Il Consiglio d’Europa emanando, il 26 Febbraio u.s., la decisione quadro 2009/2997GAI, affronta il tema del diritto del singolo imputato a presenziare personalmente al processo penale

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Scopo precipuo e neppure larvato, che viene perseguito dall’organo politico europeo, è quello di addivenire ad una armonizzazione delle procedure delle nazioni aderenti al trattato UE e, dunque, sancire i casi specifici in cui il paese – cui venga richiesta l’esecuzione di una decisione giursidizionale – possa aderire a tale istanza, anche nell’ipotesi in cui l’imputato sia stato non presente personalmente al giudizio.
L’indirizzo cui si ispira l’atto del Consiglio della UE appare – in linea teorica – particolarmente significativo.
Esso pare presupporre il riconoscimento della centralità del diritto “dell’imputato a comparire personalmente al processo”, quale espressione ed esecuzione del principio del “giusto processo”, così come sancito dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, nonché dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Quest’ultima con la sentenza 1 Marzo 2006, n. 56581, pronunziata nel giudizio Sejdovic c. Italia, ha affermato, infatti, che “vi è violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela il diritto ad un equo processo, nell’ipotesi in cui un soggetto venga condannato in contumacia, senza che abbia avuto effettiva conoscenza delle accuse rivolte a suo carico e senza che sia stata provata in modo inequivocabile la sua rinuncia al diritto a comparire personalmente all’udienza”, ribadendo, in tal modo un principio già oggetto di precedenti pronunzie.
Va, infatti, ricordato, ex plurimis il caso Pobornikoff c. Austria, che venne trattato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza del 3 Ottobre 2000[1]
Si tratta di un indirizzo che ha trovato fecondo approdo giurisprudenziale nella decisione della Sez. V della Corte di Cassazione [17-10-2006, n. 37620 (rv. 235227), S.L.][2].
I giudici di legittimità, infatti pronunziandosi in tema di legittimità del rigetto di un’istanza di differimento di una udienza, proposta a seguito di una situazione impeditiva sopravvenuta operante nei confronti dell’imputato, ebbero ad escludere – sulla scorta del richiamo espresso alle norme sovranazionali ed in particolare alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così, come interpretate dalla giurisprudenza della CEDU – l’ascrivibilità a carico dell’imputato di un onere di preventiva comunicazione della propria materiale impossibilità a comparire[3].
Ergo le ragioni della promulgazione delle decisione legislativa in parola trovano dichiaratamente fondamento nel tentativo di adeguare al diritto vivente, il diritto da applicare, anche perchè il Consiglio riconosce, al punto 2) delle considerazioni introduttive, l’obbiettiva carenza di omogeneità che connota- in relazione alla specifica tematica – tutte le decisioni quadro vigenti.[4]
Va detto che, come si vedrà, infra, simile condivisibile scopo si concentra, però, solo sul denominatore comune della velocizzazione dei tempi di esecuzione dei provvedimenti cautelari, a scapito del regime della tutela delle garanzie minime da riconoscere all’imputato.
Sul piano metodologico giovi dire che, in questa sede, ci si soffermerà esclusivamente sul contenuto degli artt. 1 e 2 della decisione 26 Febbraio 2009 2009/299/GAI del Consiglio, che appaiono le norme cardine del sistema così introdotto.
Va osservato che, in effetti, il legislatore comunitario pare avvertire (ma si ribadisce solo a prezzo della compressione dei diritti della difesa) l’esigenza di superare quella situazione di incertezza che connota il rapporto fra autorità emittente un ordine di arresto ed autorità che debba curarne l’esecuzione, qualora debba essere eseguito un MAE concernente una sentenza di condanna a pena detentiva susseguente un processo celebrato in absentia dell’imputato.
E’, infatti, massima di comune esperienza quella per cui il principio della delegazione, in favore del giudice del paese cui venga richiesta l’esecuzione del MAE, del potere di decidere se rifiutare o meno tale adempimento, (a seguito di delibazione in ordine alle garanzie procedurali relative alla possibilità di un nuovo processo o della previsione della celebrazione del giudizio di appello), ha sempre comportato assoluta incertezza in ordine alla possibilità di opporre un rifiuto alla richiesta.[5]
Al fine di derimere definitivamente quindi, questa situazione di patente incertezza e superare le difficoltà interpretative insorte, che hanno sempre riverberato effetti di negativa contraddittorietà sull’ambito decisionale, il legislatore europeo ha, pertanto, deciso di individuare specifiche condizioni che permettano di ritenere la non rifiutabilità dell’esecuzione del provvedimento pronunziato al termine di un processo tenutosi in assenza dell’imputato[6].
