Il conflitto di interessi nel Gruppo societario: la teoria dei vantaggi compensativi e la residualità dell’art. 2373 c.c.

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Premessa

L’imponente elaborazione dottrinale iniziata nello scorso secolo in materia di conflitto di interessi nella Società per Azioni, fattispecie oggi regolata dall’art. 2373 c.c., mostra come il tema per il fatto stesso di postulare un interesse sociale e i rapporti capaci di influenzarne la concretizzazione, abbia costituito importante occasione di riflessione per la centralità stessa che tale nozione assume in materia societaria, vista la sua capacità di determinare l’interpretazione di numerosi istituti nonché gli stessi criteri di funzionamento e organizzazione della società di capitali. Senza troppo dilungarci, facciamo riferimento a quel “secolare” dibattito svoltosi tra le contrapposte tesi cc.dd. istituzionaliste e contrattualiste dell’interesse sociale, punto di partenza per la nascita del concetto di Corporate Social Responsibility, per il riconoscimento di tutela ai cd. Stakeholders, alle minoranze nei confronti dei cd. abusi di maggioranza (e viceversa), ecc. nel bilanciamento di interessi teoricamente insito ai processi decisionali assembleari.

Data la vastità degli istituti e dei modelli coinvolti, non sorprende che la questione abbia pesto investito anche il fenomeno dei gruppi di società. In questa sede, dunque, ci concentreremo sulla soluzione adottata dal legislatore e del suo meccanismo di funzionamento nel difficile rapporto tra la tutela dell’interesse di gruppo, implicante la necessaria assunzione di delibere e operazioni non sempre confacenti all’interesse sociale delle controllate, e l’interesse delle società figlie nonché la tutela dei terzi che entrano in contatto con il fenomeno della direzione e coordinamento di società. In argomento un breve cenno è dedicato alle società unipersonali e alle problematiche e ai rischi che un tale modello societario pone in quanto, presentando una struttura calzante e conveniente all’eterodirezione perché facilmente adattabile alle esigenze dell’impresa di gruppo, è di frequente utilizzazione da parte della stessa.

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Prima di procedere con l’analisi della materia del conflitto di interessi all’interno di una siffatta struttura, è necessario identificare quelle che sono le caratteristiche stesse del fenomeno. Concordemente agli indirizzi dottrinali maggioritari e secondo la giurisprudenza di merito, viene ad operarsi la seguente definizione di Gruppo di società: un’aggregazione di imprese societarie formalmente autonome e indipendenti l’una dall’altra, ma assoggettate ad una direzione unitaria e all’influenza dominante di un’unica società (cd. capogruppo ovvero società madre o anche holding) che, direttamente o indirettamente, controlla e dirige la loro attività d’impresa secondo un disegno unitario e per il perseguimento di uno scopo comune al gruppo (cd. interesse di gruppo). Questa direzione può articolarsi, come è noto, in diverse forme[1] ed assumere anche rilevanza transnazionale, per es. le multinazionali, dal punto di vista giuridico, non sono altro che gruppi di società di diverse nazionalità.

Non è mistero che il codice civile del 1942 risultasse sprovvisto di un’adeguata disciplina utile alla regolamentazione di un tale fenomeno (nonostante quello della aggregazione di società fosse un modello già ampiamente diffuso nel XX secolo[2], tanto da essere già all’epoca tipico della media e grande impresa) e, pertanto, era da più parti fortemente e a gran voce invocato un urgente intervento legislativo in tal senso[3].  Infatti, se da una parte la struttura del Gruppo riesce a sorreggere una migliore efficienza del sistema produttivo, dall’altra non è per niente scevra da profili patologici di diverso ordine e rango[4]. Dal punto di vista strettamente societario, sono tre le principali esigenze poste all’attenzione del legislatore[5]: a) assicurare un’adeguata informazione sui collegamenti di gruppo, sull’intero assetto patrimoniale e i risultati di gestione; b) evitare che intrecci e matrioske societarie alterino la integrità patrimoniale delle società controllate ed il corretto funzionamento degli organi decisionali della capogruppo; c) evitare che le scelte operative delle singole società figlie pregiudichino le aspettative di tutti coloro che fanno affidamento sulla consistenza patrimoniale e sui risultati economici della società madre.

