I gravi effetti del nuovo art. 157 cp in relazione all’ipotesi del comma v dell’art. 73 dpr 309/90.

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I guasti della L. 251/05 non attengono solamente all’eclatante aspetto della recidiva, ma toccano, pure, delicati rapporti con altre norme penali sia codicistiche, che speciali
E’ il caso della sentenza che si riporta in una sua parte essenziale (e relativa alla problematica su cui ci si sofferma in questa sede), la quale affronta il problema del raccordo fra norme sostanziali e cioè fra gli artt. 2 e 157 c.p., da un lato e l’art. 73 comma V dpr 309/90.
Nella fattispecie, si tratta di un procedimento penale iniziato nel lontano 1994, quindi sotto l’imperio della vecchia dizione dell’art. 157 c.p. e conclusosi nel febbraio 2006, qualche mese dopo l’entrata in vigore della L. 251/05.
Determinate condotte rubricate, in origine come integranti l’ipotesi di reato di cui all’art. 73/1° dpr 309/90, all’esito del giudizio abbreviato vengono ridefinite come configuranti il comma V dell’art. 73, cioè l’ipotesi lieve, alla stregua della richiesta della difesa, che viene accolta.
Si pone, però, in tale situazione, un ulteriore problema e cioè quella di valutare se, derubricato il fatto, in virtù dell’attenuante ad effetto speciale richiamata, sia possibile dichiarare prescritto il delitto ritenuto.
A questo punto entra in vigore sia l’aberrante struttura dell’art. 157 c.p., così come novellato dalla Legge ex-Cirielli, sia l’inadeguatezza dell’orientamento, peraltro consolidato in giurisprudenza, che vuole l’ipotesi di cui al comma V dell’art. 73 dpr 309/90 quale attenuante ad effetto speciale (e come tale sototposta al regime generale delle attenuanti) e non già titolo autonomo di reato, come, invece, sarebbe logico e giusto affermare[1].
La precedente formulazione dell’art. 157 c.p. [2], sotto la rubrica tempo necessario a prescrivere, sanciva tutti una serie di parametri che è essenziale riassumere.
In primo luogo, appariva la centralità dell’esercizio del potere discrezionale del giudice che era modulato sul rilievo dell’efficacia di eventuali circostanze attenuanti e degli effetti del possibile giudizio di bilanciamento con ipotetiche aggravanti.
Tale aspetto appariva in tutta la sua chiarezza nei commi 2 e 3, laddove, allo scopo di predeterminare il tempo necessario a prescrivere, il giudice doveva tenere conto:
1.                      del tetto massimo della pena stabilita dalla legge per lo specifico reato, consumato o tentato,
2.                     in situazioni concernenti il reato circostanziato, da un lato, dell’aumento massimo di pena stabilito per le circostanze aggravanti, dall’altro, della diminuzione minima stabilita per le circostanze attenuanti,
3.                      ove si fosse configurata un’ipotesi di concorso fra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, del necessario ricorso all’applicazione delle disposizioni dell’art. 69 codice penale.
Sullo specifico punto va, infatti, ricordata la convincente ed importante posizione assunta dal FLORA[3], che ritiene le condotte, integranti la ipotesi lieve, come fattispecie autonome, tali da potere assumere la veste di reati fine di quella che viene considerata un’associazione “minore”.
Ciò nonostante, appare evidente che la ricordata classificazione, adottata in relazione all’art. 73/5°, dalla giurisprudenza, soprattutto di legittimità, appare assolutamente insoddisfacente, perchè essa limita e circoscrive in maniera palese la sfera di applicazione della norma.
L’inquadramento dommatico della disposizione in trattazione nella categoria giuridico-concettuale delle circostanze attenuatrici la pena, seppur ad effetto speciale, si dimostra, quindi, opzione inadeguata, perchè espone la previsione portata dal comma V a quelle conseguenze, proprie delle circostanze di reato e cioè subire compressioni ed ablazioni, rispetto a circostanze aggravatrici, che ne annullano la effettiva valenza nell’economia del giudizio penale.
