Il 41-bis tra garantismo processuale e giustizia giurisprudenziale: il magistrato di sorveglianza è il dikastés dei diritti dei detenuti?

Redazione 10/02/21
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di Maddalena Fascì

Sono ormai trascorsi settantatré anni da quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha promulgato la “Dichiarazione Universale dei diritti umani”[1]. Essa ha posto le fondamenta per edificare una stabile struttura di creazione internazionale, considerando sia che i suddetti diritti vengano osservati e, di conseguenza, realizzati negli Stati, sia che sussistano istituzioni e congegni in grado di assicurarli.

La Carta dei diritti umani, il cui incipit si compendia nella straordinaria asserzione “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti”, comprende i fondamentali assiomi di una società e di una struttura politica democratica.

L’assetto cosmopolita bonario e il meccanismo democratico vengono incentivati, ictu oculi, attraverso la suddetta Carta. Ciononostante, la prassi ha accertato che le gigantesche difformità tra gli Stati possono ostacolare la realizzazione delle sue imposizioni e, in particolare, possono manipolarne la decodificazione e proibirne la verifica.

I diritti fondamentali possiedono un sempre maggiore riconoscimento culturale. Per tale motivo, si realizza il processo di strumentalizzazione della verifica e del sanzionamento.[2]

Lo Stato democratico moderno assolve ad un determinato impulso intellettuale, che lo trasforma in uno “Stato di cultura”, da interpretare in modo innovativo ed insolito. Lo Stato, propugnatore del progresso culturale, diviene – ora – obbligato al precetto internazionale di osservare e mettere in atto i diritti fondamentali.

Tale dovere non è stato sempre rispettato dal nostro Paese.

A titolo esemplificativo, basti pensare alla questione del sovraffollamento carcerario. Questo problema si è certamente acuito con la situazione emergenziale che si sta vivendo, ma ha costituito da sempre una piaga della società dal momento che l’Italia è stata pluricondannata dalla giustizia europea[3]. Tuttavia, non sembra essere cambiato nulla dagli ultimi moniti provenienti da Strasburgo. Ciò è testimoniato dal fatto che è trascorso quasi un anno da quando il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) ha ispezionato alcuni istituti penitenziari italiani, tra cui quello di Viterbo, nel quale ultimo vi sono state innumerevoli denunce di abusi e maltrattamenti[4].

Significativo, inoltre, è stato il ruolo svolto dal Garante nazionale delle persone private della libertà, che ha alimentato un’analisi sul regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario ex L. n. 354 del 1975[5].

E’ notorio che il regime speciale stabilito dalla citata disposizione è derivato inizialmente dalle stragi di mafia[6] e, successivamente, venendo meno il carattere originario e provvisorio dell’emergenza, ha assimilato uno specifico controllo di legittimità sulle condizioni e sui contenuti, assolti dal Tribunale di sorveglianza.

L’art. 41-bis ord. pen., dunque, viene concepito in un momento in cui lo scopo principale del nostro Paese è quello di recidere[7] i rapporti tra i detenuti assoggettati a tale regime aggravato e il mondo esterno, rappresentato dalla criminalità organizzata, terroristica ed eversiva. Difatti, si vuole impedire che coloro che sono reclusi possano proseguire ad assegnare comandi a coloro che sono in libertà e appartengono alla stessa organizzazione delittuosa. In questo modo, gli esponenti criminali ristretti continuano a detenere la preminenza del potere sulle attività illecite[8].

Delineato l’entourage in cui si colloca la norma, bisogna soffermarsi ad analizzare il relativo comma 2-quater.

Innanzitutto, i soggetti reclusi in regime di 41-bis “devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria”.

Inoltre, il regime detentivo speciale richiede “l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna”, il cui scopo principale è “prevenire” sia “contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento” del detenuto o dell’internato, sia “contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate” (lett. a).

Successivamente, la norma enumera determinati parametri, che rappresentano la sostanza stessa del regime in analisi.

