Ordinamento Penitenziario (Legge 354/1975, di seguito chiamato O.P.) dall’art. 1 co. 1 D.L. 152/1991, conv. nella Legge nr. 203 del 12 Luglio 1991, la fattispecie è stata oggetto di una incessante e sofferta fenomenologia normativa, concretizzata da numerose modifiche legislative ed una pluralità di interventi interpretativi della Corte Costituzionale che, in più circostanze, unitamente ad una consolidata dottrina garantista, ha inciso fortemente sulla portata applicativa della norma.
E’ generalmente riconosciuto che il diritto penale in primis e, con esso, la legislazione penitenziaria, abbiano storicamente convissuto, non senza subirne reciprocamente influenze e condizionamenti durante le stagioni emergenziali di sangue e attacco allo Stato: prima l’epoca del terrorismo interno, poi la stagione delle stragi mafiose, successivamente quella del terrorismo internazionale.
Icona dell’emergenza mafiosa degli anni ‘90 del secolo scorso, la norma in esame sin dalla sua origine rappresenta una misura di prevenzione penitenziaria privilegiata ed essenziale fondata sul titolo di reato, che determina una differenziazione esecutiva della pena, in stretto rapporto a due presupposti, la natura del reato commesso e l’indice di pericolosità presunta del soggetto (in vinculis ovvero in espiazione definitiva).
La gestione di tali fenomeni criminali, a partire dal 1992, ha determinato una risposta rigida dello Stato su due diversi livelli, quello normativo e quello organizzativo.
In primo luogo, il Legislatore, introdusse e modificò, rispettivamente tramite le leggi nr. 203/91 e 356/92, la disciplina dell’art. 4 bis e 58 quater dell’Ordinamento Penitenziario, i quali inibiscono ovvero ritardano l’accesso ai benefici premiali attraverso un complesso sistema di preclusioni fondato su un “meccanismo di presunzione di pericolosità sociale”.
Il risultato di questa tecnica normativa fondato sulla inversione dell’onere probatorio, con evidenti effetti sul piano processuale, determinò, in quegli anni, una decisa inversione di tendenza rispetto alle attese generate dalla nota Legge Gozzini nr. 663 del 10 ottobre 1986, accusata di un eccessivo permissivismo.
In questo diffuso stato di emergenza, il Legislatore, trascinato anche da forti e condivisibili istanze sociali che reclamavano maggiore sicurezza e rigidità nella fase esecutiva della pena, diede corso ad una controriforma rispetto alle precedenti politiche del trattamento penitenziario risocializzante, teso a valorizzare ogni misura di tipo premiale extra-murario, raggiungendo l’obiettivo inverso di differenziare il regime dell’esecuzione della pena in carcere nei confronti degli autori dei reati, espressione di una spiccata propensione al crimine organizzato.
La disposizione chiave di questo corpus normativo è il precitato art. 4 bis dell’O.P. che è anche il testo di riferimento di una serie di altre disposizioni dell’O.P. ( art. 21 co. 1, 30 ter co. 4 lett. c, 41 bis co.2, 50 co. 2, 58 ter, 58 quater), ontologicamente funzionali alla costruzione di un regime differenziato in relazione ai due presupposti anzidetti.
In secondo luogo, sul piano organizzativo, la risposta dello Stato ai fenomeni criminali ed emergenziali di tipo mafioso degli anni ’90 fu di elevare i livelli di ordine e sicurezza pubblica, prima facie, con l’apertura di carceri di massima sicurezza e la creazione di un sistema penitenziario differenziato in circuiti, al fine di isolare i detenuti per reati strettamente collegati alla criminalità organizzata. Parimenti, fu dato corso all’applicazione dei regimi differenziati previsti dagli artt. 14 bis e 41 bis dell’O.P., quali strumenti di sicurezza penitenziaria improntati ad una gestione più rigida, ristretta e contenitiva di quei detenuti classificati, rispettivamente, estremamente pericolosi per l’ordine e la disciplina ovvero espressione dell’attualità del vincolo associativo di tipo mafioso.