Fatte queste premesse, siamo adesso in grado di addentrarci nello specifico tema della nostra analisi. Anteriormente alla riforma del 2003, erano gli artt. 2373 e 2391 c.c.[6] a fungere da principali norme di riferimento nella ricostruzione dei possibili conflitti intercorrenti tra interesse di gruppo e interesse delle singole società. Tuttavia, come possiamo facilmente comprendere, la particolare disciplina del conflitto di interessi del socio e quella degli interessi degli amministratori erano strumenti dai più giudicati come del tutto inadeguati, dal punto di vista sia tecnico che sostanziale, a far fronte alle specifiche esigenze che presentava una struttura complessa come quella del Gruppo societario. Le censure[7] erano, infatti, molteplici e di vario ordine:

  • Da una parte, vi era chi sottolineava l’inadeguatezza in difetto del conflitto ipotizzato dalla normativa di riferimento, questo era infatti giudicato episodico ed occasionale, legato a singole operazioni e deliberazioni, e pertanto incapace di colpire quei procedimenti particolari del gruppo per i quali, spesso, le decisioni assunte all’intero dello stesso non passano per i canonici e formali procedimenti deliberativi assembleari,
  • Da un altro punto di vista, veniva evidenziato come, per eccesso, la disciplina vigente comportasse il rischio di congestionare e ostacolare il procedimento deliberativo stesso, rendendo impossibile l’articolazione di ogni operazione infragruppo. Impossibilità data dalla inevitabile configurazione (in astratto) di un conflitto tra l’interesse del gruppo e l’interesse delle singole società controllate appartenenti allo stesso.

Un dilemma drammatico dunque, tra l’applicazione paralizzante della disciplina comune del conflitto di interessi e la sua disapplicazione, implicante il rischio concreto di assegnare ai soci esterni al controllo le manovre prevaricatrici e predatorie della holding e del sacrificio delle singole società sull’altare del cd. interesse di gruppo[8].  Inoltre, proprio sul “contenuto” di quest’ultimo, la dottrina era schierata su tre differenti fronti: un primo orientamento[9] lo ricostruiva su quel carattere fondamentale dell’appartenenza ad una aggregazione, fondandolo su un’azione generale di coordinamento della capogruppo; altra tesi[10] riteneva invece che l’interesse di gruppo fosse una formula vuota, elaborata esclusivamente al fine di legittimare quella realizzazione degli interessi della capogruppo a danno delle controllate; infine vi era una terza linea[11] “democratica” che riconoscendo la titolarità alla capogruppo di un “potere-dovere” di influenza nella gestione delle singole società, precisava la nozione di interesse di gruppo in relazione ai limiti e le condizioni legittimanti le operazioni ad esso ispirate.

È proprio alla luce di tali considerazioni che il legislatore, cogliendo l’opportunità della citata riforma del diritto societario, ha introdotto[12] il Capo IX – Direzione e coordinamento di società nell’ambito del Titolo V, Libro V del Codice Civile sulle società, 7 articoli interamente dedicati al fenomeno di Gruppo e che, dal punto di vista che a noi interessa, ha posto fine alla problematica della interpretazione estensiva ed analogica della disciplina ex art. 2373 c.c.. Prendendo visione del nuovo Capo, è subito evidente come il legislatore non abbia ritenuto di fornire una nozione di gruppo, preferendo invece indicare le modalità con cui viene attuata l’opera di direzione e il coordinamento, e ciò al fine di ricomprendervi tutti quei fenomeni più o meno espliciti per una copertura (e tutela) più estesa possibile. Dunque, non una dimenticanza, una svista o una cattiva opera di traduzione legislativa, ma una consapevole e voluta scelta di garanzia. In particolare:

  • La direzione si configura attraverso l’esercizio di una pluralità sistematica e costante di atti di indirizzo idonei a incidere sulle decisioni gestorie dell’impresa, cioè sulle scelte strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale, commerciale che attengono alla conduzione degli affari sociali,
  • L’attività di coordinamento, invece, si determina mediante la realizzazione di un sistema di sinergie tra diverse società del gruppo nel quadro di una politica strategica complessiva, estesa all’insieme delle società[13].