In primo luogo, al detenuto è ammesso esclusivamente un colloquio al mese di un’ora con i propri familiari e conviventi, salvo casi eccezionali, “in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti”. Per coloro, invece, che non effettuano il suddetto colloquio, può essere concesso “un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti sottoposto, comunque, a registrazione”. Entrambe le tipologie di colloqui sono, altresì, sottoposte a controllo auditivo e a videoregistrazione (lett. b).[9]

In secondo luogo, il legislatore ha previsto “la limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno” (lett. c).

In terzo luogo, per i detenuti sottoposti al regime del c.d. “carcere duro” è stabilito che la corrispondenza sia sottoposta “a visto di censura” (lett. e).

Infine, ai succitati soggetti è consentita la “permanenza all’aperto, che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone, ad una durata non superiore a due ore al giorno”. Per permettere tale minima socialità l’amministrazione deve scegliere i detenuti attentamente in modo tale che essi non appartengano allo stesso sodalizio criminale e non si possano scambiare oggetti (lett. f).

Alla luce delle considerazioni esposte, si deve menzionare la recente questione riguardante un profilo qualificante del regime carcerario speciale, previsto dalla norma in analisi, ovverosia il diritto del condannato all’acquisto di un libro.

Il caso di cui si è discusso, in questi giorni, ha avuto ed avrà una grande risonanza nel nostro Paese, soprattutto mediatica, dal momento che è stato lo stesso soggetto detenuto al 41-bis nel carcere di Viterbo a rivelarla. Difatti, come si apprende dai mass-media e dai quotidiani nazionali, egli ha inoltrato il relativo dossier a Roberto Giachetti, membro di Italia Viva, il quale ha presentato l’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia e ha reso edotta dell’accaduto Rita Bernardini, componente del Consiglio Generale del Partito Radicale.[10]

Il detenuto ha riferito che la richiesta di acquistare due libri non è stata accettata dalla direzione del carcere.

I volumi in oggetto sono quelli di Luigi Manconi, politico e sociologo, e Federica Graziani, studiosa di filosofia e letteratura, “Per il tuo bene ti mozzerò la testa – Contro il giustizialismo morale” e di Marta Cartabia, professore ordinario di Diritto Costituzionale ed ex presidente della Corte Costituzionale, e Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia, “Un’altra storia inizia qui – La giustizia come ricomposizione”.

Le motivazioni del rigetto sono da rinvenire nella compressione dei diritti del detenuto all’informazione e allo studio.

Segnatamente, per quanto concerne il primo libro, il motivo del rigetto è da rintracciare nella prima parte del comma 2-quater dell’art. 41-bis ord. pen. In particolare, il legislatore ha affermato che per “i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione” è prevista “la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2” della medesima norma.

La direzione del carcere di Viterbo, altresì, ha sottolineato la “non opportunità” – senza, peraltro, un valido motivo, considerato quanto segue – del permesso per l’acquisto del libro, il cui contenuto non si racchiude nel titolo, bensì nel sottotitolo, “Contro il giustizialismo morale”. Gli autori, dopo una breve disamina sugli ultimi anni di storia nazionale, hanno analizzato le condizioni vergognose della res publica e del sistema “giustizia” del nostro Paese.

Pertanto, la negazione dell’autorizzazione del magistrato di sorveglianza per acquistare il libro al detenuto recluso in regime di 41-bis si rivela sproporzionata rispetto allo scopo perseguito dal regime stesso.

Per quanto riguarda il secondo libro menzionato, invece, il pubblico ministero e il giudice hanno, rispettivamente, fornito parere negativo e rigettato la relativa istanza. Ciò considerando che nel momento in cui il detenuto fosse venuto in possesso del libro, si sarebbe trovato in una “posizione di privilegio” rispetto agli altri detenuti. Di conseguenza, tale circostanza avrebbe provocato un notevole incremento del “carisma criminale”.

Una simile affermazione del magistrato di Viterbo è, infatti, sconvolgente dal punto di vista sistematico e non si può assolutamente condividere.