Sappiamo che la mafia moderna ha operato un processo di espansione e trasformazione passando da una organizzazione artigianale e semplice nella struttura ad una organizzazione di tipo imprenditoriale, attraverso l’impiego e l’uso di modelli operativi ed organizzativi propri della criminalità affaristica, con l’ulteriore pericolo dello sfruttamento di risorse, anche criminali, di provenienza estera in un contesto di globalizzazione criminale. Dinanzi a tali esigenze, l’intervento del legislatore penale non poteva che privilegiare prevalentemente esigenze di prevenzione speciale, sottolineando la necessità di un articolato trattamento differenziato, atteso il pericolo che comportamenti meramente opportunistici consentissero ad autori di gravissimi reati il godimento immotivato di benefici penitenziari incompatibili con la loro pericolosità.
L’art. 4 bis introdotto nell’O.P. con il D.L. 152/91, instaura un vero e proprio “doppio regime penitenziario, da intendersi quale stabilizzazione dell’alternativa penitenziaria, fondata sulla differenziazione esecutiva riconducibile alla specifica natura del reato commesso2” espressione di una altrettanto specifica pericolosità sociale.
2. L’operatività della norma
Nella sua prima formulazione, l’art. 4-bis prevedeva una semplice differenziazione del regime probatorio per accedere ai benefici penitenziari. Esso, infatti, raggruppava i delitti in “due distinte fasce”: nella prima rientravano i delitti ritenuti di certa riferibilità al crimine organizzato; nella seconda, invece, quelli di elevata gravità, ma non direttamente riferibili a tale genere criminale. Nel primo caso si poteva accedere alle misure alternative soltanto se fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”; viceversa, per i delitti di seconda fascia, l’accesso alle misure alternative e ai benefici penitenziari era condizionato al semplice rilievo oggettivo dell’assenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata.
La neonata disposizione, nel giro di pochi anni, era destinata ad essere oggetto di una incessante opera di modifica normativa e interpretazione nomofilattica che avrebbe avuto una forte incidenza sulla sua ratio.
Sull’onda delle emozioni e dell’allarme sociale suscitato dalla morte del magistrato Giovanni Falcone venne adottato il D.L. 8 giugno 1992, n. 306, secondo il quale i condannati per uno dei delitti rientranti nella prima fascia potessero essere ammessi ai benefici premiali solo se avessero collaborato con la giustizia a norma dell’art. 58-ter della legge ordinamentale. Veniva in tal modo prevista una rigida presunzione – ex Lege – di pericolosità sociale di questi soggetti, la quale, a sua volta, si basava sull’ulteriore presunzione di permanenza dei legami con le associazioni criminali di provenienza. In forza di queste presunzioni, la rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata poteva essere dimostrabile solo attraverso una esplicita scelta di collaborazione con la giustizia.
Come ha avuto modo di chiarire la Corte Costituzionale, si è avuto il passaggio “da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata), ad un modello che introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta qualificata” (la collaborazione ex art. 58 ter).
Tale modifica ha inciso sulla “ratio legis” dell’art. 4-bis che, da norma di selezione riguardo alle possibilità di accesso alle misure premiali, si è trasformato in “una norma di incentivazione dei comportamenti di collaborazione con la giustizia”.
Come è noto, infatti, il Legislatore incentrò, in quegli anni, buona parte della sua strategia di contrasto alla criminalità organizzata sul c.d. pentitismo ed è in questo contesto emergenziale che si colloca l’art. 4-bis che diventa una “norma di manifesta incentivazione verso i comportamenti di collaborazione con la giustizia, gli unici di per sé idonei a consentire il superamento del rigido divieto sancito dalla norma in esame”. La forte restrizione delle modalità di accesso alle misure alternative e ai benefici penitenziari, introdotta per i soggetti condannati per uno dei delitti di criminalità organizzata, è stata pensata per ridurre fortemente la possibilità di avere contatti con l’ambiente sociale e familiare di provenienza. Questo meccanismo di segregazione e neutralizzazione del condannato aveva (ed ha tutt’ora) lo scopo di esercitare una forte pressione psicologica sul detenuto al fine di spingerlo ad atteggiamenti di collaborazione con la giustizia. E, infatti, solo la condotta che favorisce l’attività della magistratura e della polizia nella persecuzione dei soggetti coinvolti nel sodalizio criminale e che, pertanto, va a colpire direttamente le organizzazioni criminali, dà la possibilità di ottenere condizioni migliorative al detenuto de quo.
