Gli interessi fra redditi di capitale e reintegrazione patrimoniale

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1. Le categorie civilistiche

1.1. In diritto civile, gli interessi sono considerati una particolare obbligazione pecuniaria, la quale possiede carattere accessorio rispetto ad un’obbligazione principale, avente anch’essa natura pecuniaria. Se, quanto alla loro fonte, gli interessi si distinguono in legali da una parte e convenzionali dall’altra, con riferimento alla loro funzione si è soliti proporre la tripartizione tra interessi corrispettivi, interessi compensativi, e interessi moratori.

Gli interessi corrispettivi – così denominati anche se l’attributo non è testualmente contenuto nel c.c. – sono quelli dovuti dal debitore sui capitali concessi a mutuo (art. 1815 c.c.), o comunque su capitali messi a disposizione di terzi (artt. 1782, comma 2°, e 1825 c. c..; art. 11, legge 27 luglio 1978, n. 392). Nella stessa categoria funzionale, ovviamente, sono ricondotti gli interessi dovuti su crediti liquidi ed esigibili di somme di danaro (art. 1282 c.c.). Gli interessi in parola sono, dunque, una sorta di “corrispettivo” per il godimento, che il debitore trae dal danaro del creditore, avendone il debitore stesso la disponibilità e possibilità di utilizzo, posto che il danaro è bene fungibile il per antonomasia. Per tale ragione, gli interessi corrispettivi sono frutti civili, cioè a dire proventi conseguiti da un bene quali corrispettivo del godimento che altri ne ha (art. 820, comma 3°, c.c.). Come noto, i frutti civili – e dunque gli interessi corrispettivi – si acquistano di giorno in giorno, in ragione della durata del diritto (art. 821, comma 3°, c.c.).

Secondo un’autorevole dottrina (1), gli interessi corrispettivi sono l’effetto del <<differimento>> nel tempo – relativo alla disponibilità del capitale -, e dunque del c.d. patto di non chiedere la restituzione del capitale stesso entro un certo termine. Sì che gli interessi corrispettivi costituiscono il compenso a fronte di una somma di denaro messa a disposizione altrui: capitale che genera, in capo a chi ne dispone, il debito relativo. Essi sono danaro che genera nuovo danaro.

1.2. La seconda categoria funzionale d’interessi – quelli, cioè, c.d. compensativi – nasce dal debito verso un creditore di obbligazioni “di valore”: per esempio il creditore di somme a titolo di risarcimento del danno.

Tali interessi costituiscono una sorta di “compenso” – da computarsi in via rivalutata – della perdita sofferta dal creditore per l’omissione di una tempestiva prestazione risarcitoria.

Questa figura d’interessi, quanto meno in punto di risarcimento omesso del danno, non è tanto dettata dal codice, quanto piuttosto rappresenta un’elaborazione giurisprudenziale generata dalla necessità di non abbandonare il creditore (al risarcimento) senza un diritto a un quid pluris, laddove l’illiquidità del credito “di valore” non consente la decorrenza di pieno diritto degli interessi corrispettivi alla luce dell’art. 1282 c.c.

Così gli interessi compensativi su somme non ancora liquide hanno funzione remunerativa, e rappresentano il compenso percentuale periodico, dovuto in cambio del vantaggio della disponibilità di un importo “il liquido”, spettante al creditore danneggiato.

Una volta liquidati in sede convenzionale o giudiziale, gli interessi in parola, da debiti di valore, si convertono in debiti di valuta. In questa prospettiva, gli interessi compensativi sono accostabili all’indebito o all’arricchimento: più, forse, all’indebito, poiché la nascita della relativa obbligazione avviene indipendentemente dalla prova dell’esistenza di un arricchimento o di un impoverimento, bensì per il solo decorrere del tempo di mancata esazione del danno. Anche qui, dunque, vi è il “differimento” di cui si diceva, ma relativo al mancato pagamento del danno.

D’interessi compensativi, per la verità, tratta – su versante parzialmente diverso – espressamente l’art. 1499 c.c., disponendo che <<salvo diversa pattuizione, qualora la cosa venduta e consegnata al compratore produca frutti o altri proventi, decorrono gli interessi sul prezzo, anche se questo non è ancora esigibile>>. Qui, il compratore trae denaro dala cosa acquistata e fruttifera, donde deriva una sorta di danno in capo al venditore, giacché quest’ultimo perde i frutti o proventi sulla cosa medesima. Sì che il compratore, anche in presenza di prezzo non ancora esigibile, deve reintegrare il patrimonio del venditore depauperato.