Sul punto, è opportuno rammentare una granitica pronuncia della Corte Costituzionale[11], la quale ultima ha statuito che i criteri dell’amministrazione penitenziaria non condizionano i diritti dei detenuti al regime differenziato a recepire e a conservare con sé riviste a stampa che prediligono[12], ma influenzano profondamente le procedure tramite cui le suddette riviste possono essere acquisite.

A tale proposito, è bene evidenziare che diversi quotidiani hanno parlato non correttamente di un “divieto di lettura e di informazione”. Tuttavia, al detenuto in regime speciale non è vietato il possesso di libri e riviste, prova ne è che allo stesso soggetto è consentito acquistare le pubblicazioni esclusivamente attraverso l’istituto penitenziario. Questo per impedire che si crei un “flusso comunicativo” tra il detenuto e i familiari.

Da quanto affermato emerge che vi è una compressione dei diritti del soggetto recluso al 41-bis. Ciò si verifica perché la direzione del carcere – senza interposta persona (ad esempio, i familiari del detenuto) – è tenuta ad acquistare le pubblicazioni. Pertanto, il detenuto viene espropriato della opportunità di avere libri fuori commercio o dispense fotocopiate o di acquistare libri usati, risparmiando economicamente. Ne consegue che l’amministrazione si obbliga ad effettuare un servizio efficiente in tempi ragionevoli[13].

In particolare, la magistratura di sorveglianza deve controllare la concretezza del riconoscimento del diritto ad acquistare libri e riviste, considerando che si devono individuare in modo repentino le situazioni di omessa o ritardata consegna. Il controllo giurisdizionale avviene ex post e solo se il detenuto attivi il procedimento di reclamo ex art. 35-bis ord. pen.[14]

Pertanto, il ministro della Giustizia dovrebbe urgentemente adoperarsi per invalidare quanto accaduto. In sostanza, il volume, curato da un eccellente criminologo in collaborazione con la prima donna Presidente della Corte Costituzionale, nel quale i due autori si raffrontano sulle meditazioni riguardo la giustizia riparativa del cardinale Carlo Maria Martini, viene visto come una minaccia per la salvaguardia della realtà carceraria. Vieppiù, se si pensa che il libro è scritto da una giurista e accademica di elevato spessore, la quale è sempre stata apprezzata dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sin da quando entrambi erano giudici della Corte Costituzionale, e che il nome di questa donna potrebbe entrare a far parte di un governo – tecnico o politico o, ça va sans dire, a composizione mista [15]-, allora si è di fronte ad un vuoto intollerabile per il sistema penitenziario moderno.

Il fatto di cronaca appena descritto bisogna osservarlo in concomitanza con una recentissima ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma, la quale ultima ha analizzato il problema della tutela del diritto alla sessualità in carcere, in particolare per i soggetti detenuti al 41-bis ord. pen.[16]

Nel caso di specie, il rifiuto illegittimo dell’amministrazione penitenziaria è frutto di un provvedimento che non può sottoporsi al vaglio del principio di proporzionalità dal momento che impedisce la richiesta di acquistare riviste per visionare fotografie erotiche. In tale modo, si ostacola l’esercizio della libertà sessuale del singolo.

Si può osservare come, anche in questa circostanza, vi sia una diatriba riguardo al ruolo della pena e a come reagisce colui che si trova ristretto secondo le modalità del sopraccitato regime. Difatti, il magistrato di sorveglianza o, per meglio dire, ogni operatore del diritto che si trovi implicato in questo meccanismo dovrebbe considerare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, la funzione rieducativa della pena ex artt. 27, comma 3, Cost. e 3 CEDU e, per ultimo – ma non in ordine di importanza -, la tutela incoercibile di ogni residuo di libertà tollerabile con i regimi custodiali più inflessibili ex art. 13, comma 4, Cost. Quindi, il rifiuto di acquisto della rivista da parte del magistrato ha rappresentato una perdita di libertà e di benessere psico-fisico della persona detenuta, contravvenendo alle disposizioni penitenziarie di matrice europea sul riconoscimento del “diritto all’affettività e alla sessualità” del detenuto al regime penitenziario differenziato.