La compressione premiale insita nella norma, che non implica una differenza nel regime penitenziario sotto il profilo dei diritti e dei doveri, non è univoca per tutti i detenuti compresi nell’art 4 bis. In particolare, la legge 38/09 ha riordinato l’art. 4bis in quattro diversi commi (1, 1 bis, 1 ter, 1 quater).
Nel comma 1, trovano posto “i reati di prima fascia”: “l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal Capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti ed internati per i delitti indicati nella norma solo nei casi in cui tali detenuti ed internati collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58 ter della presente legge; tra i delitti indicati, spiccano il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., 416-ter, delitti commessi avvalendosi delle condizioni in esso previste, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli artt. 600, 600-bis comma 1, 600-ter, commi 1 e 2, 601, 602, 609 octies, qualora ricorra anche la condizione di cui al comma 1 quater del presente articolo, 630 del codice penale, il delitto di cui all’art. 74 del Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, delitto di cui all’art. 291-quater del Testo Unico delle disposizioni legislative in materia doganale.
Nel comma 1 bis, è stato introdotto un meccanismo di attenuazione dell’ostatività preclusiva, definito “ammortizzatore” del 4 bis: “i benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti ivi previsti, purchè siano acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un utile collaborazione con la giustizia, nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulta oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’art 62, numero 6 ), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’art 114 ovvero art 116 comma 2 del codice penale”.
Nel comma 1 ter, è collocata la seconda fascia di reati ostativi: “i benefici di cui al comma 1 possono essere concessi purchè non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, ai detenuti o internati per i delitti di cui agli artt. 575, 600-bis commi 2 e 3, 600-ter comma 3, 600-quinques, 628 comma 3, 629 comma 2, del codice penale, all’art. 291-ter del Testo Unico delle disposizioni in materia doganale, all’art. 73 del Testo Unico in materia di sostanze stupefacenti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art 80 coma 2 del medesimo Testo Unico, all’art 416 comma 1 e 3, del codice penale, realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 del medesimo codice, all’art 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dal Libro II titolo XII, Capo III, Sez. I, del medesimo codice, dagli artt. 609-bis, 609-quater, 609-octies e dall’art 12 commi 3 e 3-bis e 3-ter del Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 Luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni”.
Il comma 1-quater dell’art. 4-bis prevede una terza fascia che riguarda i detenuti ed internati per i delitti di cui agli artt. 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quinques, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinques, 609-octies, 609-indecies, del codice penale, in cui “i benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti e internati solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno, anche con la partecipazione degli esperti ex art. 80 comma 4 della presente legge”.
Nel delimitare l’area dei delitti compresi in ciascuna fascia, si rileva che il catalogo complessivo dei reati ostativi elenca efficacemente tutte le fattispecie incriminatrici direttamente o indirettamente riconducibili al crimine organizzato e vi ricomprende uno spettro piuttosto ampio di detenuti.
Nell’ultimo comma, il 3-bis, il divieto di concessione dei benefici penitenziari riguarda i condannati e internati per “i delitti dolosi quando sia comunicata dal Procuratore antimafia o dal procuratore distrettuale l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Il legislatore antimafia, preoccupato che qualche detenuto pericoloso potesse sfuggire alle fitte maglie del regime ostativo, ha affidato alle procure antimafia il compito di relazionare sulla loro attuale operatività criminale ovvero di individuarli affinchè possano essere ricondotti nel circuito differenziato. Queste informazioni, nel procedimento di sorveglianza, diventano un elemento che insieme ad altri (personalità, gravità dei reati commessi, insufficiente revisione critica), determinano il diniego dei benefici penitenziari. Va precisato che la comunicazione del Procuratore antimafia circa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata costituisce il presupposto per l’accertamento di una situazione di preclusione alla concessione del beneficio che dovrà essere accertata in concreto dal tribunale di sorveglianza.