Ricollegando le fila del discorso a quella elencazione sopra effettuata e, in particolare ai punti sub b) e sub c), possiamo affermare che uno dei più significativi campi di intervento riguardano proprio quegli obbiettivi e quelle necessità indicate. In questa prospettiva, restano fermi nel nostro ordinamento i principi fondamentali della distinta soggettività e della formale indipendenza giuridica delle società del gruppo[14]. Da quest’ultimo carattere derivano due conseguenze, la prima è l’esclusione di una responsabilità della capogruppo per le obbligazioni assunte dalle controllate in attuazione della politica di gruppo (cd. diversificazione dei rischi), la seconda è che la stessa società madre non può legittimamente imporre, alle società figlie, il compimento di atti che contrastino con gli interessi sociali delle stesse separatamente considerate. Vediamo di specificare meglio il senso e la portata di questa ultima frase: la riforma, coerentemente a quella che è sempre stata la considerazione del gruppo societario (e cioè un fenomeno per niente meritevole di repressione data la sua finalizzazione al più facile perseguimento di interessi ed obiettivi economici comuni) non spoglia le singole affiliate della propria autonomia né pone in secondo piano gli interessi dei azionisti di minoranza e dei creditori, i quali rimangono saldamente titolari di posizioni giuridiche riconosciute e tutelate, anche a fronte del più ampio e generale “interesse di gruppo”. Ciò significa che la normativa ne legittima il perseguimento, avendo però cura di introdurre opportune guarentigie, come per esempio, l’art. 2497 ter c.c. che introduce un obbligo di motivazione delle decisioni dell’assemblea e degli amministratori delle società controllate ispirate da un interesse di gruppo, onde consentire una valutazione degli eventuali danni che queste arrecano alla società stessa. Invero, è espressamente previsto che “Le decisioni delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento, quando da questa influenzate, debbono essere analiticamente motivate e recare puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi la cui valutazione ha inciso sulla decisione. Di esse viene dato adeguato conto nella relazione di cui all’articolo 2428 c.c.”. La motivazione, dunque, vale ad esteriorizzare i profili di contatto e le zone di interferenza fra interessi giuridicamente autonomi ed equiordinati, lascia cioè emergere il business purpose. O ancora l’art. 2497 bis c.c.  che impone alle società soggette alla direzione ed al coordinamento l’obbligo di indicare tale “status” nei propri atti e nella corrispondenza, nonché di iscriversi presso un’apposita sezione del registro delle imprese in cui devono apparire, altresì, le società che esercitano tale attività. I dati essenziali dell’ultimo bilancio della holding devono, inoltre, emergere dalla nota integrativa e dalla relazione degli amministratori sulla gestione (artt. 2427 e 2428 c.c.) che accompagnano il bilancio della controllata. È prevista, poi, una disciplina specifica (art. 2497 quinques c.c.) per i finanziamenti concessi alle controllate, al fine di evitare che un eccessivo indebitamento danneggi gli altri creditori sociali, ed è stato riconosciuto il diritto di recesso (art 2497 quater c.c.)(vedi infra).

Tornando strettamente al punto che più a noi interessa, occorre osservare che già prima del suddetto intervento legislativo la prevalente dottrina e giurisprudenza[15], riconosceva la legittimità di attività ed operazioni svolte nel perseguimento di un interesse di gruppo subordinandola, tuttavia, ad una condizione fondamentale: purchè ciò non contrastasse con l’interesse sociale della controllata sino al punto di arrecarle pregiudizio[16]. Tale assunto, che a breve espliciteremo in modo corretto e più approfondito, pare essere stato recepito dal legislatore che lo ha esplicitato nella norma cardine dell’intero sistema, cioè il primo articolo del nuovissimo Capo IX, l’art. 2497 c.c.- rubricato “Responsabilità”:

Le società o gli enti[17] che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società. Non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette.

 

Risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto beneficio.
Il socio ed il creditore sociale possono agire contro la società o l’ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento, solo se non sono stati soddisfatti dalla società soggetta alla attività di direzione e coordinamento. 
Nel caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria di società soggetta ad altrui direzione e coordinamento, l’azione spettante ai creditori di questa è esercitata dal curatore o dal commissario liquidatore o dal commissario straordinario.