Analoga a quest’ultima, è la fattispecie di cui all’art. 2802 c.c., riguardante il pegno di cosa fruttifera. Ai sensi di tale ultima norma, il creditore pignoratizio, che ha la disponibilità del bene fruttifero, riscuote gli interessi o le altre prestazioni periodiche originate, imputandone l’ammontare prima alle spese e agli interessi, e poi al capitale. Il creditore pignoratizio, insomma, fa suoi i frutti del bene dato in pegno, poiché altrimenti perderebbe un quid patrimoniale, promanante da ciò che è ancora di sua proprietà; diversamente ne sortirebbe, nella sostanza, una sorta di perdita ingiustificata.

1.3. Quanto, infine, agli interessi funzionalmente moratori, essi sono dovuti anche se non erano dovuti precedentemente, ed altresì se il creditore non prova di aver subìto alcun danno (art. 1224 c.c.).

Detti interessi incombono sul debitore in mora alla luce dell’art. 1219 c.c., e vanno a vantaggio del creditore di obbligazioni pecuniarie.

Gli interessi in questione, dunque, sono una sorta di risarcimento per il ritardo, con il quale il creditore percepisce il pagamento dovutogli (art. 1224, comma 1°, c.c.). Peraltro, al creditore che dimostri di avere subìto un maggior maggior danno – rispetto agli interessi moratori -, spetta altresì il risarcimento di tale danno ulteriore (art. 1224, comma 1°, c.c.).

 

2. La disciplina fiscale.

2.1. In diritto tributario, va detto anzitutto che, quando gli interessi sono percepiti nell’esercizio d’attività d’impresa (individuale o collettiva), essi, di qualsivoglia funzione/classificazione siano, non hanno natura di reddito di capitale, bensì di reddito d’impresa per il loro ammontare maturato, secondo competenza, nell’esercizio (2). Ne conseguono le evidenti diversità, anche nella disciplina delle ritenute alla fonte, per lo più contemplate – per le persone fisiche non imprenditori – dall’art. 26 del d.p.r. n. 600 del 1973.

Se invece gli interessi sono percepiti da persone fisiche non imprenditori, viene in considerazione l’art. 44, comma 1°, lett. h), T.U.I.R., ai sensi del quale costituiscono redditi di capitale <<gli interessi e altri proventi derivanti da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego di capitale, esclusi i rapporti attraverso cui possono essere realizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto>>. Si aggiungono, in senso lato, gli interessi derivanti da prestiti: mutui, o altre forme di credito, se del caso veicolate mediante prestito obbligazionario (art. 44, comma 1°, T.U.I.R.).

Orbene, che gli interessi corrispettivi – derivanti dal capitale dato ad altri – costituiscano redditi di capitale, è un dato normativo che non stupisce. Se – come abbiamo visto in sede civilistica (3) – gli interessi corrispettivi sono il “corrispettivo” del godimento altrui del capitale, il soggetto terzo, che beneficia della disponibilità pecuniaria, percepisce una ricchezza nuova, proprio ai sensi delle norme privatistiche e/o dei patti fra le parti. Se il denaro genera altro denaro, senza intervento all’uopo di eventi aleatori, si ha, nella sostanza, capitale da capitale, e perciò – appunto – un omonimo reddito.

Si noti incidentalmente che, rispetto al dettato pregresso della lett. h) dell’art. 41, comma 1°, T.U.I.R. – facente riferimento, in via residuale, agli <<altri redditi derivanti in misura definita da un impiego di capitale -, il nuovo stile della norma [citato art. 44, comma 1°, lett. h), T.U.I.R.], menzionando invece i proventi derivanti da rapporti non aleatori (i c.d. “derivati” per antonomasia, espressamente portati nell’art. 67, T.U.I.R.), ha comportato un chiaro miglioramento, nel lessico e nel sistema legislativi sul punto. E ciò per un duplice ordine di ragioni: a) la pregressa <<misura definita>> non chiariva se ciò significasse necessariamente “pre-definita”, ovvero piuttosto “fissa e non rischiosa”; b) la formula residuale pregressa mal si conciliava con i dividendi quali redditi di capitale, essendo i dividendi stessi, per loro natura, non già predeterminati bensì originati dalla relativa delibera dei soci.

2.2. Se, ora, dagli interessi corrispettivi passiamo a quelli moratori, abbiamo visto (4) che il sostrato civilistico evidenzia una funzione di “risarcimento” per il ritardo nel pagamento d’un debito pecuniario.

Così, questo riferimento al “risarcimento” – se pure funzionale – potrebbe far pensare che gli interessi moratori non costituiscano reddito imponibile, in capo alle persone fisiche non imprenditrici.

Tuttavia, a ben vedere, gli interessi moratori non rappresentano una reintegrazione patrimoniale per una perdita sofferta; piuttosto, essi – come pure osservato (5) – hanno, nella loro sostanza, una giustificazione causale simile agli interessi corrispettivi: il “differimento”, cioè, ancorché (negli interessi compensativi) sia <<di fatto e corrisponda alla mora>> (6), negli interessi corrispettivi è <<concordato bensì fra le parti>>, ma “differimento” comunque resta. Quindi, anche nel caso degli interessi moratori, vi è un capitale – cioè il pagamento atteso -, il quale, con il trascorrere del tempo – rimanendo la somma ancora indisponibile per il creditore -, origina altro danaro per il creditore stesso. Di qui una “ricchezza nuova”, comprensibilmente tassata.