Sintomatica di tale conseguenza è la conclusione cui è giunta (ex plurimis) la S.C. Sez. VI, 15/10/2002, n.37016, Mazzei, Riv. Pen., 2003, 671 che ha sancito che “In tema di stupefacenti, quando la circostanza attenuante ad effetto speciale della lieve entità del fatto, prevista dall’art. 73 comma 5 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, concorre con una circostanza aggravante, si applica la previsione dell’art. 69 comma 4 c.p., ossia l’obbligatorio giudizio di comparazione – con la conseguenza che, in caso di equivalenza, la pena è determinata senza tener conto di alcuna delle circostanze (art. 69 comma 3) – e non la disposizione dell’art. 63 comma 3 stesso codice, che riguarda esclusivamente il concorso di circostanze omogenee”.
Sicchè per questa, come per altre numerose ragioni sarebbe stato saggio da parte del legislatore affrontare il problema, fornendo una soluzione interpretativa che riconoscesse dignità di autonoma figura di reato ad un articolo di legge, che tratteggia, nella sua complessità una situazione che presenta parametri valutativi del tutto differenti da quelli che usualmente vengono richiamati in relazione alle ipotesi di reato previste ai commi 1 ed 1 bis del T.U. sugli stupefacenti.
Ciò non è avvenuto ed il disagio appare ancor più rilevante, sol che si pensi al fatto che la novella in tema di prescrizione ha del tutto annicchilito sul piano giuridico la disposizione di cui al comma V.
Il nuovo testo dell’articolo 157 del codice penale, così come modificato dalla L. 251/05, al comma 2° sancisce che “per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita per legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti[4].
Previsione quest’ultima rafforzata dal divieto di applicazione del giudizio di valenza fra attenuanti ed aggravanti, ai sensi dell’art. 69 c.p., posto dal successivo comma 3°.
Il dato legislativo, quindi, fa si che l’eventuale riconoscimento, in uno specifico caso, della diminuente di cui al comma V° dell’art. 73, (attesa la di lei discutibile natura di attenuante) escluda l’invocata declaratoria di prescrizione, in virtù del nuovo testo dell’art. 157 c.p., posto che il tempo da computare ai fini della prescrizione deve essere quello pari alla quantità massima di pena prevista per lo specifico reato.
In ipotesi di violazione dell’art. 73 del dpr 309/90, si dovrà, quindi, tener fermo, ai fini della quantificazione del termine prescrizionale, il limite di 20 anni, perchè esso è il quantitativo massimo di pena irrogabile per il reato base, prescindendo dalla valutazione in ordine all’effettiva sussistenza di attenuanti od aggravanti.
Unica eccezione derogatoria (in peius, ahimè) è quella concernente le sole aggravanti ad effetto speciale, che vengono computate nella misura massima del loro aumento.
Sul significato chiaramente repressivo di una siffatta previsione normativa, non pare mettere conto spendere ulteriori osservazioni, tanto la situazione è evidente nella essenza, attesa la mancanza di una simmetrica previsione che involga le attenuanti ad effetto speciale, di cui proprio l’art. 73/5° è palese espressione.
Deriva, pertanto, che per quei casi giudiziari, che si pongano a cavallo dello spartiacque fra l’ancient ed il nouvel regime determinato dalla modifica dell’art. 157 c.p., in quanto tratti di vicende avvenute in epoca pregressa all’entrata in vigore della L. 251/05, ma giudicate successivamente alla vigenza della stessa, ferma l’applicazione dell’art. 2 comma 4° c.p., la legge di maggior favore per l’imputato sarà quella abrogata e non quella innovante.
Siffatta valutazione derva dall’applicazione del giurisprudenzale costante principio per il quale “in tema di successione delle leggi nel tempo, la disposizione più favorevole al reo non può essere mai individuata in astratto, ma deve essre valutata in concreto, con riguardo cioè a risultati che deriverebbero dall’applicazione alla fattispecie considerata dell’una o dell’altra norma” [Cfr. Cass .Sez. IV, sent. n. 3811 del 28 Aprile 1984 (cc. del 25-11-1983), Vannini (rv 163860), conf. IV, sent. n. 6636 del 16 Luglio 1984 (cc. del 19-12-1984), Bertozzi (rv 165324)].
Deriva, pertanto, dalle osservazioni che precedono, che il concetto di “disciplina più favorevole al reo” si riferisce a quella che in concreto venga a risultare, complessivamente, più favorevole per il giudicabile [Cfr. Sez. VI, sent. n. 394 del 16-01-1991 (cc. del 30-05-1990), Cosco (rv 186207)]. 
In quest’ambito, quindi, troverà concreta applicazione la disposzione del comma 1° n. 3 dell’art. 157 c.p. in combinato disposto con l’art. 160 u.co c.p..
