Gestione del personale apicale nel rapporto di pubblico impiego speciale della difesa. Il caso visco-speciale. Nota alla sentenza n. 13361 del 15/12/2007.

Scirman Luca 17/01/08
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1.Premessa. 2. Descrizione dei fatti. 3. Critica: 1) normativa applicabile.  4. Segue critica: 2) natura giuridica dell’atto impugnato. 5. Inquadramento della fattispecie. 6. Il danno da atto illegittimo. 7. Il danno non patrimoniale segue: il danno morale subiettivo. 8. Il danno non patrimoniale segue: il danno esistenziale. 9. Incarico o movimentazione illegittimi, elemento psicologico e onere della prova.
 
 
1. PREMESSA
 
I tempi erano maturi. La non recente querelle tra il Comandante della Guardia di Finanza e il Governo attualmente in carica ha dato i suoi frutti non solo sul piano delle conseguenze politiche, ma anche sul piano delle conseguenze giuridiche.
Essa è nota come il cosiddetto caso Visco-Speciale. In questa sede si vuol analizzare il fenomeno giuridico dello spostamento di un alto grado dei vertici militari. Fenomeno che ha il pregio di segnalare luci ed ombre sulla modalità di gestione del personale pubblico in un importante e non meno ampio settore del pubblico impiego che dottrina e giurisprudenza non hanno mai scandagliato con la cura e con l’attenzione riservata al pubblico impiego privatizzato.
 
2. DESCRIZIONE DEI FATTI.
 
Il Generale Roberto Speciale – già ufficiale in servizio permanente effettivo dell’Arma dell’Esercito – veniva nominato – sotto il precedente Governo – mediante DPR 16 ottobre 2003, previa delibera del Consiglio dei Ministri del 31 luglio 2003, debitamente registrato dalla Corte dei Conti, quale Comandante Generale della Guardia di Finanza, ai sensi dell’art. 4 della legge 23 aprile 1959, n. 189, recante “ordinamento del Corpo della guardia di finanza”.
Nominato l’attuale governo, in occasione della XV legislatura, l’incarico sopra attribuito non veniva revocato espressamente. A seguito di “taluni screzi” tra il generale ed il viceministro dell’economia e delle Finanze, che aveva ricevuto in delega dal Ministro pro tempore la gestione della Guardia di Finanza, il Ministro dell’economia e delle finanze mentre con decreto in data 1° giugno 2007 (pubblicato nella G.U. n. 142 del 21 giugno 2007), avocava a sé i poteri dapprima delegati in materia di GDF. Con DPR 1° giugno 2007, il Comandante Generale veniva sostituito nelle sue funzioni da altro Ufficiale.
Il generale Speciale impugnava, in una con il citato provvedimento, la deliberazione del Consiglio dei ministri adottata nella seduta del 1° giugno 2007, la proposta formulata dal Ministro dell’economia di concerto con il Ministro della difesa (di contenuto ignoto, richiamata nel DPR impugnato), la nota prot. n. 13297 del 2 giugno 2007, (con cui il Capo di gabinetto del Ministro dell’economia ha trasmesso detto DPR), la relazione di cui alla nota del viceministro dell’economia prot. n. 5474 del 31 maggio 2007 (di contenuto ignoto, richiamata nel decreto 1° giugno 2007), nonché ogni altro atto presupposto, connesso o consequenziale, in particolare il documento politico presentato dal Ministro dell’economia e delle finanze nell’allocuzione in Parlamento del 6 giugno 2007, dinanzi al quale dichiarava le ragioni che sottintendevano l’avvenuta sostituzione.
 