Come sottolineato, in capo ai detenuti di prima fascia, vige la regola dell’obbligatorietà della collaborazione con la giustizia ai fini della concessione dei benefici penitenziari.
L’art. 58-ter contempla due possibili condotte idonee a concretare l’ipotesi della collaborazione rilevante: l’essersi adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori e, in alternativa, l’aver concretamente aiutato l’autorità di polizia nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione e la cattura degli autori dei reati.
In giurisprudenza si è precisato che la collaborazione processuale, quale unica condizione che giustifica la deroga al divieto di concessione delle misure alternative in presenza di reati assolutamente ostativi (I fascia), non può essere riferita a fatti di reato diversi, ovvero generica, ma deve essere specificatamente riferita a fatti e a reati oggetto della condanna in relazione alle quali si chiede il beneficio, essendo esclusa la figura del collaboratore totale, senza limiti di tempo e soprattutto senza una precisa correlazione con il delitto oggetto della condanna.
Rimane estranea alla collaborazione la semplice condotta di chi si limita a costituirsi spontaneamente in carcere per l’espiazione della pena e presta ossequio alla disciplina carceraria.
Il comma 2 dell’art 58-ter attribuisce il compito di accertare la sussistenza della condotta collaborativa al tribunale di sorveglianza che decide assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione.
La Suprema Corte ha più volte precisato che “la collaborazione con la giustizia, quale condizione che consente l’applicabilità delle misure alternative alla detenzione in favore di condannati per specifici reati ai sensi dell’art 4 bis, costituisce un dato storico, per cui il tribunale di sorveglianza non deve saggiare la disponibilità del condannato a collaborare, dovendosi limitare ad accertare se il condannato ha collaborato o meno con la giustizia e, quindi, a constatare se sussista o meno il requisito che condiziona l’applicabilità del beneficio.
La Corte Costituzionale ha ribadito la piena legittimità della scelta normativa di privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività attribuendo determinati vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia, anche se ciò può comportare l’affievolirsi della finalità rieducativa della pena.
3. Un pericoloso crocevia tra esecuzione penale e giurisdizione: lo scioglimento del cumulo
Da tempo erano sorte controversie dottrinarie e giurisprudenziali relativamente all’applicabilità delle previsioni contenute nell’art 4 bis, in caso di cumulo di pene inflitte per reati compresi nell’articolo citato e per reati non considerati dalla predetta disposizione.
Corre obbligo premettere che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 4-bis O.P., il collegamento tra il delitto associativo, contemplato nell’art. 416-bis c.p. e l’ulteriore delitto ad esso collegato deve essere già evidenziato, in termini inequivoci, nella sentenza di condanna, ad esempio, tramite l’addebito dell’aggravante di cui all’art. 61 comma 1 n. 2 c.p., o – per i fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della legge n. 203/91- dell’aggravante prevista dall’art. 7 comma 1 di quest’ultimo provvedimento, oggi stabilizzata nel codice di rito con l ‘introduzione del 416 bis.1 ( comma inserito dall’art. 5 del D. Lgs. 01/03/2018, n. 21 concernente “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103“, con decorrenza dal 06/04/2018.
Tradizionalmente imputato alla creazione giurisprudenziale del diritto vivente, considerati i risvolti tecnico-pratici dell’esecuzione penale, l’istituto dello scioglimento del cumulo consente di scindere idealmente il cumulo materiale (art 73 C.P. plurime sentenze di condanna) e giuridico (art. 81 C.P. per il reato continuato) delle pene irrogate per titoli di reato diversi, applicando un meccanismo di preimputazione. In altri termini, l’istituto in questione preimputa la pena già espiata al titolo di condanna ostativo, parimenti imputa la pena espianda a quello non ostativo, così da potere invocare, in relazione a quest’ultima, il riconoscimento di un beneficio penitenziario altrimenti precluso.
In un primo momento la Cassazione si era orientata a ritenere non applicabile lo scioglimento del cumulo, allo scopo di considerare separatamente i titoli di condanna e le relative pene (in quanto l’art. 4 bis fa riferimento alla pericolosità soggettiva del detenuto, certificata dalla condanna per un determinato reato e ad essa collega l’esclusione dai vari benefici, senza possibilità di distinguere, in caso di pene concorrenti, e di attribuire ad un periodo pregresso l’espiazione di quella parte di pena collegabile al reato per cui vige il divieto di concedibilità).