Fondamentale si mostra il valore della dignità della persona, soprattutto per la vita semioscura di coloro che sono confinati nei circuiti endomurari. E, quindi, è palese e consequenziale che “l’investimento in umanità è il migliore degli investimenti possibili”[17].

Per comprendere meglio il fulcro delle argomentazioni in epigrafe, tuttavia, è divenuto indispensabile evidenziare che già dal sottotitolo del libro “La giustizia come ricomposizione” si evince che bisogna fare emergere le storie di giustizia riparativa. In particolare, si dovrebbe “vedere” e “visitare”[18] le condizioni di vita degli istituti penitenziari e, successivamente, comprendere “le contraddizioni e le sofferenze della società” in qualunque modo[19]. Ad esempio, attraverso testimonianze, documentari, film, etc., la communis opinio potrebbe abbandonare lo scetticismo[20], che la contraddistingue e dovrebbe proiettarsi in un mondo “colmo di fiducia sulle potenzialità di recupero, sempre presenti, anche se spesso latenti, in ogni persona quand’anche si fosse macchiata dei più ripugnanti delitti”. Ne consegue “una concezione della pena radicata nella convinzione che chi sbaglia può sempre correggersi; sicchè la pena deve guardare sempre al futuro”[21].

Premesso ciò, è d’obbligo chiedersi se il giudice della Casa Circondariale di Viterbo sia da considerare un vero “dikastés”.

Se si va oltre il significato letterale del termine greco arcaico (“giudice”), si può constatare come esso, provenendo dalla parola “dike”, assuma un valore più intenso. In altri termini, il dikastés è colui che “concretizza la giustizia” dal momento che egli infligge la “pena” (“dike”)[22].

Questa proposizione rappresenta le origini del “giustizialismo” e, di conseguenza, il “dikastés” incarna l’originario “giustiziere”.[23] L’aspetto principale è la circostanza tangibile dell’attuazione-esecuzione della pena da cui proviene la “giustizia”. Ciò è da leggere attraverso le lenti non della modernità, ma del passato[24], specialmente rievocando le celebrazioni religiose.

Si pensi a Socrate, il quale si è assoggettato alle leggi e ha ricevuto la “pena-giustizia”. Per questo motivo, egli ha permesso che l’ordine politico e sociale, minacciato dallo affrancato utilizzo del pensiero[25], potesse essere riconfermato con l’eliminazione del soggetto che quella minaccia ha personificato.

Nella cultura greca non vi sono casi di “giudizi sbagliati” perché quando si infligge la “pena”, si realizza la “giustizia”[26].

Il discrimen tra “giudice” e “giustiziere” e il ribaltamento della funzione originaria “pena-giustizia” in “pena-ingiustizia”[27] si avrà solo nel diritto moderno.

Infatti, nella società in cui viviamo il concetto di “giustizia”, considerando il singolo individuo, e quello di res publica sono strettamente collegati. Sul punto, è interessante rammentare il versetto biblico Diligite iustitiam, qui iudicatis terram[28]. Il significato profondo che si cela dietro tale locuzione latina è racchiuso nelle funzioni di “governo” e di “giustizia”, le quali non sono uguali, ma presentano una forte relazione. In breve, il buon governo è sempre caratterizzato da una giustizia fiorente e in grado di esprimersi; mentre nel caso in cui la “giustizia” sia una “donna bendata”, si avrà la metafora del cattivo governo e, di conseguenza, la demolizione della città[29].

Le riflessioni svolte aiutano a comprendere come oggi nessuno ritenga che l’avvenire sia dominante rispetto al passato, che un gruppo sociale possa proteggere la collettività, che la scienza fornisca verità oggettive per qualsiasi mansione e adeguatrici della nostra vita, che l’essere umano sia automaticamente il prodotto della collettività e, pertanto, modificando la collettività, l’uomo cambi.

Si inizia a parlare di “epoca moderna” nel momento in cui al sacerdote subentra lo scienziato.