3. CRITICA: 1) NORMATIVA APPLICABILE
 
Pregiudiziale è stabilire quale sia la normativa applicabile. La sentenza di I grado mescola in un modo non molto chiaro le disposizioni di cui all’art. dall’art. 19, comma 8 del D.lg.vo 30 marzo 2001 n. 165 (TU sul Pubblico Impiego) con l’affermazione che l’atto impugnato è un atto di nomina che contiene, implicitamente, la revoca della nomina del precedente Comandante. Sembra infatti che il giudice ritenga applicabile il suddetto disposto anche al personale militare di qualifica dirigenziale, benché all’atto pratico rigetti l’eccezione di parte resistente di cessazione automatica dell’incarico sulla base di differenti considerazioni.
Il giudice di prime cure parte dal duplice presupposto che la questione non riguarda l’interessato nella sua qualità di Ufficiale Generale delle FF.AA. e che non ricorra pertanto una vicenda estintiva del servizio permanente effettivo, soggetta alle regole ex artt. 40, 44, 73 e 74 della l. 10 aprile 1954 n. 113, relativa allo status del personale ufficiale militare.
L’impugnato decreto solleva il ricorrente non dal servizio in sé, bensì dal solo incarico di vertice della Guardia di Finanza (GdF), conferito non in virtù di ordinaria progressione di carriera, ma per specifica nomina ad hoc. Dunque saremmo in presenza di un incarico dirigenziale, da sottoporre non alla disciplina concernente il trasferimento o la nomina di militari, bensì alla combinata disciplina di cui agli art. 4 della legge n. 189/1959 e alla legge n. 241/90, con riguardo alle norme del procedimento di secondo grado rappresentato dalla revoca.
Tale soluzione, tuttavia, lascia perplessi.
La dottrina più attenta ha già evidenziato uno scollamento tra la normativa prevista dal TU e la regolamentazione del pubblico impiego non privatizzato[1] e lo ha fatto sulla scorta di un parere del Consiglio di stato, che ha negato – in particolare – l’applicabilità dell’art. 19 suddetto al personale dirigenziale non privatizzato. Tale articolo, infatti, rinvia alla disciplina di settore, che, rispetto all’ordinamento militare, va individuata nell’art. 15 del DPR n. 748 del 30 giugno 1978 e nella normativa specifica di natura integrativa o sostitutiva, costituita dai dlvi n. 195/95, 297/00, n. 334/00 nonché dalla legge n. 25/97 e dal DM del 26/1/98.
Correttamente il giudice non ha inquadrato la fattispecie nell’ambito di una vicenda estintiva del rapporto di pubblico impiego. Non altrettanto correttamente, però, ha fatto applicazione della normativa pertinente.
All’atto dell’allontanamento dall’incarico, il Generale Speciale era in servizio permanente effettivo e, come tale, non era equiparabile ad un dirigente apicale privatizzato, bensì era un soggetto rivestente lo status di militare. Ciò implica l’attivazione della tecnica di rinvio alla disciplina di settore contenuta nella normativa di cui al TU sul pubblico impiego[2] e che, alla luce di un indirizzo dottrinale e giurisprudenziale consolidato, va fondata sul cd. principio di specialità[3]. Ulteriore elemento specializzante (oltre, cioè, al requisito peraltro assorbente della qualifica di militare), che legittima l’applicazione del principio di specialità, è costituito dal fatto che lo strumento utilizzato per gestire lo spostamento del militare non si è tradotto nella sequela atto amministrativo+contratto, come avrebbe dovuto verificarsi se di incarico dirigenziale si fosse trattato, bensì il solo strumento autoritativo costituito dal previo provvedimento amministrativo di nomina. D’altro canto come si argomenta dalla legge di principio sulla disciplina militare, legge 11 luglio 1978 n. 382, la normativa afferente alla gerarchia militare è estesa fino a tutto il periodo di servizio permanente effettivo ed trova applicazione alle ampie e sbarranti condizioni ivi previste (e ciò impinge un’ulteriore conseguenza di cui si dirà in prosieguo).
Se l’incarico attribuito fosse un incarico di tipo negoziale, il giudice di prime cure avrebbe dovuto più correttamente declinare la propria giurisdizione in favore di quella ordinaria in applicazione dell’art. 63 del TU sul Pubblico Impiego. Probabilmente ciò che porta a confondere le acque è che l’incarico attribuito esula dal normale iter di carriera di un generale dell’esercito.
Sicché, in via di prima approssimazione, può dirsi che il dipendente militare avrebbe potuto essere rimosso o attraverso una procedura di autotutela, in quanto ne ricorressero i presupposti previsti e disciplinati dalla legge 241/90 e smi, a cui avrebbe fatto seguito un ulteriore atto di nomina ovvero mediante un atto di trasferimento disciplinato dalla normativa specifica dell’ordinamento militare ovvero ancora mediante altri possibili rimedi, ventilati en passant dalla medesima sentenza, di cui è per ragioni di completezza che se ne fa cenno viste le accuse lanciate dal Governo in seduta pubblica al generale Speciale (ad es. una sospensione cautelare a seguito di denuncia per atti di abuso d’ufficio, una sanzione disciplinare espulsiva di stato, ecc.). 
Ma l’argomento merita una discussione a sé.
 
4. SEGUE CRITICA: 2) NATURA GIURIDICA DELL’ATTO IMPUGNATO
 
