Gli atti simulati o fraudolenti nel delitto di illecita influenza sull’assemblea

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Nell’esaminare un ricorso proposto avverso una pronuncia del Tribunale del riesame di Santa Maria Capua Vetere la Cassazione, in una delle pochissime sentenze sull’argomento, coglie l’occasione per chiarire alcuni dei profili di maggiore problematicità del delitto di cui all’art. 2636 cod. civ., come riformato ad opera del D.lgs. 61/2002.
Il nuovo articolo recita testualmente:
chiunque, con atti simulati o fraudolenti, determina la maggioranza in assemblea, allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
 
La norma ha recepito su più fronti le perplessità che parte della dottrina e della giurisprudenza avevano avanzato in ordine ad alcuni profili del vecchio delitto, contenuto all’art. 2630 comma 1 n. 3 cod. civ., per il quale, invece, si punivano gli amministratori che avessero influito sulla formazione della maggioranza assembleare a) valendosi si azioni o quote non collocate; b) facendo esercitare sotto altro nome il diritto di voto spettante alle proprie azioni o quote; c) usando altri mezzi illeciti.
Già la prima sentenza intervenuta nella vigenza della nuova normativa aveva optato per un continuità normativa tra le due discipline.
“Nel caso in esame la nuova legge ha determinato non già la soppressione del reato bensì una rilevante modifica dello stesso. Infatti, la norma preesistente prevedeva una fattispecie più ampia rispetto a quella sopravvenuta, all’interno della quale erano contenuti anche i casi dell’attuale normativa. Vi è quindi una continuità normativa tra le due fattispecie, con la conseguenza che va applicata quella più favorevole al reo, che sicuramente è quella prevista dal nuovo decreto legislativo”. (Cass. Pen. Sez. V, 23-04-2004, n. 19102).
 
Le due norme, peraltro, si differenziano sotto numerosi profili, mentre resta inalterata l’individuazione del bene giuridico tutelato, da individuarsi, sia nella nuova che nella precedente formulazione, nella tutela della correttezza del voto assembleare.  
La sentenza in commento è chiara sul punto: “il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice è identificabile nel corretto funzionamento dell’organo assembleare, assicurato dal rispetto del principio maggioritario, attraverso cui si esprime la volontà assembleare e si attua l’interesse sociale: in sostanza, la disposizione mira a tutelare la trasparenza e la regolarità del processo formativo della volontà assembleare”.
 
Per quanto concerne invece i profili di differenziazione, anzitutto il delitto in esame da reato proprio degli amministratori si trasforma in reato comune, innovazione apprezzabile soprattutto perché rientrano in questo modo nel novero dei soggetti attivi del reato anche i soci di maggioranza, molto spesso autori di questo tipo di condotte (SANTORIELLO).
In secondo luogo viene previsto come elemento soggettivo il dolo specifico di ingiusto profitto per sé o per altri, allo scopo di selezionare maggiormente le condotte dotate di disvalore penale.
 
Il delitto in esame, poi,  viene inequivocabilmente costruito come reato d’evento, consistente appunto nella formazione di un maggioranza diversa da quella che si sarebbe venuta a formare in assenza della condotta illecita,  in tal modo il legislatore ha voluto porre fine a quegli orientamenti (sia dottrinali che giurisprudenziali) che individuavano nel vecchio art. 2630 c.c. un reato di pericolo.
 
Altro punto su cui è intervenuto il legislatore, e che ha interessato i giudici di legittimità ai fini della decisione in esame, riguarda invece la descrizione delle condotte attraverso cui si perviene alla lesione del bene giuridico.
Nell’abrogato testo dell’art. 2630 c.c., infatti, la condotta era definita secondo tre specifiche modalità, ovvero avvalendosi di azioni o quote non collocate, facendo esercitare sotto altro nome il diritto di voto spettante alle azioni o quote intestate agli amministratori ed infine utilizzando altri mezzi illeciti.
La vecchia formulazione è stata oggi sostituita dalla nuova dizione, molto più elastica, di “atti simulati o fraudolenti”; il reato rimane pertanto a forma vincolata, anche se la condotta è descritta in termini più generici.
 
Parte della dottrina ha sostenuto come i due concetti di simulazione e fraudolenza debbano essere intesi come un’endiadi, indicante ogni tipo di condotta ingannatoria idonea all’immutatio veri, cioè capace di offrire una falsa rappresentazione che altera il rapporto tra il voto espresso ed il suo risultato (GIUNTA).
 
Altra dottrina, invece, ha evidenziato come i due termini siano da intendersi in maniera quantomeno parzialmente diversa.
 
Gli atti fraudolenti rappresenterebbero genericamente atti volti all’inganno con pregiudizio altrui, mentre gli atti simulati sarebbero quelli volti a rappresentare una realtà diversa da quella effettiva, ed il punto di partenza per l’individuazione di tali condotte dovrebbe essere lì’articolo 1414 cod. civ. sulla simulazione contrattuale (MASULLO).
 