Ci troviamo, dunque, sostanzialmente, dinanzi ad una significativa inversione di rotta, posto che – su tale abbrivio – il sistema giudiziario dello stato al quale viene chiesta l’esecuzione non potrà svolgere più alcuna attività di sindacato in ordine alle modalità procedimentale che hanno permesso l’emissione del provvedimento.
Sul piano dell’apparenza e dell’esegesi strettamente lessicale e giuridica, la norma continua a sancire il rifiuto dell’esecuzione come regola, mentre l’eventuale accoglimento, viene classificato quale diretta conseguenza dell’adempimento di precise eccezionali condizioni, le quali sono espressamente descritte nella parte precettiva della decisione.
In realtà, sotto il profilo della concretezza, sarà, invece, sufficiente per l’esecuzione della pronunzia, una sorta di “autocertificazione” dell’autorità dello stato richiedente, la quale dovrà prestare solo una generica garanzia in ordine alla circostanza che i requisiti descritti siano stati attualmente, o in prospettiva futura soddisfatti.
I requisiti che vengono introdotti, [in ossequio al principio di armonizzazione del diritto interno dello stato ai canoni regolatori contenuti nella decisione quadro 2002/584/GAI – relativa al mandato di arresto europeo – ed allo scopo di escludere la facoltà di rifiuto dell’esecuzione] sono indicati all’art. 2 che recita in rubrica “Modifiche della decsione quadro 2002/584/GAI” ed introduce nel contesto di detta decisione l’art. 4 bis.
A) In primo luogo da tale norma emerge la condizione :
A1) che si sia stabilito inequivocabilmente che l’imputato era al corrente del processo fissato
  • essendo stato “citato personalmente”.
In tale modo egli avrebbe appreso dell’esistenza di un procedimento penale a proprio carico della data e del luogo di fissazione del processo;
  • essendo stato “di fatto informato ufficialmente con altri mezzi”.
In tale modo egli avrebbe appreso dell’esistenza di un procedimento penale a proprio carico della data e del luogo di fissazione del processo;
       A2) che l’imputato fosse stato informato del fatto che, nonostante la sua non comparizione in giudizio, sarebbe stata possibile l’emissione di una pronunzia definitoria il giudizio.
Sia concesso una immediata osservazione per quanto attiene alla seconda delle condizioni indicate sub A1).
Nulla quaestio in ordine al principio concernente la citazione personale.
In questo caso, infatti, appare indiscutibile che il cittadino abbia avuto per scienza diretta contezza dell’instaurazione del giudizio.
Non convince per nulla, però, la formula adottata con la locuzione “di fatto informato ufficialmente con altri mezzi”.
Essa, infatti, tradisce un’impostazione palesemente indicativa di un compromesso, che si pone in contrasto con i più elementari principi di certezza degli strumenti attraverso i quali si rinviene la prova della conoscenza – da parte dell’imputato – dell’esistenza del processo a proprio carico.
La vaghezza e genericità che connota la previsione si pone, poi, in stridente contrasto con i principi di tassatività e legalità, che sono patrimonio non solo del nostro diritto, quanto piuttosto dello Stato di diritto.
Penso, infatti, immediatamente al nostro sistema di notifiche all’interno del processo penale.
Esso potrà essere ritenuto, probabilmente, macchinoso e, siccome non completamente al passo con i tempi, suscettibile di ottimizzazione.
Va, però osservato che – se non altro – tale corpus garantisce pienamente il paradigma di un controllo effettivo in relazione alla sicurezza e correttezza delle comunicazioni concernenti il processo in ogni sua fase.
Il problema che si intende sollevare è, dunque, reale ed attiene alla corretta instaurazione del contraddittorio, al controllo della sua formazione, nonchè all’esercizio dell’azione penale.
Non si tratta, dunque, affatto di gabelle puramente formali.