La sentenza in commento configura l’atto impugnato quale provvedimento di nomina e, in applicazione della cd. tesi dell’atto (valido) implicito, quale provvedimento di revoca (chiamato talora impropriamente rimozione o sostituzione) del precedente incarico. Di conseguenza, essa fa applicazione della relativa disciplina contenuta nella legge 241/90 e s.m.i..
Se si accoglie l’impostazione prefigurata nel precedente paragrafo, tuttavia, il giudice di prime cure avrebbe dovuto ragionare diversamente, distinguendo almeno due differenti ipotesi applicative.
In primo luogo, potrebbero configurarsi un atto di nomina del nuovo Comandante ai sensi dell’art. 4 della legge n. 189/1959 ed un atto di trasferimento d’autorità[4] costituito dalla comunicazione della atto impugnato fatta al Generale Speciale. Seguendo l’impostazione dottrinale e giurisprudenziale prevalenti, saremmo dinanzi a due atti di natura iussiva, uno volto all’attribuzione di un incarico ed uno volto alla movimentazione di un dipendente militare. Tra l’altro il principio di nominatività non consente di evitare di attribuire una qualifica all’oggetto della revoca. Sarebbe generico infatti affermare che l’atto revocato costituisce un incarico: ciò equivarrebbe a renderne atipici i connotati, in violazione del detto principio.
La sopra illustrata impostazione si fonda sulla assorbente considerazione che rapporto di pubblico impiego e rapporto di servizio, benché distinti, tuttavia sono temporalmente e spazialmente coincidenti, in guisa che il rapporto di gerarchia (rapporto di servizio) si pone a rafforzamento e ad integrazione del rapporto di pubblico impiego e, in determinati casi, lo sostituisce.
Da ciò deriverebbe, sempre secondo l’orientamento ritenuto prevalente, una dequotazione dell’onere motivazionale e la considerazione che non è necessario applicare le regole partecipative proprie del procedimento amministrativo di trasferimento, tantomeno quelle relative all’avviso di avvio del procedimento[5]. A chiosa particolare di tale soluzione si osservi che la sentenza di prime cure suggerisce anche la possibile opzione che il Governo avrebbe potuto adottare se l’atto di trasferimento fosse stato configurato quale movimentazione per incompatibilità ambientale, rispetto al quale, tuttavia, la giurisprudenza ha da sempre richiesto una motivazione particolarmente pregnante, oltreché l’espressa menzione della incompatibilità.
In accordo a tale ipotesi, pertanto, l’atto di incarico sarebbe l’atto nominativamente adottato e l’atto implicito sarebbe costituito dalla decisione iussiva di trasferire di cui comunque è stata fatta comunicazione al Generale Speciale. Ciò soddisferebbe anche il requisito della forma scritta del trasferimento, quantunque, applicando a rigore la normativa sugli ordini gerarchici, questi ultimi siano atti a forma libera e unisussistenti (qui uno actu perficiuntur).
La conseguenza sul piano processuale sarebbe una maggiore resistenza dell’atto implicito alle accuse di illegittimità per carenza di motivazione, potendosi – al più – profilare una motivazione per relationem. Inoltre, per chi, come la giurisprudenza prevalente, considera l’atto di trasferimento atto unico sebbene di contenuto complesso (ossia avente ad oggetto una complessa obbligazione di facere), in esso sarebbe possibile rinvenire l’ulteriore iussum concernente l’attribuzione del diverso incarico, in quanto il trasferimento in un dato luogo di servizio implica l’assunzione di quel tipo di servizio nel quale il dipendente è trasferito.
Infine bisogna ulteriormente specificare che la movimentazione del Generale sarebbe avvenuta nell’ambito della medesima sede di servizio (Roma). Pertanto, come attesta la giurisprudenza prevalente[6], saremmo con più esattezza di fronte non ad un atto di trasferimento vero e proprio, bensì ad un minus, costituito da una mera movimentazione interna, che ha scopo organizzativo e che non richiede, a maggior ragione, né alcuna motivazione né alcuna procedimentalizzazione né in particolare alcun avviso di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge 241/90[7].
La seconda ipotesi ricostruttiva è quella per cui potremmo essere in presenza di due atti diversi, uno di attribuzione iussiva dell’incarico, ed uno di autotutela di natura implicita. L’atto di revoca sarebbe un provvedimento di secondo grado dotato di imperatività ma non di natura iussiva. Resta però aperto il problema accessorio di individuare quale sia l’atto revocato, ossia quale ne è l’oggetto. Una revoca priva di oggetto, infatti, non potrebbe che essere illegittima, se non nulla o inesistente.
Deflettendo da questa ipotesi, potrebbe anche ipotizzarsi un’ulteriore soluzione in cui la ‘revoca’ non sarebbe altro, in realtà, che un ordine gerarchico di contento contrario a quello precedentemente emanato (ossia un cd. contrordine) che, come tutti gli ordini gerarchici, non richiede né motivazione né procedimento amministrativo e si veste della forma che vuole. Tale tesi non può che far inorridire l’interprete odierno, tutto carico di principi costituzionali e comunitari di ben altro tenore, nonché forte della novella disciplina legislativa della legge 241/90 in materia di provvedimenti di ritiro. Eppure non ci sarebbe da stupirsi: una tesi simile non avrebbe incontrato molti oppositori almeno fino ai primi anni del 1990.
 