Ed è proprio su questo punto che la giurisprudenza si distacca dalla dottrina maggioritaria, ritenendo invece che la nozione di “atti simulati” ai sensi dell’art. 2636 cod. civ. prescinda dalla nozione civilistica di contratto simulato.
 
La fattispecie sottoposta al vaglio degli ermellini aveva riguardo ad un socio di una spa che, in buona sostanza, si era accordato con i proprietari di una srl per cedere loro il controllo della società.
Per far ciò aveva esercitato il diritto di opzione su un numero di azioni idoneo a fornire il controllo della società, avvalendosi di un finanziamento erogato dalla srl e obbligandosi al contempo a cedere il pacchetto azionario alla suddetta srl.
In tal modo in assemblea l’imputato era riuscito a conseguire il controllo della spa cambiando gli organi di vertice ed estromettendo i soci fondatori, controllo che era poi stato trasferito alla srl, vero soggetto interessato all’operazione.
 
Ad opinione dell’accusa, l’imputato aveva aggirato la normativa del diritto di opzione spettante ai soci, permettendo in tal modo ad estranei di acquisire il controllo della società.
Nel motivo di ricorso le difese avevano sostenuto come in realtà gli atti posti in essere dall’indagato fossero pienamente leciti a livello civilistico, posto che l’indagato aveva acquistato realmente il pacchetto azionario e non aveva svolto la funzione di mero prestanome, così come lecito era anche l’obiettivo perseguito dall’indagato e dalla srl finanziatrice, consistente appunto nell’acquisizione del controllo societario, nell’ottica di una normale dialettica societaria.
 
La corte, pur cassando la decisione del riesame per carenze argomentative integranti violazioni di legge, ha nella sostanza ribadito come anche un’operazione civilisticamente lecita possa essere posta alla base di una condotta penalmente illecita.
Secondo la Cassazione, che ha ribadito il principio di diritto già fissato da una precedente pronuncia (Cass. Pen. Sez. V, 22-11-2007, n. 43092), la locuzione “atti simulati” non va intesa in senso civilistico perché la simultanea previsione dell’alternativa “o fraudolenti” vale a caratterizzare una più ampia tipologia di comportamenti idonei a creare una falsa rappresentazione della realtà, dalla quale derivi un’alterazione della maggioranza assembleare. Per escludere la commissione del reato non basta quindi la mera costatazione che l’atto sottoposto a giudizio non integri una simulazione per interposizione fittizia bensì un’interposizione reale, così come non è decisiva la liceità del ricorso ad un pactum fiduciae considerato nella sua individualità, dovendosi invece guardare all’operazione nel suo complesso, onde verificare se con essa si sia dato corpo a un artificioso stratagemma per il conseguimento di un risultato che la legge o lo statuto societario non avrebbe altrimenti consentito.
 
In quest’ottica possono essere considerati comportamenti penalmente rilevanti:
– il comportamento del socio, che si avvalga di azioni o quote non collocate, intendendo per tali quelle non vendute, ovvero quelle per le quali il socio non abbia effettuato, nei termini prescritti, il versamento di quanto dovuto;
– il comportamento del socio che, occultando la mora nei versamenti, che gli precluderebbe il diritto di voto, tragga in inganno l’assemblea, facendosi apparire come portatore di un diritto di voto, del quale in realtà non è titolare;
– le dichiarazioni mendaci o reticenti, provenienti dagli amministratori o dai terzi, con le quali l’assemblea od i singoli soci vengano tratti in inganno sulla portata o convenienza di una delibera;
– l’incetta di deleghe fraudolentemente realizzata in violazione dei limiti posti dall’art. 2372 c.c.;
– la maliziosa convocazione di un’assemblea in tempi o luoghi tali da precludere un’effettiva partecipazione dei soci;
– i possibili abusi funzionali della presidenza dell’assemblea, a qualsiasi soggetto affidata ex art. 2371 c.c., quali l’artificiosa o fraudolenta esclusione dal voto di soggetti aventi diritto o, all’inverso, l’ammissione al voto di soggetti non legittimati;
– la falsificazione della documentazione relativa all’assemblea dei soci.
 
In tutte queste situazioni la condotta si connota di illiceità proprio per la presenza di atti simulati o fraudolenti che hanno avuto efficacia determinante per l’adozione di deliberazioni assembleari assunte in violazione di divieti legali o statutari.
 
Non è invece ipotizzabile la fattispecie di illecita influenza sull’assemblea in presenza di attività negoziali che, nell’ambito dell’autonomia riconosciuta ai privati dall’ordinamento, consentono di perseguire interessi meritevoli di tutela senza infrangere le prescrizioni poste dalla legge o dallo statuto per regolare la vita della società.
 
 
Stefano Pazienza

Pazienza Stefano

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