Ad avviso di Nietzsche il rappresentante cardine della società doveva rintracciarsi nell’artista, inteso sia stictu sensu, sia come “artista della politica”[30].

Oggigiorno, non vi è un esponente paradigmatico determinabile. La routine, il consumo e l’individualismo contraddistinguono l’uomo dell’Occidentale e la nostra conoscenza dell’essere umano. La storia esiste, ma non appare essenziale. Per la sociologia questa condizione di disgregazione e di provvisorietà è un campo di indagine enigmatico, ai confini della fondatezza della medesima collettività e della medesima sociologia.

Lo stesso intellettuale, che apparentemente ha chiarito il bisogno di un simbolo distintivo di cui la società necessitava, non sembra più tale nell’era contemporanea. Adesso, vi è sicuramente la presenza del singolo individuo e dei relativi diritti fondamentali. Pertanto, la “società” e la “giustizia” risultano essere in crisi[31], così come il ruolo dei magistrati di sorveglianza.

La responsabilità dei suddetti magistrati, i quali seguono il percorso di ogni individuo, è quella di esaminare, al di là degli apparenti pregiudizi, se ci siano i presupposti per poter accedere ai benefici penitenziari, che sono parte integrante del cammino. Tuttavia, il singolo “giudice” di sorveglianza – come lo si definiva nel lontano 1986, periodo in cui la Suprema Corte[32] non si era ancora pronunciata sul diritto del detenuto al regime speciale di detenzione di ricevere copia gratuita di quotidiani nazionali presso l’istituto penitenziario – non dovrebbe risolvere con la logica il rifiuto dell’acquisto di un libro denso di considerazioni riguardo la pena detentiva e le condizioni di vita nelle prigioni ad un detenuto al 41-bis. Il medesimo magistrato, al contrario, dovrebbe osservare cosa accade dinanzi alla evoluzione dei rapporti e, successivamente, attraverso la “giustizia riparativa”, comprendere il nuovo paradigma di valutazione.

Ebbene, è proprio questa la fase più acuta della vicenda: indipendentemente dal fatto che l’interpretazione effettuata dal magistrato di sorveglianza del carcere di massima sicurezza di Viterbo possa essere più o meno corretta o sia più o meno qualificata come una irregolarità presente nella struttura regolamentata a livello costituzionale delle fonti del diritto, è certo che “di fatto” tale interpretazione giurisprudenziale ha assunto un risultato “fantasioso”. Pertanto, occorrerebbe un intervento – non uno sbarramento come accaduto – chiarissimo e repentino del ministro della Giustizia, tendenzialmente insuscettibile di modifiche, secondo cui il libro di Marta Cartabia diventi parte integrate del percorso rieducativo del detenuto nel sistema penitenziario vigente[33].

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Note

[1] Precisamente, essa è stata adotta il 10 dicembre 1948 con la Risoluzione n. 217/3. Per un approfondimento, v. TREVES, Diritto internazionale. Problemi fondamentali, Giuffrè, 2005, p. 191 ss.; CASSESE, I diritti umani oggi, Laterza, 2005, p. 32.

[2] In questo senso, cfr. BRAVO – MALANDRINO, Il pensiero politico del Novecento, Giappichelli, 1994; BOBBIO, Il futuro della democrazia, Einaudi, 1984; BARRACLOUGH, Introduzione alla storia contemporanea, Laterna, 1971.

[3] Cfr. Caso Sulejmanovic c. Italia (ricorso n. 22635/03); Caso Torreggiani e altri c. Italia (ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10). Sul punto, per quanto concerne la prima pronuncia, v. PLASTINA, L’Italia condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per l’insufficienza temporanea dello spazio individuale nella cella assegnata a un detenuto nel carcere di Rebibbia nel 2003, ma assolta per la gestione, in quel contesto, della sovrappopolazione carceraria, in Cass. Pen., 2009, p. 4928 ss; per quanto riguarda la seconda decisione, v. VIGANO’, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in Dir. pen. cont., 9.1.2013; TAMBURINO, La sentenza Torreggiani e altri della Corte di Strasburgo, in Cass. Pen., 2013, p. 11 ss.