Sembra esser stato delineato modello organizzativo caratterizzato dalla compresenza di soggetti giuridici differenti, ciascuno dei quali costituisce centro di imputazione autonoma ed è al contempo parte di un disegno imprenditoriale unitario la cui legittimazione risiede in un collegamento di tipo economico. Dalla lettura emerge chiaramente che qualora la società o gli enti controllanti, mossi da un interesse particolare, assumano o facciano assumere deliberazioni assembleari potenzialmente dannose per la controllata, agiscono in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale e, pertanto, saranno responsabili nei confronti dei soci di minoranza per il danno indiretto[18] da questi subito alla redditività e al valore della partecipazione sociale, salvo il caso che vantaggi compensativi lo abbiano eliminato. La teoria, nota appunto come teoria dei vantaggi compensativi, pone in rilievo come ai fini del giudizio sulla sussistenza di una responsabilità per mala gestio della holding, si rende necessario valutare la legittimità delle sue decisioni non già sulla scorta del risultato (negativo) immediato che queste arrecano al patrimonio della singola controllata, quanto piuttosto alla luce della complessiva situazione economica del gruppo e della utilità che nel medio e lungo periodo può conseguire l’aggregazione complessivamente intesa e la singola società apparentemente danneggiata. Bisognerà quindi verificare se alla controllata consegua un vantaggio che giustifichi l’esecuzione di una operazione pregiudizievole e, in questo senso, sembra oramai orientarsi anche la Suprema Corte che ha chiarito come al fine di valutare se un’operazione abbia comportato un effettivo depauperamento, occorra “tener conto della complessiva situazione che, nell’ambito del gruppo, a quella società fa capo, potendo l’eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente derivato aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto(…) in tal caso l’intervento, per quanto gratuito, compiuto in favore di altra impresa del gruppo andrebbe considerato non come espressione di spirito di condiscendenza o di liberalità, ma come atto preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto[19].  In altra occasione invece si è espressa in ragione delle “caratteristiche” dei giovamenti e benefici ex art. 2497 c.c., accogliendo quell’indirizzo dottrinale secondo il quale deve sussistere una rigida proporzionalità fra il danno e i vantaggi conseguiti[20]. La Corte ha argomentato che l’eventualità che un atto lesivo del patrimonio della società trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo, non può essere posta in termini meramente ipotetici. Se si accerta che l’atto non risponde all’interesse diretto della società e che ne sia scaturito nell’immediato un danno al patrimonio sociale, dovrà necessariamente dimostrarsi l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale quell’atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi. Non può, viceversa, sostenersi che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l’esistenza dei suddetti “benefici compensativi”, questi cioè non devono essere meramente ipotetici o non quantificabili. La compensazione per il danno deve essere effettiva e non virtuale, così da garantire la soddisfazione di un accettabile interesse patrimoniale facente capo ai soci delle società controllate pregiudicate[21]. Infine, questi ultimi possono derivare anche da altre e differenti operazioni previste all’interno della medesima strategia unitaria.

Ma se, da una parte, attraverso il recepimento della teoria dei vantaggi compensativi, il legislatore sembra aver finalmente definito il ruolo del c.d. “interesse di gruppo” nel sistema societario “atomistico”[22], superando quelle dispute dottrinali ante riforma e stabilendo una volta per tutte l’assunto secondo cui l’interesse del gruppo non è di per sé confliggente con l’interesse sociale delle controllate, dall’altra la normativa non esplicita il contenuto sostanziale dei principi riconducibili alla nozione di corretta gestione di gruppo. Pertanto, la concreta individuazione degli stessi viene effettuata mediante un procedimento interpretativo basato sull’elaborazione dei dati testuali della disciplina codicistica e dalle normative extracodicistiche. In via generale, il criterio di corretta gestione societaria ed imprenditoriale richiede che l’attività di direzione unitaria della capogruppo debba svolgersi, oltreché in conformità dei principi che regolano specificamente il fenomeno del gruppo di società (artt. 2497-2497-septies c.c.), anche nel rispetto sia degli obblighi generali di amministrare con diligenza, sia degli obblighi specifici che la legge o lo statuto impongono agli amministratori delle società dirette e coordinate. L’obiettivo è tutelare quei valori e quegli interessi che l’ordinamento giuridico riconosce nella gestione della singola società indipendente, che possano essere traslati anche nel contesto del gruppo di società e adattati alle esigenze specifiche di una realtà plurisoggettiva. A tale proposito, secondo la dottrina[23], si possono richiamare a titolo esemplificativo:

  • il complesso di principi che, nell’ambito dell’amministrazione della singola società, prevedono l’obbligo di attuare un’attività di gestione protesa alla salvaguardia del vincolo di destinazione del patrimonio sociale, al perseguimento degli scopi e dell’oggetto sociale;
  • il principio in base al quale la capogruppo, nell’emanazione delle sue direttive, è tenuta al rispetto dei processi organizzativi e decisionali delle società coordinate e dirette e cioè delle procedure attraverso le quali esse hanno predisposto il loro assetto organizzativo, amministrativo e contabile (richiamato nell’art. 2403 c.c.);
  • il principio di rappresentazione veritiera e corretta nei documenti e nei libri contabili, della situazione patrimoniale e finanziaria della società e del risultato economico dell’esercizio, ovvero nell’ipotesi del bilancio consolidato (ex 29 del D.lgs. 9 aprile 1991, n. 127), della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato economico dell’esercizio “del complesso delle imprese costituito dalla controllante e dalle controllate”;
  • il principio che impone l’attivazione di un idoneo flusso informativo tra le società dirette e coordinate e la capogruppo, per consentire un costante scambio di informazioni e valutazioni che sia da supporto ai vertici aziendali nei processi decisionali;
  • il principio che rende obbligatorio l’accertamento dei rischi specifici dell’impresa e l’adozione di adeguati sistemi per la costante rilevazione degli stessi, in modo da poter individuare tempestivamente eventuali sintomi di crisi o di disagio dell’impresa e di mettere in atto le procedure più efficaci per la risoluzione delle criticità, modulando le stesse in relazione alle circostanze del caso concreto.

Per completezza, occorre segnalare l’art. 2497 co. 2 c.c. rende solidamente responsabili coloro che abbiano preso parte al fatto lesivo che coloro che abbiano tratto consapevolmente vantaggio. Grazie a questa disposizione è possibile estendere la responsabilità, ad una molteplicità di soggetti anche non appartenenti al gruppo e che non siano necessariamente persone giuridiche, in particolare:

  • agli amministratori, anche di fatto, e/o ai sindaci della capogruppo e della società figlia;
  • ai soci della società capogruppo;
  • alle cd. società sorelle;
  • a quei soggetti terzi (es. banche) che hanno preso parte al fatto lesivo, o comunque tratto beneficio dal medesimo.

Per quanto riguarda coloro che non hanno partecipato alla operazione ma ne abbiano solo tratto beneficio (consapevolmente), la responsabilità è dalla legge limitata al vantaggio conseguito[24]. Sulla natura della responsabilità, la giurisprudenza di merito[25] e la dottrina maggioritaria sono orientate a riconoscere natura contrattuale, sull’assunto della violazione dei principi corretta gestione societaria e imprenditoriale che informano il contratto sociale.

Infine, l’art. 2497 quater c.c., riconosce ai soci il diritto di recesso qualora:

  1. mutino nella società, che entra a far parte di un gruppo o conclude un tale rapporto, le originarie condizioni di rischio dell’investimento e non venga promossa un’offerta pubblica di acquisto che consenta al socio di alienare la propria partecipazione[26],
  2. la capogruppo delibera una trasformazione che comporta il mutamento del suo scopo sociale ovvero dell’oggetto sociale, tale da alterare sensibilmente le condizioni economiche e patrimoniali della controllata,
  3. il socio abbia esercitato nei confronti della capogruppo azione di responsabilità ex art. 2497 c.c. ed abbia ottenuto sentenza di condanna esecutiva. In tal caso il diritto di recesso può essere esercitato solo per l’intera partecipazione.

In definitiva, possiamo concludere che attraverso la riforma si è attuato un sistema che consente di mantenere e garantire (almeno in parte e comunque senza eccessivi sforzi e iperboli ermeneutiche) il funzionamento e la sopravvivenza dell’impresa “molecolare” e, di fronte l’articolato corredo di rimedi previsti, l’applicabilità del nostro art. 2373 c.c. assume, ove possibile, carattere meramente residuale.

Principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale e il conflitto di interessi nelle società con unico socio

Meritevole di una breve digressione e della nostra attenzione, nonché contigua a quella dei rapporti tra art. 2373 c.c. e la disciplina della Direzione e coordinamento di società” degli artt. 2497 e ss. c.c., è la questione relativa alla configurabilità della fattispecie del conflitto di interessi del socio nel caso di società per azioni unipersonale. E ciò in considerazione del fatto che l’intervenuta l’abolizione del divieto di costituzione, i) da parte di un unico soggetto, di più società unipersonali e ii) da parte di persone giuridiche, di società unipersonali, sembrerebbe individuare la S.p.A. unipersonale quale strumento di più agevole utilizzazione per l’impresa di gruppo, proprio per quella mancanza di soci esterni che consente, sostanzialmente, il superamento dei molteplici ostacoli posti ad una gestione fortemente accentrata e discrezionale[27].

Nel vigore della previgente disciplina del codice del ’42, la dottrina era unanime sul punto di escludere l’applicazione dell’art. 2373 c.c. alla società unipersonale, sebbene sulla base di diversi assunti: da una parte l’interesse sociale era identificato con l’interesse dell’unico socio (posizione che rendeva inapplicabile la disciplina del conflitto) fatta salva la tutela del capitale e dei creditori, mentre qualcun altro configurava la responsabilità illimitata dell’unico socio quale correttivo della disapplicazione della normativa ex art. 2373 c.c. e quindi del diritto del socio di usare la società come cosa propria[28].

Queste posizioni oggi non sono, però, più sostenibili in quanto l’aprioristica esclusione della disciplina del conflitto di interessi al modello societario unipersonale, ha l’effetto di sottrarre ad una efficace sanzione i rapporti tra socio e società[29]. La stessa Relazione al d.lgs. n. 06/2003, nell’estendere al “tipo s.p.a.” la possibilità di costituzione per atto unilaterale afferma che “ci si è avvalsi della facoltà concessa dalla XII Direttiva comunitaria”, adottata per il modello della s.r.l. unipersonale, e tale estensione (al modello azionario comporta) ha quale effetto principale quello di determinare che i rapporti tra azionista unico e società vadano disciplinati anche dall’art. 2373 c.c. (e non solo dall’art. 2632 co. 5). Questo in ragione dell’art. 4 della citata Direttiva, il quale, stabilendo che “il socio unico esercita i poteri demandati all’assemblea dei soci”, consente al legislatore nazionale di estendere ed applicare tutte le norme sul funzionamento degli organi che sono proprie del tipo societario considerato, S.p.A. o s.r.l. che sia.

Infine, accorre sottolineare come, con la creazione per atto unilaterale di una società, si dà vita ad un centro autonomo di interessi e soprattutto ad un’aspettativa di mercato, ponendosi così l’esigenza di tutela dei terzi, contraenti o investitori. A tal fine, il richiamo ai “principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale” esplicitati in materia di direzione unitaria nell’art. 2497 c.c. torna utile per renderli altresì applicabili alla materia della società unipersonale(in ragione di quella utilizzazione di un siffatto modello ad opera della impresa di gruppo) e, in particolare, la pubblicità dell’assetto societario e della disciplina dei contratti con l’unico socio sono tutele che si vanno ad aggiungere a quella garantita dalla disciplina del conflitto di interessi.

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Bibliografia

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[1] Ad es. dal punto di vista strettamente strutturale i gruppi a catena, a raggiera e i gruppi stellari, mentre dal punto di vista strategico distinguiamo gruppi finanziari e gruppi economici. Ma ancora possiamo distinguere tra gruppi pubblici e privati nonché tra holding pura o mista.

[2] Si rinvia, a tal proposito, alle osservazioni di P. Jaeger, “Considerazioni parasistematiche sui controlli e sui gruppi”, in Giur. comm., 1994, p. 476, che riconduce la nascita del gruppo in Italia ai primi anni Trenta, riferendosi in particolare alla creazione dell’Ente pubblico economico IRI.

[3] In realtà vi erano già stati degli interventi normativi in materia, ma tutti settoriali e particolari tali da non costituire una normativa completa e organica. Parliamo di:

  1. lgs. 127/1991, sulle disposizioni in tema di bilancio;
  2. n. 95/1979 (cd. Legge Prodi) e d.lgs. 270/1999 (cd. Legge Prodi bis) sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in caso di insolvenza;
  3. lgs. 385/1993, sulla vigilanza nei grandi gruppi bancari, e d.lgs. 58/1998 (cd. T.u.f.) sulla vigilanza dei gruppi di società autorizzate all’intermediazione finanziaria;
  4. n. 287/1990 (cd. legge Antitrust) sulla tutela della concorrenza.