Dovendosi, quindi, porre il quesito relativo l’individuazione materiale di quegli altri mezzi, che possano risultare idonei a certificare la scienza del cittadino in ordine alla propria condizione di imputato, e rientrino a pieno titolo nella categoria tratteggiata dalla norma in questione (ed al significato effettivo da conferire a tale usata locuzione), l’ermeneuta incontra oggettive difficoltà di non poco conto.
La ricerca di metodologie di comunicazione legale rivolte all’inquisito (nel corso del procedimento penale) da collocare, legittimamente e validamente, all’interno della cornice normativa in questione, finisce per involgere i criteri – che ogni paese adotta – in ordine al valore legale che il singolo ordinamento giuridico attribuisce a specifiche condotte od a taluni documenti.
Senza addentrarci – anche per evidenti ragioni legate alla volontà di non rendere eccessivamente analitico questo commento – in quello che, facilmente, si può appalesare come un vero e proprio ginepraio normativo, si deve affermare che la decisione del Consiglio UE avrebbe dovuto rinunziare a forme metagiuridiche ed inutilmente omnicomprensive,.
Meglio sarebbe stato optare per il ricorso ad una definizione semplice e chiara dei criteri alternativi alla citazione personale, che potessero venire considerati idonei a certificare che il raggiungimento della certezza inequivocabile che l’imputato sia stato posto al corrente del processo fissato.
 La codificazione dell’uso di mezzi tecnici quali la mail od il fax avrebbe costituito scelta che, pur circoscrivendo, il campo delle metodologie reputate idonee alla notifica al privato cittadino, avrebbe conferito un minimo di certezza legale.
Ritiene chi scrive, quindi, che la locuzione “di fatto informato ufficialmente con altri mezzi”, per quel carattere di generica residualità, che le fa assumere un ruolo di norma di chiusura, cioè di contenitore giuridico all’interno del quale ricondurre una serie di ipotesi assolutamente indefinite, potrebbe, in forza dei dubbi sin qui avanzati, non riuscire ad assolvere pienamente ed efficacemente proprio a quegli scopi, per i quali, invece, era stata concepita.
Si può, pertanto, sostenere, a ragione di quanto precede, che purtroppo l’Europa appare certamente meno sensibile dell’Italia in ordine a quel sistema concernente le più elementari guarentigie sostanziali da riconoscere all’imputato.
Questo insieme di diritti viene sacrificato (o, comunque, fortemente compresso) sull’altare della dichiarata creazione di meccanismi che agevolino (rendendola quasi automatica) l’esecuzione intraeuropea di sentenze o provvedimenti coercitivi personali e/o reali.
B) In secondo luogo, si rileva che la decisione UE prevede alla lett. b) del citato nuovo art. 4 bis, il principio della attribuzione al difensore delle prerogative e dei diritti propri ed ascrivibili all’imputato che risulti al corrente della data fissata per il processo.
La norma in oggetto equipara l’ipotesi nella quale l’imputato si stato patrocinato da un difensore di fiducia a quella in cui la difesa sia stata posta in essere da un difensore di ufficio, non riconnettendo particolare importanza all’una od all’altra situazione giuridica, e, in pari tempo, pone, quale ulteriore condizione, che questi abbia effettivamente assistito e difeso l’imputato.
E’, dunque, sufficiente e fondamentale la prova dell’esistenza di un mandato valido processualmente, attraverso il quale sia stata dato corso ad “un’assistenza legale concreta ed efficace”.
Balza all’evidenza che il modello proposto dalla decisione in commento, non differisce sostanzialmente da quello processuale italiano il quale ha nella previsione dell’art. 99 co. 1° c.p.p. la sua pietra miliare[7].
La stessa parte introduttiva della decisione che si commenta precisa, però, che la sussunzione dei diritti del singolo imputato nella mani del difensore, quale proprio rappresentante processuale in sua assenza, postula una esplicita e “deliberata”scelta dell’imputato in tal senso.
E’ evidente che una simile previsione suppone un alto grado di fiducia in ordine alla effettività e correttezza della gestione dei rapporti intercorrenti fra difensore e imputato.
E’ quella in parola, dunque, norma che certamente finisce per dipendere fortemente dalla sensibilizzazione del senso deontologico dell’avvocato, il quale deve essere consapevole dell’importanza del ruolo che egli riveste nella difesa dell’imputato straniero assente, per i riflessi che il prosieguo del processo ed il provvedimento conclusivo lo stesso possono produrre.
