Gli agenti accertatori non possono accedere ai locali dell’azienda se comunicano con l’abitazione privata

Serra Leonardo 06/03/13
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Il principio di inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita si applica anche in materia tributaria, cosicché l’accesso degli agenti accertatori, senza autorizzazione da parte del Procuratore della Repubblica, nei locali adibiti ad opificio adiacenti all’abitazione privata attraverso porte di comunicazione, determina l’invalidità degli atti che ne conseguono, rendendoli inutilizzabili.

E’ questo il principio sancito dalla sentenza n. 4140 del 20 febbraio 2013 con cui la Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato inviolabili sia il domicilio privato che lo spazio di libertà del contribuente.

Nel 2000, una società a responsabilità limitata si vide rettificare dall’Agenzia delle Entrate la dichiarazione IVA sulla base di un processo verbale di contestazione redatto dalla polizia tributaria con il quale venne contestata all’impresa un’indebita detrazione d’imposta conseguente alla registrazione di fatture per operazioni ritenute inesistenti. Il contribuente propose ricorso avverso l’avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate alla Commissione tributaria provinciale che accolse i motivi di contestazione sollevati dal ricorrente con sentenza che venne poi confermata anche in grado di appello. Le ragioni del contribuente furono accolte in quanto l’accesso nei locali dell’impresa da parte degli agenti accertatori non era stato preliminarmente autorizzato dal Procuratore della Repubblica, donde sia l’accesso che gli atti consequenziali erano da ritenere invalidi e insuscettibili di produrre effetti. Sulla base delle risultanze probatorie acquisite costituite dai certificati anagrafici, dalla planimetria dell’immobile e da uno stralcio di deposizione testimoniale resa in separato procedimento penale da uno degli agenti accertatori, emerse che l’opificio era stato adibito a uso promiscuo, dal momento che il contribuente aveva costituito all’interno dell’immobile sia la sede dell’impresa sia il luogo di abitazione familiare in locali tra loro comunicanti.

Contro la sentenza della Commissione tributaria regionale, l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nonché vizio di motivazione.

L’Agenzia delle Entrate ha eccepito il fatto che dalla sentenza oggetto di impugnazione non sarebbe possibile intendere che cosa la Commissione tributaria regionale abbia inteso con il termine “uso promiscuo”. Nel caso in cui la locuzione “uso promiscuo” fosse stata intesa nel senso di mera contiguità dei locali con conseguente possibilità di accesso tra quelli adibiti ad opificio e quelli destinati ad abitazione, l’Agenzia delle Entrate contesta la conclusione in diritto cui è pervenuta la Commissione tributaria regionale, in quanto la fattispecie prevista dall’art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, si realizza, secondo la ricostruzione operata dall’Amministrazione finanziaria, quando nello stesso locale il soggetto contestualmente abiti e svolga la propria attività d’impresa. Sul punto l’Agenzia delle Entrate eccepisce pertanto che in presenza di abitazione contigua ai locali di esercizio dell’impresa, l’autorizzazione del p.m. si rende necessaria solamente per eventualmente accedere ai locali destinati ad abitazione privata. Se invece la locuzione “uso promiscuo” fosse stata riferita tanto all’uso tanto commerciale – industriale quanto abitativo dei locali, l’Agenzia delle Entrate eccepisce il fatto che la sentenza sarebbe viziata nella motivazione, in quanto il convincimento della Commissione tributaria regionale sarebbe stato insufficientemente argomentato per effetto del rinvio operato a dati planimetrici e anagrafici – evidenzianti accessi esterni dell’opificio nettamente separati da quello dell’abitazione, e a uno stralcio di deposizione in verità allusiva della esistenza di un’abitazione meramente annessa.

La Suprema Corte di Cassazione respinge in toto i motivi di gravame sollevati dall’Agenzia delle Entrate partendo dalla considerazione preliminare che, nel caso di specie, non potesse che ravvisarsi l’inferenza in ordine all’uso promiscuo dei locali complessivamente considerati.