Quest’ultima norma, infatti, prevedeva che, in presenza di una pluralità di atti interruttivi la prescrizione, essa decorre dall’ultimo di essi, ma i termini di cui all’art. 157 c.p. non possono essere prolungati oltre la metà.
Sicchè se il termine di cui al n. 3 è quantificato in dieci anni, (trattandosi di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a cinque anni, posto che il comma V prevede una pena massima di sei anni) la prescrizione nella sua massima estensione sarà pari a 15 anni.
Si tratta di una soluzione di ripiego che dimostra come la novella introdotta con l’ex-Cirielli non possa affatto incidere, quale forma di deterrenza, sulla lunghezza dei processi penali, posto, che, paradossalmente, si hanno effetti del tipo di quello sin qui descritto, cioè di arbitrario allungamento dei termini prescrizionali.
Come detto, solo in ipotesi di vicende che possano giovarsi del disposto dell’art. 2 c.p., in tema di successione di leggi nel tempo, i nuovi termini possono cedere il passo ai vecchi che risultino di maggiore favore.
La conseguenza che, comunque, maggiormente rileva ai fini che ci occupano è la mortificazione della previsione del comma V dell’art. 73 dpr 309/90, posto che si addiviene ad una omologazione massificativa delle situazioni che tale disposizione è tesa a regolare con quelle più generalmente previste dai commi 1 ed 1 bis dello stesso articolo.
Vale a dire, quindi, che la norma in questione perde quei connotati di differenziazione e non raggiunge affatto quegli scopi per i quali era stata concepita e che consistevano in una giusta differenziazione di condotte, che, in base a criteri specifici, venivano ritenute configuranti indici di minore offensività, con conseguenze di natura sanzionatoria.
In realtà, quindi, ai fini prescrizionali nessuna differenza viene concepita dal legislatore tra colui che sia stato trovato nel possesso di un quantitativo di stupefacente, non destinato ad uso personale, che ecceda minimamente i limiti tabellari e lo spacciatore inveterato, il quale senza incorrere nell’aggravante dell’ingente quantità detenga, peraltro, quantitativi importanti di sostanza destinata a terzi.
Assurdo ed inammissibile, infatti, risulta la parificazione di fattispecie, che se esaminate nella loro concretezza appaiono profondamente dissimili sotto il profilo della valutazione del background nel quale esse si calano, la tipologia dell’autore delle singole condotte, la metodologia e gli strumenti utilizzati per il compimento dell’illecita azione.
Non può, poi, rivestire il carattere di sufficiente punto di contatto l’eventuale identità delle condotte materiali tenute, che solo uno dei tanti aspetti che concorrono alla definizione della norma incriminatrice, ma che di per sé sole non risultano affatto sufficienti a rispondere ai criteri richiesti in materia di affermazione della penale responsabilità dell’imputato.
 Tale principio non appare solo come espressione profonda di una violazione della personalità della responsabilità penale e, quindi, della necessità che la valutazione del giudice sia ad personam, ma, come già detto in precedenza, esso si presenta come manifestazione assolutamente fuorviante e sminuente lo spirito che ha informato la previsione del comma V.
Non si dimentichi affatto che la dottrina, infatti, ha definito l’istituto portato dal comma V, quale ipotesi di mediazione, con la quale “il legislatore…ha inteso trovare una via di mezzo tra le situazione di cui agli artt. 75 e 76 del D.P.R. 309/90, sanzionate amministrativamente, e quelle di cui allo stesso art. 73 del D.P.R. cit. sanzionate pesantemente come delitti[5].
E pur dovendo chi scrive, affermare, qualunque sia la categoria ermeneutica all’interno della quale operare l’inserimento logico-sistematico del modello normativo in questione, che si tratti di una soluzione normativa non del tutto soddisfacente, suscettibile di concrete migliorie, frutto dell’ennesimo compromesso legislativo in tema di stupefacenti, si deve – comunque – ricusare ogni tentativo atto a svilire e disapplicare l’istituto.
In attesa di un atto di coraggio legislativo in relazione al V comma, non resta che rassegnarsi ai nuovi criteri valutativi, ce con il loro automatismo “robotizzano” la giustizia, privandola di quel sale giuridico che è (e dovrebbe essere) la capacità di corretta interpretazione della norma da parte del giudice.
 