Va, inoltre, sottolineato come la correzione normativa, di cui la presente decisione è portatrice si ponga in stretta osservanza rispetto a quanto stabilito dalla Corte europea diritti dell’uomo Sez. III Sent., 13-02-2001, n. 29731, nel giudizio Krombach c. Francia,
In quell’occasione i giudici hanno ribadito l’imprescindibilità della presenza del difensore nel procedimento penale, sopratutto, in occasione di giudizi nei quali l’imputato sia contumace.[8]
Ed ancora la stessa Corte europea diritti dell’uomo Sez. II, con la decisione 14 giugno 2001 nel caso Medenica c. Svizzera, Cass. Pen., 2002, 3240 ha riconosciuto insussistente una pretesa violazione del diritto di difesa di colui che non aveva partecipato ad un giudizio penale, tenendo conto in particolare del fatto che l’imputato era assistito da difensori e che la sua assenza non era dovuta a causa di forza maggiore, chè anzi si deve ritenere che egli aveva posto le premesse per l’impedimento a comparire[9].
C) In terzo luogo si rileva che, alla lett. c) dell’art. 4 bis, invece, vengono previste due forme di acquiescenza dell’imputato, il quale, dopo aver ricevuto la notifica della decisione ed essere stato espressamente informato del diritto a un nuovo processo o ad un ricorso in appello
  • ha dichiarato espressamente di non opporsi alla decisione;
  • non ha richiesto un nuovo processo o presentato ricorso in appello entro il termine stabilito.
Pare di potere affermare che, in queste due ipotesi, il comportamento tenuto ex post sententiae dall’imputato si ponga come condizione di ratifica sanante l’originario vulnus.
Presupposto indefettibile appare, infatti, che sia intervenuta una seria ed adeguata ponderazione dell’interessato in ordine all’esercizio del proprio diritto potestativo alla richiesta di un nuovo processo o dell’appello e che la stessa si manifesti expressis verbis o per facta concludentia.
La specifica previsione riconnettendo ad una volontà negoziale specifca dell’imputato le conseguenze processuali descritte non pare prestarsi a particolari osservazioni.
D) In ulteriore quarto luogo si evidenzia che la lett. d) della norma in parola affronta il caso di colui che non ha ricevuto personalmente la notifica della decisione.
           In questo caso suscita fondate perplessità la considerazione che la clausola di perfezionamento della condizione, idonea ad escludere il rifiuto all’esecuzione del MAE, finisca per consistere in un’assicurazione puramente formale e futura.
 L’affermazione che l’imputato “riceverà personalmente e senza indugio la notifica dopo la consegna e sarà espressamente informato del diritto a un nuovo processo o ad un ricorso in appello...” e che “ sarà informato del termine entro cui deve richiedere un nuovo processo o presentare ricorso in appello, come stabilito nel mandato d’arresto europeo pertinente”, non pare a scrive presentarsi come particolarmente tranquillizzante.
Tanto per calarci su quel piano di esasperato pragmatismo che contraddistingue l’impostazione seguita dal Consiglio UE, pare – a chi scrive – tutt’altro che ragionevole e condivisibile che una persona venga preliminarmente ad ogni altra vicenda, tratta in arresto in esecuzione di una decisione che egli non conosce ed in ragione di un processo cui non ha partecipato personalmente, e, solo una volta in vinculis – e posto in grado di non nuocere – gli venga preannunziato l’insieme dei diritti che egli potrà esercitare contro la decisione.
Queste modalità confermano il convincimento che l’interesse primario, che anima la presente decisione UE, [che si connota – sopratutto – come integrativa quella del 2002 concernente il MAE] non si concreta tanto in quello di garantire al singolo l’esercizio dei propri diritti formali e sostanziali, quanto piuttosto in quello di rimuovere qualsiasi ostacolo si frapponga all’esecuzione di un provvedimento di cautela coercitiva, in nome di uno spirito europeistico di cooperazione in materia criminale.
Chiunque è consapevole della necessità che si venga a strutturare un sistema di meccanismi, che superino farraginosi passaggi burocratici, che possono rendere meno efficace ed agevole la lotta al crimine organizzato transnazionale.
E’, peraltro, vero che anche un sistema del genere non può assolutamente escludere l’indefettibile principio del riconoscimento delle garanzie.