Ciò in quanto era stato accertato nei precedenti gradi di giudizio che i locali adibiti, ad abitazione e quelli adibiti a opificio erano distinti ma adiacenti, e che tra gli uni e gli altri vi erano porte di comunicazione. Nel confermare un proprio precedente orientamento, la Suprema Corte di Cassazione ravvisa la sussistenza della destinazione a “uso promiscuo” dei locali agli effetti del disposto ex art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 non soltanto nell’ipotesi in cui i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività professionale, ma ogni qual volta l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento dei documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi (si veda anche Cass. civ. Sez. V, 28/07/2011, n. 16570). In presenza di una simile situazione di fatto, la Suprema Corte di Cassazione ritiene pertanto necessaria l’autorizzazione all’accesso da parte del procuratore della Repubblica, ai sensi dell’art. 52, comma 1, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633). Secondo i giudici di legittimità l’autorizzazione all’accesso costituisce condicio sine qua non per la legittimità dell’atto e delle conseguenti acquisizioni, dal momento che la stessa è finalizzata a tutelare l’inviolabilità del domicilio privato, e quindi, indirettamente, lo spazio di libertà del contribuente (si veda anche Cass. civ. Sez. V, Sent., 25-03-2011, n. 6903). La Suprema Corte di Cassazione conclude ribadendo il principio di inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita che si applica anche in materia tributaria, in considerazione della garanzia difensiva accordata, in generale, dall’art. 24 Cost. (si veda anche Cass. civ. Sez. V, 02-04-2007, n. 8181; Cass. civ. Sez. V, 01-10-2004, n. 19689)

 

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Cass. civ. Sez. V, Sent., 20-02-2013, n. 4140

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. *************** – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CONTI **************** – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29731/2006 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

OMISSIS;

– intimati –

sul ricorso 33333/2006 proposto da:

OMISSIS elettivamente domiciliati in OMISSIS, presso lo studio dell’avvocato OMISSIS, rappresentati e difesi dall’avvocato OMISSIS giusta delega in calce;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 77/2005 della COMM.TRIB.REG. di BARI, depositata il 02/08/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/11/2012 dal Consigliere Dott. *****************;

udito per il controricorrente l’Avvocato OMISSIS delega ****************, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso incidentale, rigetto ricorso principale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore ***************************, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, rigetto ricorso incidentale.

 

Svolgimento del processo

Con avviso di accertamento notificato il 16.2.2000 l’agenzia delle entrate di Bari, rettificò la dichiarazione Iva della OMISSIS per l’anno 1996, irrogando sanzioni nella misura di legge.

La rettifica trovò fondamento in un p.v. di constatazione della polizia tributaria, a mezzo del quale fu contestata un’indebita detrazione di imposta conseguente alla registrazione di fatture di acquisto per operazioni inesistenti.

La società propose ricorso, con esito favorevole, alla commissione tributaria provinciale di Bari. La relativa sentenza, gravata dall’agenzia delle entrale, fu confermata in appello, dalla commissione regionale delle Puglie, sulla preliminare e assorbente considerazione che l’accesso nei locali dell’impresa non era stato autorizzato dal procuratore della Repubblica. Donde sia l’accesso che gli atti consequenziali erano da ritenere invalidi e insuscettibili di produrre effetti.

Invero la commissione ritenne provato – in considerazione dei prodotti certificati anagrafici, della planimetria dell’immobile e di. uno stralcio di deposizione testimoniale resa in separato procedimento penale da uno dei militari verbalizzanti che l’opificio in questiono fosse in verità adibito a uso promiscuo, avendo costituito al contempo sede dell’impresa e (in locali comunicanti) luogo di abitazione familiare.

Avverso la sentenza d’appello, pubblicata il 2 agosto 2005 e non notificata, l’agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione sonetto da un motivo.

La società OMISSIS resisto con controricorso, nel quale a sua volta propone ricorso incidentale affidato a un motivo.

 

Motivi della decisione

1. – I ricorsi, principale e incidentale, debbono essere preliminarmente riuniti in applicazione dell’art. 335 c.p.c..

2. – Con l’unico motivo dei ricorso principale l’agenzia delle entrate denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1912, art. 52, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè vizio di motivazione.

Lamenta che la succinto. motivazione dell’impugnata sentenza non consente di intendere con esattezza cosa la commissione abbia inteso per “uso promiscuo”; in particolare se, con tale locuzione, abbia inteso riferirsi all’uso, tanto commerciale – industriale, quanto abitativo, degli stessi locali, ovvero alla semplice contiguità, e possibilità di accesso, tra i locali adibiti a opificio e i locali adibiti ad abitazione.