[4] Tributario, civile, sociale, penale, ecc., situazione aggravata dal fatto di poter operare anche in un sistema economico sociale “multi-nazionale”. Pensiamo all’annoso problema delle cd. società off shore.

[5] E che ritroviamo nell’art. 10 della l.n. 366/2001 – Delega al governo per la riforma del diritto societario- “La riforma in materia di gruppi è ispirata ai seguenti principi direttivi: a) prevedere una disciplina secondo i principi di trasparenza e tale da assicurare che l’attività di direzione e coordinamento contemperi adeguatamente l’interesse del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime;

  1. b) prevedere che le decisioni conseguenti ad una valutazione dell’interesse del gruppo siano motivate;
  2. c) prevedere forme di pubblicità dell’appartenenza al gruppo;
  3. d) individuare i casi nei quali riconoscere adeguate forme di tutela al socio al momento dell’ingresso e dell’uscita della società dal gruppo, ed eventualmente in diritto di recessi quando non sussistono le condizioni per l’obbligo di offerta pubblica di acquisto”.

[6] Ma anche le norme sull’azione di responsabilità contro gli amministratori (art. 2394 c.c.), sul risarcimento del danno del socio o del terzo (art. 2395 c.c.), nonché la disciplina sulle azioni revocatorie infragruppo in caso di fallimento (artt. 67 l. fall.).

[7] Vivante, Ascarelli, Ferri, Mignoli, giusto per citare solo alcuni degli studiosi più autorevoli che si sono occupati della questione.

[8] G. Sconamiglio, “Interesse sociale e interesse di gruppo”, in “L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholder (in ricordo di Pier Giusto Jaeger)”, Quaderni di Giurisprudenza Commerciale n. 342, Giuffrè, 2010.

[9] Corrente facente capo ad A. Mignoli.

[10] R. Sacchi, “Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali”, in Giur. comm. 2003, p. 673 ss.;

[11]P. Montalenti, “Conflitto di interesse nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi”, in Giur. comm. 1995, p. 710 ss

[12] Art. 5, d.lgs. 17/01/2003 n. 6.

[13] Così le definisce la circolare Assonime n. 44/2006, “Direzione e coordinamento di società. Profili di organizzazione e responsabilità del fenomeno di gruppo”.

[14] In sostanza, pur rilevando l’esistenza di un rapporto di controllo e direzione tra più soggetti societari, la normativa italiana non considera tale aggregazione quale nuovo ente autonomo, unitario e terzo, che si sovrappone alle singole società che lo compongono, né assume rilievo che la circostanza che in taluni contesti (es. Autorità di vigilanza) determinati obblighi vengano imputati per il gruppo alla holding.  Queste, dunque, mantengono la loro soggettività.

[15] La giurisprudenza della Suprema Corte affermava che “non esistono ostacoli di carattere giuridico a che le decisioni adottate a livello di organo gestorio della controllante, vengano poi attuate dalle società del gruppo”, ma precisava che “non si possono ritenere legittime le attività che nel perseguire interessi di gruppo, contrastino con quelli delle società, fino al punto da recarle pregiudizio”. Cass. 08/05/1991 n.5123, Cass. 13/02/1992 n.1759, Cass. in giurisprudenza. Mignoli Galgano, Rondinone in dottrina.

[16] Così P. Jaeger. A tale orientamento è stato replicato che sostenere la legittimità dell’interesse di gruppo a condizione che rimanga esterno, ininfluente e separato rispetto alle singole società, equivale ad affermare la legittimità del perseguimento di qualunque interesse extrasociale, purchè questo non incida per nulla sull’interesse sociale tradizionalmente inteso. Così P. Montalenti, “Conflitto di interessi nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi” in Gruppi di società, in AA.VV., I gruppi di società, Atti del convegno internazionale di studi, 16-18 novembre 1995, Milano, p. 1085, p. 1637.

[17] Con successiva norma di interpretazione autentica, è oggi precisato che per “enti” debbano intendersi i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria. Art. 19 co. 6, d.l. n. 78/2009 convertito con l.n. 102/2009.

[18] A. Gambino, “Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni”, Giuffrè, 1987.