[4] Così, ANASTASIA, Il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. 41-bis disumano, va cambiato: così è come tortura, in www.ilriformista.it, 22.01.2020.

[5] DELLA BELLA, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Giuffrè, 2016; CESARIS, Art. 41-bis Situazioni di emergenza, in DELLA CASA-GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, Cedam, 2015, pp. 442-482.

[6] Si fa riferimento alle stragi di Capaci e di Palermo. L’avvento dell’art. 41-bis ord. pen., peraltro, non è stato totalmente esente da critiche. Pertanto, sia consentito il rinvio a ARDITA, Ricatto allo Stato. Il 41-bis, le stragi mafiose, la trattativa fra Cosa Nostra e le istituzioni, Sperling&Kupfer, 2011; CESARIS, Art. 41-bis – situazione di emergenza, cit., 2000, p. 339; VAUDANO, La pericolosità delle associazioni mafiose impone cautela nelle “aperture” del 41-bis, in Guida al Dir., 1998, p. 108.

[7] Sebbene l’attuale sistema penitenziario ha qualificato i contatti dei detenuti come mezzo di reinserimento sociale. Al riguardo, si deve sottolineare l’iter della Corte Costituzionale, con le quattro sentenze interpretative di rigetto: Corte Cost., 24 giugno 1993, n. 349; Corte. Cost., 5 novembre 1993, n. 410; Corte Cost., 14 ottobre 1996, n. 351; Corte Cost., 1° ottobre 1997, n. 376.

[8] Come stabilito nella sentenza della Corte Cost., 17 giugno 2013, n. 143.

[9] Per quanto concerne le radicali costrizioni sia sul quantum sia sul quomodo dei colloqui personali con i familiari, cfr. CEDU, 19 gennaio 2010, Montani c. Italia; CEDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Enea c. Italia.

[10] ALIPRANDI, Il magistrato vieta al detenuto il libro della Cartabia: “Ne aumenta il carisma criminale”, in www.ildubbio.news, 29.01.2021.

[11] Corte Cost., 26 maggio 2017, n. 122, con commento di DI CHIARA, Art. 41-bis ord. pen. e divieto di scambio con l’esterno di libri e riviste a stampa, in Dir. pen. e proc., 2017, n. 9, pp. 1136-1139 e di AMIRANTE, Detenuti al 41-bis e diritto alla ricezione di libri, riviste e stampa in generale, in www.quotidianogiuridico.it, 13.06.2017.

[12] Cfr. Circolare D.A.P. n. 3676/7126 del 2 ottobre 2017; Circolare D.A.P., n. 3701/2014, emanata l’11 febbraio 2014, ripristina le disposizioni contenute della Circolare D.A.P. n. 8845/2011 del 6 novembre 2011.

[13] Sul tema, si è già espressa Cass. Pen., Sez. I, 16 ottobre 2014, n. 6889.

[14] In tale norma, si rinviene il c.d. giudizio di ottemperanza. Esso è stato inserito per impedire che quanto statuisce il magistrato di sorveglianza cada nell’oblio, qualora venga accolto un reclamo del detenuto.

[15] LANZARA, Il costituzionalista Scaccia: “Governo tecnico o politico? Sarà mediano”, in www.adnkronos.com, 4.02.2021; RUBINI, Marta Cartabia, “dalll’esploratore farlocco Fico alla scalatrice vera”. Retroscena Mattarella: la preferita del Quirinale, in www.liberoquotidiano.it, 1.02.2021.

[16] Trib. Sorv. Roma, ord. 7 ottobre 2020. In giurisprudenza, vi sono innumerevoli orientamenti giurisprudenziali conformi (ad esempio, Cass. Pen., Sez. I, 30 gennaio 2008, n. 7791; Cass. Pen., Sez. I, 24 giugno 2013, n. 39537; Cass. Pen., Sez. I, 15 gennaio 2015, n. 1774; Mag. Sorv. L’Aquila, ord. 5 settembre 2018; Mag. Sorv. Verona, ord. 12 febbraio 2020), mentre non si rinvengono precedenti difformi. Cfr. MANCA, Diritto alla sessualità e riviste pornografiche per i detenuti al 41-bis o.p., in www.quotidianogiuridico.it, 17.12.2020.