5. INQUADRAMENTO DELLA FATTISPECIE
 
A giudizio di chi scrive, il caso controverso è, per l’interprete, uno squarcio d’azzurro nel nebuloso ed incongruente  sistema di gestione delle movimentazioni e delle attribuzioni di incarico al personale non privatizzato del Settore Difesa, sistema che – ad ogni livello – si svolge secondo moduli tendenzialmente fumosi, comportando una pericolosa commistione tra rapporto di pubblico impiego e rapporto di servizio.[8]
Se si accoglie l’impostazione generale per cui il trasferimento d’ufficio (anche nella versione ridotta di mera movimentazione), in ambito Difesa e Sicurezza, appartiene al novero degli ordini gerarchici e che più esattamente sono atti ad efficacia istantanea come tali non inseribili in un procedimento né motivabili, allora poteva invocarsi tale impostazione per negare tutela in coerenza interpretativa dell’orientamento giurisprudenziale prevalente.
Se invece si accoglie la tesi che siamo dinanzi ad un mero ordine di movimentazione a scopo organizzatorio, defraudato dei caratteri iussivi e costituente un atto autoritativo discrezionale dinanzi al quale si agitano solo interessi legittimi oppositivi, anche in tale ipotesi si sarebbe potuto negare tutela, compresa quella risarcitoria.
In tali evenienze il rapporto di gerarchia assume un ruolo preminente, gettando ombra sul rapporto di pubblico impiego.
Se infine si ritiene che i due atti, assumendo la forma di atto gestionale autoritativo e discrezionale e di contrarius actus, sono espressione del rapporto di pubblico impiego, e non del rapporto di gerarchia che coesiste con quello di pubblico impiego, essi potrebbero essere sottoposti alle regole partecipative e motivazionali, con tutti i limiti ed i vantaggi previsti dalla legge di riferimento.
Solo applicando tale ultima tesi, il ricorso poteva in effetti essere accolto, appunto per la ragione che la PA non ha adempiuto ai suoi obblighi, motivando razionalmente e nel rispetto delle regole procedimentali.
Ed è proprio seguendo tale tesi che il giudice di prime cure, discostandosi dall’orientamento prevalente, non condivide l’affermazione generale, secondo cui nessun apporto collaborativo potrebbe fornire l’interessato al supposto procedimento (ammesso peraltro che questa sia l’unica funzione dell’avviso di cui all’art. 7 della legge n. 241/90 e smi) stante lo scopo organizzatorio dell’atto. A parte il fatto che sembra una petizione di principio, un segmento della giurisprudenza più recente non solo riserva specificamente l’applicazione del cit. articolo 7 ai soli procedimenti d’ufficio[9], come quelli di cui si discute, ma ritiene altresì che una delle sedi elettive di applicazione di detto articolo è proprio la materia del trasferimento d’ufficio, anche per il pubblico impiegato privatizzato[10].
A giudizio di chi scrive, ciò che ha indotto il giudice di prime cure a negare l’esistenza di un trasferimento d’autorità nella stessa sede di servizio è stata la manifesta assenza di uno scopo organizzatorio, la quale è stata giustamente desunta dalle circostanze di fatto in cui l’atto è stato adottato. Lo scopo organizzatorio[11], da intendersi come causa dell’atto, è ritenuto solitamente insito nell’atto di movimentazione e ciò consente ad esso di superare tutte le censure di illegittimità derivanti dalla mancanza di motivazione e di regole partecipative procedimentali.
Pertanto, l’unico modo per salvare il ragionamento del giudice di primo grado evitando la riforma della sentenza è quello di mantenere il sindacato nel solco della effettiva valutazione della volontà della P.A., che, rilevabile dalle circostanze di fatto come detto, prevale su diverse considerazioni desumibili dalla ordinaria impostazione secondo cui la causa dell’atto di movimentazione è di indole organizzativa.
Il giudice di prime cure considera i due atti di nomina e di revoca, come atti, rispettivamente, di affidamento di un incarico e di implicita revoca dell’incarico precedente, al di fuori di ogni rapporto di gerarchia. Come affermato, tale impostazione lascia qualche perplessità sul suo fondamento, perché il rapporto di gerarchia, che si esprime principalmente attraverso atti iussivi, prevale in virtù del principio di specialità, trasformando[12] ordinariamente l’atto di incarico attribuito in un ordine gerarchico.
E’ questa la tesi dottrinale più diffusa che ritiene che tale “trasformazione” si verifichi automaticamente a seguito della manifestazione di volontà da parte dell’organo della PA competente ad emanare l’atto. E’ chiaro che, accogliendo l’originale interpretazione della sentenza in commento, potrebbe invocarsi l’applicabilità della disciplina amministrativa di un atto di incarico per qualunque atto di movimentazione che, in ultima analisi, tenda ad attribuire una data funzione. Cadrebbe pertanto l’impostazione giurisprudenziale prevalente che consente all’atto di movimentazione di arretrare da ogni obbligo di movimentazione e di applicabilità delle regole partecipative. Se tale atto di movimentazione non fosse altro che un atto di attribuzione di un incarico, allora la PA dovrebbe applicare le regole procedimentali comuni o comunque la disciplina dell’attribuzione di un incarico e le ipotesi di trasferimento “puro”, diciamo così, sarebbero drasticamente ridotte.
In definitiva, il giudice di prime cure ha preferito inquadrare la fattispecie in relazione al rapporto di pubblico impiego senza tener conto del rapporto di servizio.
Rispetto al primo è giocoforza parlare di “funzione”, con la conseguenza che, nell’ambito dell’amministrazione della Difesa e della Sicurezza,  gli atti espressivi seguono ordinariamente le regole partecipative e motivazionali comuni e comunque le regole fissate dalla legge o in base alla legge di riferimento o di settore, come stabilisce l’art. 2, comma 4 della legge n. 216 del 6 marzo 1992[13] in ossequio al principio di legalità. A tal riguardo la disciplina sul potere di impiego dei militari è contenuta, in particolare, nella legge n. 25 del 18 febbraio 1997 (cd. legge sui vertici) e nel conseguente regolamento di attuazione. Sono questi gli ambiti propri dei livelli di disciplina del personale dipendente sottoposti non ad una vera e propria attività di contrattazione collettiva con le organizzazioni sindacali di categoria ma ad un’attività di minore intensità definita di “concertazione”. Qui possiamo registrare la possibilità di adozione tanto di atti di macro-organizzazione quanto di micro-organizzazione. Ne consegue anche un profilo di tutela giurisdizionale orientato sia verso il giudice amministrativo che verso quello ordinario (quest’ultimo comunque competente per gli aspetti legati alle retribuzioni e, in generale, all’esistenza di obbligazioni prettamente patrimoniali)
Rispetto al secondo occorre parlare di “gerarchia”, con la conseguenza che gli atti che sono di essa espressione rientrano per lo più nel novero degli ordini gerarchici individuali o interorganici e, in quanto atti unisussistenti, si perfezionano ed acquistano efficacia al di fuori delle regole motivazionali e partecipative. Essi soggiacciono, per lo più, alle regole loro proprio contenute nella citata legge n. 382/1978 e s.m.i. e nel DPR 545 del 18 luglio 1986 e s.m.i. (regolamento di Disciplina Militare). In genere si tratta di rapporti giuridici che sfuggono non solo alla contrattazione ma altresì alla concertazione collettiva[14], trattandosi di materie che il legislatore, nel quadro della propria competenza legislativa esclusiva ai sensi dell’art. 117 Cost., subordina in parte al principio della riserva assoluta di legge ed in parte a quella relativa. Qui c’è una netta prevalenza di atti di micro-organizzazione, che sono costituiti da ordini gerarchici, mentre gli atti di macro-organizzazione tendono principalmente a configurarsi come discendenti dall’esercizio di un potere di direttiva e, in ipotesi più rare, di coordinamento. Qui, infine, è più frequente l’esercizio dei poteri tipici del rapporto gerarchico (avocazione, sostituzione, ecc.), che si pongono nel solco del cd. principio di confusione delle competenze. Il profilo giurisdizionale è qui prettamente dominato dalla figura del giudice amministrativo, quantunque sia possibile rinvenire, accanto al predominante agitarsi di interessi legittimi, anche situazioni giuridiche di diritti soggettivi perfetti. Il profilo giustiziale, infine, costituito cioè dalla tendenziale ricorribilità in via gerarchica, trova qui maggiore applicazione e consente la tutela sia sotto il riguardo della mera legittimità che sotto il riguardo del merito amministrativo.
 