Rimini, lì 9 Giugno 2006
Avv. Carlo Alberto Zaina
 
 
 
Sentenza GUP RIMINI (dr. L. Ardigò) 17.2.06-9.5.06
 
Omissis
Accertata, dunque, la penale responsabilità di N.I. nei termini di cui sopra, resta allora da chiedersi se il fatto contestato al predetto imputato possa essere inseriti o meno nell’ambito di operatività dell’ipotesi attenuata di cui all’articolo 73 quinto comma DPR 309/90, così come fortemente sostenuto dalla difesa in sede di discussione.
Orbene nel caso di specie le modalità e le particolari circostanze delle condotte ascritte al prevenuto così come emergenti dalla complessiva attività di indagine di PG, riferibili sostanzialmente a fatti di piccolo spaccio di modici quantitativi di sostanze stupefacenti tra persone comunque dedite anche al consumo personale, consentono di riconoscere ad avviso del giudice l’attenuante speciale di cui al comma 5 dell’articolo 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, tenendo presente come il “fatto di lieve entità” debba correttamente essre individuato con criteri interpretativi che consentano di rapportare in modo razionale la pena al fatto, tenendo conto di quel criterio di ragionevolezza che impone la proporzione fra la quantità e la qualità della pena e l’offensività del fatto (Cass. Pen. Sez VI 14/06/1994 n. 6887).
Né può essere di ostacolo il fatto che a carico del N. sia stata accertata una attività di spaccio non sporadica ma al contrario costante e duratura nel tempo: vedi sul punto Cass. Pen. Sez. IV n. 1736 dell’11/2/1998 riv. n. 210161 (conformi riv. nn. 197298, 198301, 199198 e 201644) che in un caso similare ha ritenuto che anche una attività di spaccio di sostanze stupefacenti non occasionale ma continuativa non sia incompatibile con l’attenuante della lieve entità del fatto, come si desume dall’art. 74 comma sesto DPR 309/90 che, con il riferimento ad un’associazione costituita per commettere fatti descritti dal quinto comma dell’art. 73, rende evidente che, a più forte ragione, sia ammissibile configurare come lievi gli episodi che costituiscono attuazione del programma criminoso associativo.
Va infine escluso che nel caso di specie il riconoscimento della ipotesi lieve di cui al V comma dell’art. 73 DPR 309/90 comporti (secondo pure quanto ritenuto dalla difesa) la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione: e questo sia con riferimento al regime anteriore alla legge 251/2005 che a quello successivo pure astrattamente applicabile se più favorevole non sussistendo a tale riguardo le preclusioni tassativamente elencate nel comma 3 dell’art. 10 legge citata.
Infatti con riguardo al testo in vigore in epoca precedente alla emanazione della legge n. 251/2005, essendo il delitto di cui all’art. 73 quinto comma DPR 309/90 punito con pena edittale superiore ai cinque anni di reclusione (ed in particolare sei anni), in ragione del combinato disposto degli artt. 157 n. 3 e 160 u.c. C.P., i termini massimi di prescrizione pari a quindici anni avranno scadenza solo nell’aprile dell’anno 2009.
Con riguardo invece al nuovo regime introdotto con la legge 251/2005, se è vero che il nuovo testo dell’art. 157 CP stabilisce in generale al primo comma il nuovo principio secondo il quale: “la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge”, è anche vero che al secondo comma viene stabilita la regola secondo la quale: “per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti”,sancendo poi al terzo comma il divieto di applicazione dell’art. 69 CP, dovendo il tempo necessario a prescrivere essere determinato esclusivamente a norma del secondo comma.
Va allora qui richiamata la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione che ha da sempre ravvisato nel fatto di lieve entità di cui all’art. 73 V° comma DPR 309/90 di una circostanza attenuante ad effetto speciale Cass. Pen. Sez. IV n. 70 del 12/12-19/2/1998 rivista n. 210445. Conforme più di recente Sez. VI n. 37016 del 15/10-5/11/2002 riv. n. 222845).
In applicazione di tali criteri, ne deriva che nel caso di specie il termine di prescrizione del reato sarà pari a 20 anni – la pena massima prevista dall’art. 73 primo comma DPR 309/90 – , che avranno scadenza solo nell’aprile dell’anno 2014.