Reputo, infatti, che più si opera (in ambito di contrasto al crimine sotto il profilo investigativo e repressivo) mantenendo un elevato tasso di tutela del diritto del singolo – anche questi presenti stimmate di elevata pericolosità sociale – e maggiore apparirà il livello di credibilità, intangibilità, fondatezza e consenso che all’azione intrapresa verrà accordato.
Intendo dire, che non è affatto necessario ricorrere a contingenti ed eccezionali misure di limitazione di diritti costituzionali od ad addivenire a palesi disparità di trattamento tra fattispecie di reato omologhe, per potere sancire l’efficacia dell’intervento di conflitto con il crimine organizzato.
Questa posizione appare ancor più avvertita (ed avvertibile) nella community dei giuristi, posto che la quotidiana esperienza forense porta a notare che i reali e principali destinatari di precetti anche di diritto transanazionale penale (quale è quello in esame) finiscono per essere non coloro che operano ai massimi livelli criminosi, quanto piuttosto individui, i quali sono estranei a logiche e strutture di tipo associativo.
 
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Del tutto armonico e coerente con il ricordato precipuo scopo di “non ritardare la procedura di consegna né la decisione di eseguire il mandato d’arresto europeo” risulta, poi, il testo del comma 2 dell’art. 2 che introduce il menzionato art. 4 bis.
La lettera della norma in parola lascia significativamente e sensibilmente interdetti, perché nell’ambito di un sistema giuridico che aderisce – in teoria – alla concezione dello Stato di diritto, il livello delle guarentigie difensive che essa esprime appare indubbiamente di basso profilo.
Il riconoscimento – non già di un diritto – quanto solo della mera facoltà (l’uso del verbo “può” è sintomatico di tale impostazione) per il singolo cittadino, attinto da mandato di arresto europeo ed ignaro di essere soggetto passivo di un procedimento penale, di “chiedere che gli sia trasmessa copia della sentenza prima della consegna”, non può costituire indice di elevata civiltà giuridica per il legislatore.
In buona sostanza, sorprendentemente, l’inquisito (inconsapevole di essere stato processato e tantomeno di essere stato condannato) non viene considerato affatto titolare di un diritto soggettivo a conoscere il contenuto del titolo esecutivo, privativo della libertà, presupposto necessario per l’emissione del mandato di arresto europeo.
Viene solo riconosciuta al soggetto, arrestato in base alla disciplina prevista dall’ordinamento comunitario – per graziosa e magnanima concessione di quest’ultimo – la mera possibilità di chiedere di ricevere copia della sentenza di condanna.
Si noti che la norma in questione non riconoscere sic et simpliciter la facoltà di ricevere, situazione che postulerebbe un’automatica attivazione dell’ordinamento senza impulso o richiesta ex parte.
Dunque, seguendo il dettato della direttiva, appare ipotesi realmente possibile quella per cui l’arrestato possa venire tradotto in vinculis presso l’Autorità giudiziaria dello Stato che richiede l’esecuzione del MAE, senza che egli neppure possa sapere esattamente in base a quale decisione venga ablato il suo diritto alla libertà personale.
Deriva da tale premessa, poi, la considerazione che, sotto l’egida (o le mentite spoglie) della cooperazione europea nella lotta al crimine, si viene a celare, invece, una serie di scelte legislative che calpestano le più elementari regole processuali e di tutela dell’imputato!
La benevola concessione della facoltà di ottenere, solo a richiesta, il vero titolo esecutivo di carcerazione, costituisce – così come concepita dalla novella portata dalla decisone quadro 2009/2997GAI – concreta null’altro che un’acquisizione di carattere puramente formale ed interinale, posto che la procedura di eventuale consegna del provvedimento appare inidonea a proporsi come eventuale incidente esecutivo, atto a porre in discussione l’esecuzione del MAE.
Suscita, poi, ulteriori perplessità la preoccupata scelta del legislatore di spiegare che “la sentenza è trasmessa a soli fini informativi”, e che dall’acquisizione dell’atto non derivano effetti giuridici, né spirano termini di fase o termini perentori, atteso che non si comprende la ratio che la sostiene e giustifica.