6. IL DANNO[15] DA ATTO  ILLEGITTIMO
 
La fattispecie è interessante anche sotto l’ulteriore profilo del risarcimento dell’eventuale danno.
Al ricorrente è riconosciuto solamente il diritto a percepire “le differenze retributive tra il trattamento economico onnicomprensivo goduto per la carica dalla quale è stato illegittimamente rimosso e quanto successivamente ricevuto ad altro titolo”. Detto altrimenti, è riconosciuto soltanto il risarcimento delle perdite effettivamente subite, configuranti il cd. danno emergente. Sicché se per avventura il “quanto ricevuto successivamente” fosse di misura inferiore al trattamento economico goduto, nulla spetterebbe a parte istante.
Nessun risarcimento per equivalente è invece riconosciuto al pur accertato danno per lesione all’immagine, sulla considerazione che la sua riparazione si verifica integralmente (anzi, si verificherà) con la pubblicazione della stessa sentenza di primo grado. La domanda risarcitoria, pertanto, è assorbita dalla risonanza della sentenza, che, annullando l’atto, comporta un ordinario effetto ripristinatorio. In tal senso, sembra che la sentenza aderisca alla tesi che ammette la convertibilità della domanda di risarcimento per equivalente in domanda per il risarcimento in forma specifica, nel senso che l’una contiene l’altra anche in assenza di specifica domanda di parte.
Facendo applicazione delle ipotesi ricostruttive sopra profilate, potrebbe distinguersi nel seguente modo.
Considerando l’atto annullato un provvedimento contenente due atti, uno esplicito di affidamento di incarico ed uno implicito di revoca di un precedente incarico, il giudice ha affermato un principio di responsabilità della PA non solo verso parte ricorrente, ma anche nei riguardi del generale nominato in sostituzione del precedente, che, a giudizio di chi scrive, avrebbe a sua volta titolo per ottenere un risarcimento del danno nei riguardi della PA dinanzi al giudice ordinario.
Sembra, dagli atti, che non sia stata proposta istanza cautelare e, pertanto, non sono applicati i termini più brevi previsti dall’art. 23bis, 1° comma, lett. f) della legge n. 1034/1971. Tra l’altro solo considerando l’atto impugnato come atto di nomina avrebbe potuto applicarsi la detta disciplina.
Inoltre non si capisce bene come conciliare tale situazione con quella secondo cui, a detta dello stesso giudice, “il ricorrente non aveva l’onere di impugnare la nomina del controinteressato. In verità, solo impugnando l’unico atto esplicito di nomina il ricorrente poteva far valere le sue ragioni, almeno nel quadro della prevalente tesi ella cd. pregiudiziale amministrativa, che ai fini del risarcimento, nell’ambito della responsabilità per atti illegittimi, postula il previo annullamento della fonte dell’illegittimità.
In tale originale caso siamo in presenza di due interessi contrapposti giuridicamente rilevanti in capo a tre soggetti diversi: da un lato, in linea convergente, l’interesse della PA e del nuovo nominato volto alla conservazione dell’atto, dall’altro, su un piano di confliggenza, l’interesse del generale Speciale. L’atto che, una volta annullato, consente di richiedere il risarcimento del danno non è l’atto di nomina espresso, bensì la revoca illegittima del precedente incarico. Quindi, la cd. pregiudiziale amministrativa è salva solo ammettendo che l’annullamento su cui essa si fonda non riguarda l’atto esplicito, bensì l’atto implicito. Seguendo l’impostazione della sentenza in commento, invece, se la procedura di revoca si fosse riconosciuta legittima, nessun risarcimento sarebbe spettato a parte ricorrente.
In tale ipotesi, inoltre, la responsabilità della PA dovrebbe, a rigore, configurarsi come contrattuale con la conseguenza che sul piano probatorio sarebbe stato sufficiente allegare la lesione subita ed il fatto dell’inadempimento. La mancanza di un contratto applicativo tuttavia potrebbe profilare ipotesi di responsabilità da contatto qualificato ovvero di tipo precontrattuale. In tali ultime due evenienze, la dimensione risarcitoria sarebbe orientata, nel primo caso, secondo i canoni contrattualistici e, nel secondo caso, secondo i canoni di cui all’art. 2043CC, giusta quanto suggerisce la tesi ritenuta prevalente.
Se poi fossimo in presenza di un atto tipico discrezionale (trasferimento d’ufficio in senso tecnico) o di un mero atto non tipico di movimentazione, di natura autoritativa e discrezionale, la differenza, ai fini della sua dannosità, non rileverebbe. Rileverebbe piuttosto che ne sia riconosciuta l’illegittimità nel quadro della prevalente tesi che postula l’ammissibilità della cd. pregiudiziale amministrativa. In tal caso, l’interessato difficilmente avrebbe potuto pretendere un danno di natura patrimoniale, perché arduo è concepire una perdita economica di una certa rilevanza per una movimentazione avvenuta nell’ambito della stessa città.
Inoltre, in tal caso, la configurabilità della responsabilità come contrattuale sarebbe meno accreditata in favore di quella extracontrattuale, mancando alla base un rapporto giuridico di tipo negoziale.
Il giuoco si incentrerebbe sulla astratta riconoscibilità del danno non patrimoniale, ed in particolare del danno biologico[16], del danno morale e del cd. danno esistenziale, che, a quanto risulta, non sono stati lamentati da parte ricorrente.
La lesione del bene ‘salute’ può ricomprendere varie sfaccettature, discendenti da uno stato patologico fisico da accertarsi con perizia medica. Il danno biologico trova infatti il suo fondamento nel diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., che viene solitamente classificato dalle Corti giudiziarie ed in dottrina come bene costituzionale primario, mentre a livello di legislazione ordinaria la sua fonte normativa è costituita dall’art. 2059 CC anziché in quella generale costituita dall’art. 2043 CC.
Così impostato il problema, nulla vieta che sia l’illegittima movimentazione sia l’incarico illegittimamente revocato (ossia un illecito di tipo commissivo) possano comportare una lesione del bene salute (ad es. determinando forme di depressione che involgono una riduzione della capacità lavorativa generica, ossia dell’attitudine dell’uomo al lavoro in generale, ovvero una riduzione dell’efficienza psicofisica, ossia una ridotta possibilità di utilizzare il proprio corpo a seguito dell’emersione di una sindrome patologica). Era altresì possibile allegare una consulenza tecnica di parte ovvero sollecitare quella d’ufficio onde accertare che tipo di patologia può essere derivata e l’entità delle conseguenze dannose (aggravamento condizioni esistenti, nuove patologie, ecc.).
Il problema maggiore comunque è dato dalla tematica relativa all’onere della prova della sussistenza del danno, soprattutto con riguardo all’accertamento del rapporto di causalità. A tal fine, saranno utili le certificazioni mediche, che, mediante il meccanismo delle presunzioni, potrebbero indurre il giudice a riconoscere il nesso eziologico e quindi a risarcire il danno. C’è da dire tuttavia che la giurisprudenza tende a considerare che l’accertamento della lesione del bene salute costituisca un indiretto riconoscimento del danno, perché ogni lesione della salute è di per sé già dannosa.
Una volta accertata la sussistenza del danno biologico, la sua liquidazione[17], ossia la determinazione della misura del risarcimento, può essere effettuata con ricorso al metodo equitativo (artt. 1226 e 2056 CC), tenendo conto delle circostanze del caso concreto e specificamente, quali elementi di riferimento della gravità delle lesioni, degli eventuali postumi permanenti, dell’età, dell’attività espletata, delle condizioni sociali e familiari del danneggiato.
In merito al differente caso del trasferimento in senso tecnico da una sede ad un’altra, in due città diverse, con riguardo però all’ambito del Settore sicurezza, è da citare, tuttavia, l’orientamento del Consiglio di Stato[18]: solo la movimentazione (del dirigente di polizia di Stato) che venga riconosciuta ingiusta e discriminatoria costituisce inadempimento contrattuale e causa il ristoro del danno professionale, sia nella forma danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nella forma della perdita di ‘chance’ ossia di ulteriori possibilità di guadagno sia in una lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione.
Secondo tale impostazione cd. contrattualistica, il danno biologico può costituire una lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica (art. 2087 del c.c.) o, più in generale, alla salute (art. 32 della Costituzione), “quando la violazione degli obblighi ricadenti sul datore di lavoro abbia determinato nel lavoratore non soltanto un dispiacere, una afflizione dello spirito rientrante tra i danni morali, ma una vera e propria patologia psichica, come uno stato ansioso o una sindrome da esaurimento”. Ovviamente, dovrà poi verificarsi in concreto l’esistenza del nesso di causalità tra l’illegittimo trasferimento e le patologie lamentate.
 