[1]    V. LA NUOVA DISCIPLINA PENALE DEGLI STUPEFACENTI Maggioli Ed. 2006
[2] Per migliore comprensione si riporta il testo sia del vigente articolo 157 del codice penale, che di quello previgente, onde pervenire ad una comparazione dei cdue testi.
          157. Prescrizione. Tempo necessario a prescrivere.
            La prescrizione estingue il reato:
            1. in venti anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni;
            2. in quindici anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a dieci anni;
            3. in dieci anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a cinque anni;
            4. in cinque anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione inferiore a cinque anni, o la pena della multa;
            5. in tre anni, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell’arresto;
6. in due anni, se si tratta di contravvenzione per cui la legge stabilisce la pena dell’ammenda.
Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo al massimo della pena stabilita dalla legge per il reato, consumato o tentato, tenuto conto dell’aumento massimo di pena stabilito per le circostanze aggravanti e della diminuzione minima stabilita per le circostanze attenuanti.
            Nel caso di concorso di circostanze aggravanti e di circostanze attenuanti si applicano anche a tale effetto le disposizioni dell’articolo 69.
            Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e quella pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva.».
N.B. Di tale formulazione la Corte costituzionale, con
sentenza 23-31 maggio 1990, n. 274 (Gazz. Uff. 6 giugno 1990, n. 23 – Prima serie speciale), aveva dichiarato, fra l’altro, l’illegittimità, nella parte in cui non prevedeva che la prescrizione del reato potesse essere rinunziata dall’imputato.
La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria.
[3] In La nuova normativa sugli stupefacenti. Commento alle norme penali del Testo Unico, Milano, 1991, 
[4]Il testo completo del nuovo art. 157 c.p. è il seguente
Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante.
Non si applicano le disposizioni dell’articolo 69 e il tempo necessario a prescrivere è determinato a norma del secondo comma.
Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva.
Quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni.
I termini di cui ai commi che precedono sono raddoppiati per i reati di cui agli articoli 449 e 589, secondo e terzo comma, nonché per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale.
La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato.
La prescrizione non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti .
           
[5] Amato- Fidelbo La disciplina penale degil stupefacenti – GIUFFRE’ Milano – 1994 pg. 178.

Zaina Carlo Alberto

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