In realtà, la circostanza che, per l’imputato, si preveda che non decorrano termini o preclusioni, è solo espressione di un favor rei puramente di maniera, perché appare prevalente – sul piano effettivo – la volontà di disinnescare situazioni di potenziale conflitto con l’esecuzione de plano del MAE.
Si pensi solo alla circostanza che la presentazione di un appello, a seguito del decorrere del termine relativo, dato dalla notifica della sentenza estera, ben potrebbe in qualche modo paralizzare l’effetto provvisoriamente esecutivo della stessa e che, quindi, si debba preventivamente neutralizzare una simile opportunità..
Anche il comma 3° dell’articolo in parola costituisce norma che, nella strategia del legislatore, viene a rivestire carattere particolarmente tranquillizzante sotto il profilo psicologico.
Esso offre, infatti, una apparente soluzione al problema della custodia cautelare in carcere nella fase intercorrente la definizione del giudizio di primo grado e l’incardinazione di un processo di appello.
Vale la pena di rilevare che la previsione di legge comunitaria introduce, così, un precetto processualpenalistico che si pone come fonte primaria di diritto, tale da dovere venire recepita negli ordinamenti interni, al fine di evitare querelle di contestazione che si pongano ostativamente all’esecuzione del MAE.
E’ questo un modo di offrire una risposta, ad esempio, ai quesiti insorti in relazione all’interpretazione da fornire all’art. 18 della L. 22 Aprile 2005 n. 69.
Si tratta di una specifica disposizione, facente parte del complesso recettizio di diritto interno della fonte normativa europea riguardante il mandato di arresto europeo.
Essa aveva tentato di codificare plurime ipotesi di rifiuto della consegna e – in special modo – alla lett. e) aveva previsto che la Corte d’appello poteva rifiutare la consegna “se la legislazione dello Stato membro di emisisone non prevede i limiti massimi della carcerazione preventiva”.
Si ricorderà certo il florilegio di pronunzie sul punto[10], pronunzie dalle quali emerse faticosamente il principio di mediazione, fra opposte visioni giurisprudenziali, in base al quale incombeva all’autorità giudiziaria italiana l’onere di verificare se nella legislazione dello Stato di emissione fosse espressamente fissato un termine di durata della misura cautelare fino alla sentenza di condanna di primo grado, o, in mancanza di esso, se fosse sancito un limite temporale implicito desumibile da altri meccanismi processuali che prevedessero, obbligatoriamente e con cadenze predeterminate, un controllo giurisdizionale funzionale alla legittima prosecuzione della custodia o, in alternativa, alla estinzione della stessa.
A questa previsione viene abbinata, poi, un’ulteriore locuzione “il nuovo processo o l’appello hanno inizio in tempo utile dalla consegna”, il cui profilo compromissiorio di genericità ed indeterminatezza appare talmente tangibile da non richiedere particolari approfondimenti.
 
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In conclusione la decisione del Consiglio della UE induce a ribadire, quanto già sostenuto ai prodromi di questo commento e cioè che esiste nel contesto della Comunità Europea una sensibilità giuridica molto diversa da quella italiana e certamente meno attenta al sistema delle garanzie che devono essere riconosciute all’imputato.
Senza ritornare su concetti che già sono stati espressi, va detto che non è possibile – in nome di un’apparente, quanto auspicabile (in linea di principio) incentivazione e velocizzazione dei tempi di esecuzione di provvedimenti che provengono da ordinamenti giuridici tra loro del tutto differenti – ridurre il diritto di difesa del singolo ad un profilo meramente formale, svuotandolo totalmente di pregnanza.
Le norme brevemente esaminate in questa sede paiono dirigersi in questo allarmante senso e non pare questo un segnale positivo, sopratutto se proviene da un organismo che si è sempre ammantato (peraltro più a parole, che a fatti) di una matrice garantista.
 
 
DECISIONE QUADRO 2009/299/GAI DEL CONSIGLIO  UE del 26 febbraio 2009
 
 
 
Carlo Alberto Zaina
 


[1] “Integra la violazione dell’art. 6, paragrafi 1 e 3, Conv. eur. dir. uomo, per grave violazione dei diritti di difesa, il mancato riconoscimento del diritto dell’imputato a comparire personalmente alle udienze del processo a suo carico, giustificato dalla sua qualità di detenuto”.