[17] SILVESTRI, La dignità umana dentro le mura del carcere, intervento del Presidente della Corte costituzionale al convegno su Il senso della pena. Ad un anno dalla sentenza Torreggiani della CEDU, Roma, carcere di Rebibbia, in www.cortecostituzionale.it, 28.05.2014.

[18] In tale senso, CALAMANDREI, nella rivista “Il Ponte” del 1949, ha affermato che “bisogna aver visto un carcere per comprendere la realtà dei delitti e delle pene”.

[19] CARTABIA-CERETTI, Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione, Bompiani, 2020, pp. 55-58.

[20] Così, CARTABIA si esprime nella conferenza “Riconoscimento e riconciliazione” in occasione della seconda edizione della Martini Lecture Bicocca, svoltasi il 16.10.2020.

[21] CARTABIA-CERETTI, Un’altra storia inizia qui, cit., p. 75.

[22] Cfr. JAEGER, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Bompiani, 2003, p. 92 ss.

[23] Su tali profili, cfr. I danni da attività giudiziaria in executivis. Cause e rimedi, a cura di L. Kalb, Cedam, 2017.

[24] Cfr. SCHIAVONE, Jus. L’invenzione del diritto in occidente, Einaudi, 2005.

[25] Il pensiero, in ogni epoca, è stato sempre considerato il crimine più grave. Ad esempio, D’ANNUNZIO, Prose, Garzanti, 1983, p. 206 ha attestato che “se considerato è come crimine l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine”.

[26] Cfr. TONELLI, Eschilo, Sofocle, Euripide. Tutte le tragedie, Bompiani, 2013, p. 128 ss.

[27] In particolare, lo scisma incontrastabile tra “pena” e “giustizia” è derivato dalla scorporazione tra la sfera del concreto (fatto) e la sfera dell’astratto (diritto). Ne è derivato il problema della “pena ingiusta”, ovvero della pena inflitta dopo un errore di giudizio. Per un approfondimento, v. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, 2008.

[28] L’espressione parafrasata vuol dire “Amate la giustizia, voi che governate sulla terra” (Sap. 1,1); cfr. CARTABIA-CERETTI, Un’altra storia inizia qui, cit., pp. 94-95.

[29] Cfr. PROSPERI, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine, Einaudi, 2008; GRAVES, I miti greci, Longanesi, 1963.

[30] NIETZSCHE è stato un filosofo tedesco, caratterizzato da uno spirito di notevole interesse nella cultura moderna e ha interpretato i valori morali come prodotto del male di vivere e la potenza come espressione del coraggio di vivere. Al riguardo, sia consentito il rinvio alle sue opere principali socialmente rilevanti: Umano troppo umano, Adelphi, 1878-1879; Aurora, Adelphi, 1881; La gaia scienza, Adelphi, 1882; Così parlò Zarathustra, Adelphi, 1833-1885; Genealogia della morale, Adelphi, 1887.

[31] Cfr. ARDIGO’, Per una sociologia oltre il post-moderno, Laterza, 1988; LUHMANN, Sistemi sociali: fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, 1984; ARDIGO’, Crisi di governabilità e mondi vitali, Cappelli, 1980; HABERMAS, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, 1973; FREUD, L’avvenire di un’illusione, Boringhieri, 1927.

[32] Cass. Pen., Sez. I, 21.07.2020, n. 21803, con commento di DELEONARDIS, A quali quotidiani può abbonarsi un detenuto al 41-bis?, in www.quotidianogiuridico.it, 9.09.2020.

[33] Sul punto, giova rammentare il pensiero di Papa Francesco sul cardinale Carlo Maria Martini, personaggio cardine nel volume di CARTABIA-CERETTI, cit.: “La memoria dei padri è un atto di giustizia. E Martini è stato un padre per tutta la Chiesa”.

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