2. 3. Più complicato, infine, è il caso degli interessi compensativi sul versante fiscale.

Intermini civilistici vi è una certa analogia – ancora sul piano del “differimento” – rispetto agli interessi corrispettivi, se pure con la medesima differenza (ivi irrilevante fiscalmente), poco più sopra vista negli interessi moratori (7). Vale a dire che anche per la cosa fruttifera, venduta o data in pegno (8), sul piano civilistico vi è un rendimento, il quale promana da cosa altrui; e perciò il danaro scaturisce da un possesso, il quale è simile alla disponibilità pecuniaria – ad esempio – nel mutuo.

Le cose, però, si delineano in modo differente nel diritto tributario. In tale contesto, infatti, dottrina e giurisprudenza elaborano un concetto autonomo d’interessi compensativi.

La tassazione, infatti, colpisce meramente “fenomeni aventi natura reddituale”: il che significa fenomeni generatori di ricchezza nuova, ovvero d’incrementi patrimoniali. E dunque la Suprema Corte (9) ha affermato che costituiscono interessi compensativi quelli che non rappresentano, appunto, una ricchezza nuova, avendo essi il tratto funzionale di riequilibrare, in termini pecuniari, il valore d’un patrimonio perduto. Con il che – si dice – vi è natura risarcitoria negli interessi in parola, ai fini della determinazione del reddito delle persone fisiche non imprenditrici. Si attribuisce rilievo, in altre parole, a una funzione risarcitoria, la quale reintegra una perdita patrimoniale: il che comporta la non-imponibilità degli interessi stessi.

Oltre alla giurisprudenza appena citata, va detto che anche la dottrina si è espressa nello stesso senso, osservando che esiste una <<autonoma nozione di interesse compensativo ai fini tributari>> (10). Si è perciò ravvisata una netta dicotomia, in merito a questi interessi, fra i due rami dell’ordinamento.

2.4. Si è altresì aggiunto (11), che esistono anche interessi su crediti non relativi ad un <<impiego di capitale>>, in quanto originati da fonti differenti dall’erogazione di un prestito.

Tali sono i casi della dilazione di pagamento e del credito per risarcimento dei danni o per mancato pagamento di una prestazione.

Qui – si precisa (12) – sussiste invece imponibilità degli interessi in parola, in una logica di di reddito-entrata – piuttosto che di reddito-prodotto -, laddove si tassano, fra gli altri, gli arricchimenti fortuiti.

2.5. Per concludere, ancora la dottrina tributaria (13) ha notato che l’inflazione attribuisce, sotto un certo risvolto, la natura di reintegrazione patrimoniale anche adinteressi i quali, in termini monetari, si aggiungono a un credito liquido. Il che accade, per esempio, negli interessi sui ritardati rimborsi d’imposta, ovvero su depositi cauzionali.

In questi interessi – si dice (14) -, pur non essendovi illecito di sorta da parte del debitore, sussiste comunque un danno, costituito dalla perdita di valore di una somma, che il creditore non ha affatto impegnato al fine di trarne profitto. Piuttosto, in tale caso il creditore è stato “costretto” ad “immobilizzare”, per causa di circostanze non volute come tali, o addirittura contrarie alla sua volontà. E pertanto, quale corollario, si ravvisa la non-imponibilià di tali interessi, al pari di quelli compensativi in senso stretto (15).

1 Simonetto, I contratti di credito, Padova, 1954, passim.

2 Arg. ex artt. 56, 81, e 109, comma 1°, T. U.I.R.

3 Supra, par. prec.

4 Supra, par. prec.

5 Simonetto, op. cit., p. 259.

6 Op. loc. ultt. citt.

7 Op. loc. ultt. citt.

8 Supra, nota prec.

9 Tra le altre Cass., 14 marzo 1959, n. 761, in Giur. civ., 1959, I, 603; Cass., 5 luglio 1990, n. 7091, in il fisco, n. 31/1990, p. 5066.

10 Capolupo, Interessi non compensativi. Difficoltà e sperequazioni, in il fisco, 1994, p. 5019. C.vo aggiunto.

11 Lupi, Diritto tributario. Parte speciale, ottava ed., Milano, 2005, p. 68 ed ivi alla nt. 35.

12 Op. loc. ultt. citt.

13 Lupi, Gli interessi non derivanti da un importo di capitale nell’imposizione diretta: dalla <<natura compensativa>> al nuovo testo unico, in Rass. trib., 1987, I, p. 91 ss. e spec. a p. 101.

14 Op. loc. ultt. citt.

15 V., supra, in questo par.

Giuliani Federico Maria

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