[2] CED Cassazione, 2006, Arch. Nuova Proc. Pen., 2007, 5, 649, Riv. Pen., 2007, 9, 924
[3] “È illegittimo il rigetto dell’istanza di differimento dell’udienza – proposta in ragione della detenzione dell’imputato, sopravvenuta per altra causa, successivamente alla notifica del decreto di citazione per il giudizio di appello e comunicata solo in udienza – considerato che lo stato di detenzione, implicando l’assenza della libertà di locomozione, condizionata al volere delle autorità carcerarie, costituisce impedimento assoluto a comparire, con la conseguenza che, ove a tale situazione non sia posto rimedio mediante l’ordine di traduzione, l’imputato è privato del diritto di intervenire e di difendersi, anche personalmente, nel processo, diritto che, invece, deve essergli incondizionatamente assicurato. D’altro canto, in tale ipotesi, non sussiste a carico dell’imputato un onere di preventiva comunicazione della propria materiale impossibilità a comparire, né tale onere può essere desunto dalla diversa ed esplicita previsione dettata per il difensore (art. 420 ter, comma quinto, cod. proc. pen.) – che trova ragione nella insindacabile scelta di bilanciare con esclusivo riferimento alla difesa tecnica i valori costituzionali in gioco – la quale, al contrario, consente di escludere che un analogo onere di tempestiva deduzione possa implicitamente desumersi dal sistema per l’imputato, anche alla luce delle norme sovranazionali ed in particolare della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – come interpretati dalla giurisprudenza della CEDU – alle quali lo Stato italiano ha l’obbligo di conformarsi
[4] Si tratta delle decisioni 2002/584/GAI, 2005/214/GAI, 2006/783/GAI, 2008/909/GAI e 2008/947/GAI.
[5] Esemplificativa in tale senso appare Cass. pen. Sez. VI Sent., 23-01-2008, n. 3927 (rv. 238395), S.S. “Non viene in applicazione l’art. 18, lett. g) della L. 22 aprile 2005, n. 69, che impone il rifiuto della consegna se la sentenza irrevocabile, oggetto del mandato d’arresto europeo, non sia la conseguenza di un processo equo condotto nel rispetto dei diritti minimi dell’accusato previsti dall’ art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in relazione alla richiesta di consegna presentata dalle autorità francesi sulla base di una sentenza contumaciale passibile di opposizione e pertanto ancora provvisoria”.
[6]    Cfr. punto 6 della decisione quadro 2009/2997GAI, in GU EU 27 Marzo 2009
[7]  Art. 99 co. 1 c.p.p. “Al difensore competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest’ultimo
Cfr. in giurisprudenza Cass. pen. Sez. III, 07-04-1995, n. 5588, Pichierri, Cass. Pen., 1996, 2980, “In tema di proscioglimento predibattimentale, l’opposizione dell’imputato contumace può essere espressa anche dal difensore. A questo competono, infatti, a norma dell’art. 99 c.p.p., le facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato, a meno che siano riservati personalmente a quest’ultimo. Poichè per l’assenso al proscioglimento predibattimentale l’art. 469 c.p.p. non ha riservato personalmente all’imputato il relativo potere, il consenso del difensore è validamente dato per l’imputato”
[8] Int’l Lis, 2002, 3-4, 119 nota di CORONGIU.”L’impedimento agli avvocati della difesa d’intervenire in giudizio per l’imputato all’udienza dinanzi alla Corte d’assise viola il suo diritto ad un processo equo. Benché non assoluto, il diritto di ogni imputato ad essere effettivamente difeso da un avvocato, se del caso nominato d’ufficio, rientra tra gli elementi fondamentali dell’equo processo, di cui l’imputato non può essere privato per il solo fatto della sua assenza al dibattimento. Anche se è indubbio che il legislatore nazionale conserva la possibilità di disincentivare la non giustificata mancata comparizione dell’imputato al dibattimento, esso non è legittimato a sanzionarla – in modo manifestamente sproporzionato – derogando al diritto all’assistenza di un difensore, di modo che simili norme debbono ritenersi confliggenti con l’art. 6, c. 1 e 3, CEDU: in particolare, non è sufficiente ad evitare la violazione della garanzia all’assistenza legale l’istituto della cd. "purgazione della contumacia", poiché il diritto ad un processo equo non può essere sottoposto a cautele di sorta, come l’arresto dell’imputato. Del pari, viola l’art. 2 del Protocollo VII la disposizione del codice di rito penale francese che impedisce al condannato contumace di proporre ricorso per cassazione.