Sostiene che, ove intesa la statuizione in fatto in tal secondo senso, errata ne sarebbe la conclusione in diritto, dal momento che la fattispecie prevista nell’art. 52 cit. si realizza quando nello stesso locale il soggetto contestualmente abiti e svolga la propria attività d’impresa; mentre, in caso di abitazione contigua ai locali di esercizio dell’impresa, l’autorizzazione del p. m. si rende necessaria solo per eventualmente accedere ai locali destinati ad abitazione privata.

Se invece intesa nel primo senso, la sentenza – aggiunge la ricorrente – sarebbe viziata nella motivazione, dal momento che il convincimento sarebbe stato insufficientemente argomentato con rinvio a dati planimetrici e anagrafici – evidenzianti accessi esterni dell’opificio nettamente separati da quello dell’abitazione, e a uno stralcio di deposizione in verità allusiva della esistenza di un’abitazione (della famiglia OMISSIS) soltanto annessa.

3. – Il motivo è infondato; a tanto induce la corte a non esaminare l’eccezione preliminare formulata da parte controricorrente sulla rilevanza preclusiva di un supposto giudicato esterno.

4. – L’accertamento in fatto, di cui all’impugnata sentenza, evidenzia testualmente – con affermazione sui punto non contrastata dall’amministrazione finanziaria – che nella specie i locali adibiti, ad abitazione e quelli adibiti a opificio erano distinti mia adiacenti, e che tra gli uni e gli altri vi erano porte di comunicazione. Tanto legittima l’inferenza circa l’uso promiscuo dei locali complessivamente considerati, posto che questa corte ha affermato che si ha, appunto, destinazione a uso promiscuo, agli effetti del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, non soltanto nell’ipotesi in cui i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività professionale, ma ogni qual volta l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento dei documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi (v. da ultimo Cass. n. 16570/2011).

In simile eventualità è comunque necessaria l’autorizzazione all’accesso da parte del procuratore della Repubblica, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 1, (sebbene non essendo richiesta anche la presenza di gravi indizi di violazioni di norme del medesimo D.P.R. secondo quanto invece stabilito dal comma 2, della disposizione de qua allo specifico fine di reperire, in locali diversi da quel il destinati all’attività d’impresa, libri, registri, documenti e scritture).

L’autorizzazione all’accesso da parte dell’a.g., in quanto diretta a tutelare l’inviolabilità del domicilio privato, e quindi, indirettamento, io spazio di libertà del contribuente, rileva alla stregua di condicio sine qua non per la legittimità dell’atto e delle relative conseguenti acquisizioni (per riferimenti, Cass. n. 6903/2011).

Giacchè il principio di inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita si applica anche in materia tributaria, in considerazione della garanzia difensiva accordata, in generale, dall’art. 24 Cost. (v. Cass. n. 8181/2007; n. 19689/2004).

Consegue il rigetto del ricorso principale.

5. – L’unico motivo del ricorso incidentale, col quale la società, denunziando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, e art. 92 c.p.c., comma 2, nonchè omessa e insufficiente motivazione su punto decisivo, si duole dell’avvenuta compensazione delle spese processuali, è inammissibile.

Il giudice di merito ha ritenuto di., compensare le relative spese per giusti motivi. E, la fattispecie processuale è soggetta alla disciplina di cui all’art. 92 c.p.c., anteriore alla riforma ex L. n. 263 del 2005.

L’unico vincolo ivi incontrato dal giudice del merito nel regolamento delle spese processuali dovevasi ritenere rappresentato da divieto di porre le stesse – quand’anche solo parzialmente – a carico della parte rimasta integralmente vittoriosa (cfr. tra le tante Cass. n. 13057/2008).

Quindi, se pur si assuma che tinche nel vigore del citato anteriore testo dell’art. 92 c.p.c., il provvedimento di compensazione delle spese per giusti, motivi deve trovare un adeguato – ancorchè solo implicito – supporto motivazionale (sin che Cass. n. 8699/2009), può osservarsi che nessuna specifica censura si palesa in tal senso svolta nel controricorso, al fine di evidenziare in qual senso il riferimento ai giusti. motivi, ai cui alla sentenza, non sarebbe sufficiente, alla luce della complessiva motivazione alludente a un non semplice profilo di fatto governante il significato dell’espressione “uso promiscuo”, a esprimere la ratio decidendi.

L’esito dei ricorsi, determinando reciproca soccombenza, giustifica, anche in questa sede di legittimità, la compensazione delle spese processuali.

 

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta; compensa le spese processuali.

Serra Leonardo

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