Successivamente è intervenuta la Corte Costituzionale per affermare la soluzione opposta, cioè la norma deve essere interpretata nel senso che ai condannati per gravi delitti che abbiano già espiato la pena per intero per tali reati, possono essere concesse le misure alternative alla detenzione ancorchè siano cumulate per altri reati non ostativi ai benefici. Tutto ciò “proprio perché la disciplina sulle misure alternative si articola, ancor più che nel passato, in termini diversi in relazione alla tipologia dei reati per i quali è stata pronunciata sentenza di condanna la cui pena è in esecuzione”. Per quanto sopra, deve, a giudizio della Consulta, essere “ulteriormente valorizzato il tradizionale insegnamento giurisprudenziale della necessità dello scioglimento del cumulo in presenza di istituti che, ai fini della loro applicabilità, richiedano la separata considerazione dei titoli di condanna e delle relative pene” (C. Cost. n. 361, 19 luglio 1994).
L’interpretazione della Corte Costituzionale è stata definitivamente recepita dalla Corte di Cassazione, a Sez. Unite: “nel caso di soggetto sottoposto ad esecuzione di pene cumulative delle quali alcune soltanto siano state inflitte per delitti che comportano, ai sensi dell’art 4 bis, O.P. esclusione o limitazione di misure alternative alla detenzione, il cumulo può essere sciolto ai fini della determinazione del momento in cui, considerata come avvenuta l’espiazione delle pene relative a quei delitti, l’esclusione o la limitazione non debbano più operare” ( Cass. sez. Un. 30 Giugno 1999).
Competente ad operare lo scioglimento del cumulo non è il giudice dell’esecuzione ma la magistratura di sorveglianza investita dell’istanza relativa all’applicazione del beneficio penitenziario richiesto, trattandosi di valutazione funzionale alla possibilità di fruizione del beneficio medesimo (Cass. Sez.I del 15 ottobre 2009).
Altro crocevia interpretativo sull’istituto in questione è quello relativo al calcolo del periodo minimo di pena necessario per fruire dell’ammissione ai benefici alternativi.
Secondo la dottrina più garantista, considerata l’unitarietà del rapporto esecutivo, sussistente anche dopo il riconoscimento dello scioglimento del cumulo, il dies a quo deve essere calcolato con decorrenza dall’inizio della carcerazione relativa alla pena cumulata.
Secondo giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, la decorrenza del dies a quo è stabilita dal momento in cui si è esaurita l’espiazione della condanna relativa ai reati ostativi, secondo una valutazione di logica giuridica: sarebbe infatti del tutto irragionevole rendere, durante la fase della esecuzione della pena in carcere, inoperante il cumulo al fine di ritenere espiata la parte di pena imputabile al delitto ostativo, nel contempo far decorrere il dies a quo, per il calcolo del quantum di pena minimo espiato, fin dall’inizio della carcerazione.
Altra questione interpretativa in argomento è quella dell’applicabilità del meccanismo di scioglimento del cumulo di pene omogenee derivante dall’esecuzione di più titoli di condanna per reati tutti ostativi, a seguito dell’accertamento della impossibilità o inesigibilità della condotta collaborativa in relazione ai quei fatti per i quali deve ancora ritenersi in esecuzione la relativa quota-pena al momento della presentazione del domanda di beneficio. In forza del principio della unicità dell’esecuzione penale, seppure vada riconosciuto un orientamento controverso in seno alla magistratura di sorveglianza, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che possa procedersi allo scioglimento del cumulo e, quindi, prescindere da alcuno dei titoli di condanna per i delitti ostativi inclusi nel provvedimento di cumulo, ai fini del giudizio di accertamento della impossibilità o inesigibilità della collaborazione con la giustizia.
Infine, le nuove disposizioni del 4 bis di cui si è discorso, essendo relative all’esecuzione penale e alle misure alternative (non riguardando cioè l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena), soggiacciono al principio del tempus regit actum e sono pertanto di immediata applicazione anche a fatti e condanne pregresse.
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