[9] Il ricorrente è un medico svizzero, poi emigrato negli Stati Uniti nel 1984. Due anni prima le autorità svizzere avevano iniziato un procedimento penale nei suoi confronti per truffa. Citato a comparire davanti a quelle autorità giudiziarie, aveva opposto di non potere presenziare perchè un paziente americano, malato di cancro e che aveva timore di restare senza assistenza, aveva ottenuto da un giudice statunitense, a carico del ricorrente, un’ingiunzione a non lasciare gli Stati Uniti, con contestuale ritiro del passaporto. La corte svizzera aveva proceduto quindi in contumacia, assumendo tra l’altro che il medico non aveva esperito contro quell’ingiunzione i previsti rimedi legali e lo aveva condannato a una pena detentiva (l’imputato era stato peraltro assistito da difensori). La condanna era stata confermata nei successivi gradi di giudizio anche sulla base della considerazione che il comportamento del ricorrente era diretto a determinare una situazione di impossibilità a comparire in giudizio (secondo il codice di procedura penale svizzero è possibile il processo in contumacia ma l’imputato ha diritto di chiedere un nuovo giudizio provando che l’assenza è incolpevole). Da qui il ricorso con cui si è lamentata la violazione del principio del giusto processo e del diritto a difendersi personalmente. La Corte europea ha riconosciuto insussistente la violazione ritenendo che il processo svizzero fosse stato nel suo complesso giusto, tenuto conto in particolare del fatto che l’imputato era assistito da difensori e che la sua assenza non era dovuta a causa di forza maggiore, chè anzi si deve ritenere che egli aveva posto le premesse per l’impedimento a comparire. Il ricorrente era stato condannato alla pena di due anni di reclusione per truffa aggravata; nel quantificare la pena i giudici hanno tenuto conto del lasso di tempo intercorso tra la commissione del fatto e la condanna nonchè della lunghezza del processo (oltre sette anni) quale circostanza attenuante. La Corte europea ha ritenuto la non violazione della convenzione sulla base della considerazione che nell’irrogare la condanna la corte nazionale ha tenuto conto, "in grado significativo", della durata del processo, con riferimento a un reato grave nel caso di specie, che reca una pena edittale massima di nove anni e che importa in casi analoghi una pena comparativamente superiore.
                Corte europea diritti dell’uomo Sez. II, 14-06-2001
[10] Cfr ex pIurimis Cass. pen. Sez. Unite, 30-01-2007, n. 4614 (rv. 235351) R.V., Dir. Pen. e Processo, 2007, 4, 440 Arch. Nuova Proc. Pen., 2007, 3, 335, Foro It., 2007, 3, 2, 137, CED Cassazione, 2007, Riv. Pen., 2007, 9, 943 “In materia di mandato di arresto europeo, con riguardo alla previsione dell’art. 18, lett. e) della L. 22 aprile 2005, n. 69, che stabilisce il rifiuto della consegna "se la legislazione dello Stato membro di emissione non prevede i limiti massimi della carcerazione preventiva", l’autorità giudiziaria italiana deve verificare se nella legislazione dello Stato membro di emissione sia espressamente fissato un termine di durata della misura cautelare fino alla sentenza di condanna di primo grado, o, in mancanza, se un limite temporale implicito sia in ogni caso desumibile da altri meccanismi processuali che instaurino, obbligatoriamente e con cadenze predeterminate, un controllo giurisdizionale funzionale alla legittima prosecuzione della custodia o, in alternativa, alla estinzione della stessa”.
Conf. Sez. feriale Sent., 04-09-2008, n. 34781 (rv. 240921), Sez. feriale Sent., 28-08-2008, n. 34574 (rv. 240716), Sez. VI Sent., 19-03-2008, n. 12665 (rv. 239155), Cass. pen. Sez. VI Sent., 17-01-2008, n. 2971 (rv. 238360), Cass. pen. Sez. VI, 12-07-2006, n. 24705 (rv. 234274),Cass. pen. Sez. VI, 08-05-2006, n. 16542 (rv. 233546), Cass. pen. Sez. VI (Ord.), 03-03-2006, n. 7915 (rv. 233705)

Zaina Carlo Alberto

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