[19] Cass. civile, sez. I, sentenza n. 12325 del 05/12/1998. Sulla teoria dei vantaggi compensativi P. Montalenti, “Conflitto d’interessi nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi”, in Giur. comm., 1995, I, p. 710 e ss.;

[20] Cass. Civile, sez. I, sentenza n. 16707 del 24/08/2004. Altro indirizzo (Montalenti) intende il rapporto pregiudizio–vantaggio in termini molto più elastici e non di perfetta proporzionalità. Il legislatore però sembra aver preso posizione a favore della tesi più rigida, laddove pone quale condizione la mancanza, originaria o successiva, del danno e quindi pare richiedere che il pregiudizio risulti “annullato” in senso “ragionieristico” e sul piano quantitativo, sulla base di una rigida proporzionalità tra pregiudizio prodotto e vantaggio compensativo. Tale ricostruzione appare confermata se si considera la speculare clausola dei vantaggi compensativi, contemplata all’art. 2634 c.c.  Invero, anche il nuovo reato di infedeltà patrimoniale è incardinato sulla teoria dei vantaggi compensativi, ma la fattispecie penale riferisce ai “vantaggi conseguiti, o fondatamente prevedibili derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo”. Date quindi le differenti formulazioni, non sussistono molti dubbi che in sede penale sia stata recepita la versione c.d. elastica dei vantaggi compensativi e in sede civile, invece, la versione cd. rigida che porta a concludere che “l’esimente” operi solo in presenza di elementi di vantaggio sicuri.

[21] P. Jaeger, ult. op. cit.

[22] In questa prospettiva è la cd. dottrina Rozenblum, sviluppatasi sulla base di una nota giurisprudenza della Court de Cassation francese e molto apprezzata nell’ambito dei lavori del Forum Europaeum sui gruppi di società (2001) come fonte di una possibile disciplina a livello europeo. Questa postula la legittimità di scelte e comportamenti gestori, anche quando comportino una parziale limitazione o sacrificio dell’interesse della società, degli amministratori di una società inserita in un gruppo, a condizione che sussistano determinati presupposti:

  1. che si tratti di un gruppo stabilmente strutturato, caratterizzato da nessi di complementarità tra le attività imprenditoriali delle società che ne fanno parte, tali da rendere possibile e razionale un coordinamento fra le stesse,
  2. che esista e sia identificabile, a livello di gruppo, una politica imprenditoriale coerente, idonea ad orientare secondo obiettivi di medio-lungo termine,
  3. che tale politica di gruppo sia rivolta ad una distribuzione tendenzialmente equilibrata dei vantaggi e degli oneri fra le diverse società del gruppo.

Alla radice di tali rapporti si rinvengono quei principi di coordinamento e contemperamento che presiedono alla disciplina del 2003.

 

[23] G. Scognamiglio, in “Commentario del Codice Civile”, diretto da E. Gabrielli, Delle società, dell’azienda, della concorrenza (artt. 2452 – 2510), a cura di D. U. Santosuosso, Utet Giuridica, Torino, 2015, pp. 1109 e ss.

[24] Così A. Daccò “I gruppi di società”, in Diritto Commerciale aggiornato alla legge 11 agosto 2014 n. 116, a cura di Marco Cian, Giappichelli, 2015.

[25] Trib. Roma 17/07/2007 e Trib. Napoli 28/05/2008 in F.it., 2009, pag. 190 e ss.

[26] In caso di opa volontaria si ritiene che l’offerta debba prevedere un prezzo almeno apri al corrispettivo di recesso, onde evitare che la tutela della minoranza venga vanificata dal lancio di un’opa a condizioni disincentivanti. Così R. Pennisi, in “Liber amicorum G.F. Campobasso”, III, Utet, 2007.

[27] M. Cirenei “Conflitto di interessi”, in Commentario Romano al nuovo diritto delle società diretto da Floriano D’Alessandro, vol. II, tomo I, Padova 2010.

[28] V. Scotti Camuzzi, “L’unico azionista” in Tratt. Colombo-Portale, Utet, 1991.

[29] V. C. Ibba, il quale sottolineava l’irragionevole disparità di trattamento che si sarebbe determinata tra il modello unipersonale della s.r.l. e della s.p.a. (in quanto per la s.r.l., la XII Direttiva comunitaria era già intervenuta sulle s.r.l. smentendo la non applicabilità dell’art. 2373 c.c.).

Dott.ssa Elena Laudani

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