7. IL DANNO MORALE SUBIETTIVO
 
Si differenzia dal danno prettamente fisico, eventualmente risarcibile per danno biologico, poiché la lesione fisica lascia sempre una traccia tangibile, mentre la lesione psichica può cagionare manifestazioni di carattere nervoso e psichico che non sempre si ripercuotono sul corpo del soggetto.
Occorrerà quindi una analisi di differente tipologia sul soggetto affetto da patologia di carattere psichico al fine di accertare se e in quale misura tali manifestazioni di comportamento costituiscano menomazione nel senso tecnico-giuridico del termine, ossia nella sua accezione medico legale, per poi risalire dalla menomazione alla lesione psichica ed al fatto illecito. Si prenderà in considerazione la ripercussione che tale danno sta avendo sulla vita del soggetto che si proclama leso. La menomazione psichica si traduce nella riduzione, temporanea o permanente, di una o più funzioni psichiche della persona, la quale, incidendo sul valore uomo globalmente inteso, impedisce alla vittima di attendere in tutto o in parte alle sue ordinarie occupazioni di vita.
Arduo è individuare il nesso causale tra danno psichico e fatto lesivo.
La giurisprudenza civile si è occupata sporadicamente di questioni inerenti il danno psichico
[19]. Nel caso del pubblico impiego non contrattualizzato – ma ciò non è pacifico –  non sembrano in verità nemmeno configurabili quelle ipotesi di danno non patrimoniale, che invece trovano applicazionein altre sedi (cfr. ad es. il richiamo alla tutela della “personalità morale” del lavoratore nell’impresa: art. 2087CC). In verità la giurisprudenza civilistica ha cominciato ad intravedere ipotesi di danno non patrimoniale anche in caso di responsabilità contrattuale non derivante da reato, soprattutto con riferimento alle lesioni del bene della salute[20].
Il danno morale sta con fatica fuoriuscendo da una tralaticia relegazione nell’alveo delle conseguenze del fatto illecito penale ai sensi dell’art. 185 cp.
Sotto tale profilo, va considerata l’ipotesi in cui l’atto di movimentazione o di revoca dell’incarico siano ad un tempo illeciti ed illegittimi. Sembra tuttavia che un forte argomento in favore della illiceità dell’atto e della conseguente risarcibilità di tale voce di danno, sia decaduto, poiché notizie ufficiali attestano che il parallelo accertamento penale attivato dal ricorrente si è concluso con una archiviazione del fatto di presunto reato.
Anche in tal caso, però, il danno non discende dalla violazione di un interesse legittimo, ma da un’offesa a beni o a valori penalmente tutelati, i quali solitamente si atteggiano a diritti soggettivi (come il decoro o l’onore).
Ai fini del riconoscimento del danno morale, si potrebbe allora separare l’ipotesi di un atto di movimentazione o di revoca illeciti (configuranti, ad esempio, un abuso in atti d’ufficio) da quella in cui l’atto valutativo non sia penalmente rilevante ma, comunque, illegittimo. Attualmente si registrano aperture verso il riconoscimento della possibilità per l’interessato, nell’ambito della violazione dei diritti soggettivi, di agire in responsabilità per danno morale, indipendentemente dal fatto che la violazione integri un fatto di reato e che vi sia una espressa volontà di legge che legittimi la reintegrazione. Tale possibilità, peraltro, è da taluni estesa non solo alle ipotesi di danni extracontrattuali, ma altresì ai casi di responsabilità ex contractu, con la conseguenza che il risarcimento del danno morale potrebbe riconoscersi sia nell’una che nell’altra ipotesi suddette.
Partendo poi dalla tesi dottrinaria che sembra trovare maggior credito, secondo cui il diritto soggettivo e l’interesse legittimo si differenziano solo per aspetti quantitativi e di tipologia di tutele apprestate, potrebbe ritenersi che sia configurabile un danno morale sia in relazione alla violazione di un diritto soggettivo che di un interesse legittimo. Tale impostazione sembra coerente anche con una lettura comunitariamente orientata, ai sensi dell’art. 117 comma 1 della Cost., considerando che la Corte di Giustizia ammette forme di risarcimento delle lesioni alle situazioni giuridiche soggettive tutelate, a prescindere dalla forma di diritto soggettivo o di interesse legittimo eventualmente rivestita. Si potrebbe fare uso, sul piano probatorio, anche di presunzioni.
 
8. IL DANNO NON PATRIMONIALE SEGUE: IL DANNO ESISTENZIALE
 
Il danno esistenziale consiste in una lesione diversa sia dal danno morale che dal danno biologico[21]. Più esattamente la giurisprudenza civilistica tende a considerarlo un ampia categoria ricompresa nell’ambito del danno non patrimoniale e costituita da numerose ipotesi di danno aredittuale. Ciò che lo caratterizza, infatti, è il suo riferimento ad interessi della persona privi di un valore economico di scambio, quali l’interesse alla vita sociale e di relazione, l’interesse al mantenimento del nucleo familiare e del rapporto parentale, inteso come reciproco sostegno ed appoggio morale ed affettivo, l’interesse allo svolgimento di attività ricreative, sportive, culturali, artistiche, l’interesse ad esplicarsi e a realizzarsi nel mondo del lavoro, l’interesse ad un processo rapido e giusto, ecc.
Se fino a qualche anno fa sembrava impossibile condannare la PA al risarcimento del danno esistenziale da attività amministrativa illegittima, oggi non lo è più, soprattutto alla luce della nota sentenza della Corte Cost. n. 204/04, secondo cui la tutela del singolo non sarebbe piena ed effettiva – come impone l’art. 24 Cost. – se il GA non fosse munito di adeguati poteri per risarcire il danno.
Dato per assunta ed acquisita la figura di danno esistenziale anche nel panorama della giurisprudenza amministrativa e civile, il problema è capire se esso è configurabile (e sotto quale specifica forma) nel caso qui dibattuto.
Una dottrina specifica[22] ha ammesso tale tipo di danno, con particolare riguardo all’ipotesi della illegittima chiamata alle armi, derivante da erronee e prodromiche valutazioni tecnico-discrezionali di tipo medico relative alla formazione del procedimento di arruolamento di leva, in quanto violativa del cd. diritto al tempo di vita dell’arruolando. Tale situazione giuridica è tutelata – continua la detta dottrina – “a livello generale” dagli artt. 2 e 3 Cost e sarebbe, oltre che prodromica, indipendente da ulteriori, eventuali lesioni ad interessi patrimoniali biologici dell’arruolato: la lesione del diritto al tempo di vita costituirebbe infatti il prius di ogni altro danno[23].
Altra parte della dottrina sostiene che, nell’ambito dei rapporti di lavoro, il danno esistenziale[24] ha già trovato concreta applicazione in quei danni alla personalità ricollegabili a lesioni dei diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti che sono:
· il danno professionale;
· il danno psicologico transeunte;
· il danno alla serenità della vita familiare;
· il danno alla serenità della comunità lavorativa;
· il danno alla salutare fruizione dei piaceri e delle gratificazioni della vita di relazione e dei rapporti sociali.
Tale impostazione sembra essere piuttosto generosa nella sua interpretazione di diritti costituzionali tutelati e non sembra distinguere neanche tra omissività e commissività dell’azione lesiva. Inoltre sembra avallare l’impostazione che ritiene non necessaria una espressa previsione di legge che imponga il risarcimento del danno non patrimoniale, essendo sufficiente un riconoscimento da parte della Costituzione circa il carattere fondamentale del diritto leso.
Si registra anche un filone giurisprudenziale interpretativo, soprattutto nelle aule dei giudici di pace, che consente di dare ingresso al risarcimento dei cd. danni microesistenziali o danni esistenziali bagatellari[25], derivanti in particolare da stati di ansia, perdita di serenità della persona, chances lavorative perdute, ecc., nell’ambito di rapporti di utenza pubblica (servizi di telefonia mobile, trasporti, ecc.).
Seguendo le indicazioni generali e specifiche sopra riportate non appare difficile individuare un danno esistenziale di cui la PA militare sia responsabile nell’esercizio del potere di movimentazione o di revoca di incarico.
Un’ipotesi di danno esistenziale potrebbe essere quella derivante da una sorta di stress psicologico causato da un illecito commissivo, che sia in grado di incidere sulla serenità dei rapporti del singolo trasferendo in seno alla propria famiglia ed alle relazioni socio-affettive ovvero che incida sui rapporti dello stesso nell’ambito lavorativo.
Non pare che la condizione di appartenente al Settore della Difesa possa essere, di per sé, ostativa al risarcimento dei danni causati agli aspetti esistenziali della vita del medesimo soggetto.
Così impostato, però, il danno esistenziale si configura come danno-conseguenza e non come danno-evento, nel senso che, in primo luogo, non sarebbe derivante direttamente da una violazione specifica di un diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione (con una ricostruzione semantica analoga a quella del danno biologico), bensì da ogni comportamento illegittimo che abbia la capacità di incidere sulla piena realizzazione della sfera individuale. Quindi sarebbe un danno-conseguenza derivante dalla lesione dell’integrità fisico-psicologica(danno biologico). D’altro canto si ammette, in generale, la dimensione plurioffensiva dell’illecito amministrativo.
Una giurisprudenza civile[26] ha negato l’esistenza del danno esistenziale. In particolare la detta giurisprudenza ha affermato che se è un danno evento esso è imprevedibile e quindi non è attribuibile all’offensore a titolo di colpa; se invece è un danno conseguenza deve presupporre un danno evento incidente sulla salute, sul patrimonio o sul morale e, quindi, essere regolato dalle regole risarcitorie poste dalla legge o elaborate dalla giurisprudenza per tali tre tipi di danno.
Nel primo caso (danno evento) il fondamento costituzionale sarebbe quello indicato dagli artt. 2 e 3 Cost., cui si accompagnerebbe la coeva violazione dell’art. 2043 cc; nel secondo caso (danno conseguenza) il fondamento giuridico sarebbe solo l’art. 2043 cc nella prospettiva di una responsabilità di tipo extracontrattuale a carico della PA ovvero l’art. 1218, se si aderisce alla tesi della responsabilità contrattuale della PA.
In secondo luogo, altre differenze si registrerebbero, in particolare, sul piano probatorio. Il danno-evento infatti dovrebbe essere provato in modo più agevole di quanto non lo sia il danno conseguenza, dal momento che lesione e danno coincidono.
In generale, poi, data l’immaterialità dei beni o valori colpiti, sembra impiegabile lo strumento della prova per presunzioni sulla scorta di valutazioni prognostiche anche basate su fatti notori e massime di esperienza (cd. prove logiche, ampiamente ammesse in giurisprudenza[27]). Tale strumento serve a provare l’esistenza del danno, una volta provato il quale occorre calcolarne la misura. Ciò può avvenire solo in via equitativa.
Nel caso di specie, l’interessato non ha affatto richiesto il risarcimento di un consimile danno. Inquadrando l’atto annullato come ‘incarico’, esso non aveva grandi opportunità di riconoscimento; inquadrando l’atto sotto il profilo del rapporto gerarchico (atto iussivo di movimentazione), altrettanto difficilmente l’interessato avrebbe potuto ottenere un ristoro, essendo difficile configurare un danno di tal tipo con riferimento alla movimentazione nell’ambito della stessa sede di servizio.
 
 
9. INCARICO O MOVIMENTAZIONE ILLEGITTIMI, ELEMENTO PSICOLOGICO E ONERE DELLA PROVA
 
Si registra negli ultimi tempi un nuovo modo di concepire la funzione giurisdizionale del giudice amministrativo: non più mero controllore della formalità e della legalità dell’atto ma della funzione dello stesso su un piano sostanziale e di effettività della tutela, in specie alla luce degli artt. 24, 111 e 113 della Cost..
Le resistenze maggiori da parte della giurisprudenza giungono proprio con riferimento ai casi di discrezionalità tecnica, ritenuta  sindacabile sotto i limitati profili della manifesta irragionevolezza o illogicità nonché della totale assenza di motivazione o di manifesta ingiustizia.
E’ evidente che, applicata alla lettera, tale impostazione di creazione giurisprudenziale si traduce in un diniego di giustizia, poiché un barlume di ragionevolezza è sempre percepibile negli atti amministrativi.
Nel caso di specie, in primo luogo non è molto fondato ritenere che siamo di fronte ad una scelta discrezionale tecnico-scientifica della PA quanto piuttosto ad una scelta amministrativa. Non sembra infatti che l’Amministrazione faccia uso, in occasione del trasferimento o della movimentazione d’ufficio o della revoca dell’incarico, di specifiche competenze tecniche, con la conseguenza che le sue scelte sembrerebbero maggiormente sindacabili.
Il ricorrente lamenta poi che la movimentazione o la revoca dell’incarico celino in realtà un intento punitivo, come si desumerebbe dalle stesse circostanze di fatto.
Riconoscendo che la culpa è in re ipsa, ossia nello stesso accertamento dell’illegittimità dell’atto, l’onere della relativa prova sarebbe assolto. Si registra tuttavia, in ambito giurisprudenziale, un tendenziale superamento di tale tesi per approdare alla tesi che richiede una prova circostanziata dell’elemento psicologico ai sensi dell’art. 2043CC.
La prova dell’elemento psicologico dovrebbe in tale caso afferire non tanto alla colpa, che prescinde dalla volontarietà dell’evento, quanto al dolo, che postula l’intenzionalità dello stesso e che le circostanze di fatto ampiamente dimostrano.
 
Napoli, 18/01/2008                                                     
 
                                                                                                            LUCA SCIRMAN[28]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
MASSIMA
 
È illegittimo l’atto di nomina di un generale delle FF.AA. a Comandante Generale della Guardia di Finanza contenente l’implicita rimozione dall’incarico del precedente titolare, anch’egli figura apicale del rapporto di pubblico impiego della Difesa.
La questione non riguarda l’interessato nella sua qualità di Ufficiale Generale delle FF.AA. e non ricorre pertanto una vicenda estintiva del servizio permanente effettivo, soggetta alle regole ex artt. 40, 44, 73 e 74 della l. 10 aprile 1954 n. 113, relativa allo status del personale ufficiale militare.
L’impugnato decreto solleva il ricorrente non dal servizio in sé, bensì dal solo incarico di vertice della Guardia di Finanza, conferito non in virtù di ordinaria progressione di carriera, ma per specifica nomina ad hoc.
Non configurandosi l’atto di nomina quale atto politico quanto piuttosto quale atto di alta amministrazione, esso soggiace alle regole normative proprie della legge 241/90 e smi, sia con riguardo all’onere di motivazione sia con riguardo alle regole di partecipazione e di difesa nel relativo procedimento di revoca, non esclusa la regola dell’avviso dell’avvio di procedimento di revoca.
Nel provvedimento impugnato, avrebbero dovuto essere indicate anche chiaramente le ragioni dell’urgenza della sostituzione (ragioni indicate dal Vice ministro dell’Economia in una nota separata) al fine di garantire all’interessato un giusto procedimento.
 
 


[1] TENORE V., “Lo spoils system introdotto dalla l. 15 luglio 2002 n. 145 non si applica alla dirigenza pubblica non privatizzata”, in LPA, vol. VI, npv-dic. 2003, n. 6, p. 1274ss., a commento del parere del Cons. di Stato, comm. Spec. P.I., del 29 luglio 2002, n. 2552. 
[2] SCIRMAN, in www.giustamm.it, rivista mensile di diritto pubblico, anno II, n. 5, aprile 2006, “Contributo allo studio del nuovo modello di difesa e delle Forze Armate”. Si noti che gli articoli contenuti nel TU sul pubblico impiego che rinviano alla normativa di settore (es., art. 19, comma 12) non sono subordinati ad alcuna condizione espressa. Sicché, già al solo verificarsi della ricorrenza del requisito personalistico dello “status” di militare, il rinvio è automatico. E qualora mancasse nell’ordinamento di riferimento una disciplina ad hoc, essa andrebbe ricostruita non tanto con la normativa propria del pubblico impiego privatizzato quanto piuttosto con le norme specifiche in materia di “ordini”, per assenza di medesima ratio legis. Tale impostazione si ricava sia dalle tesi dottrinali prevalenti (cfr. POLI, in AA.VV. “L’ordinamento militare”, vol. II, 2006, p. 438) sia dalle direttive della Corte Costituzionale (sentenze n. 449 del 17/12/1999, in FI, 2000, I, 1430 e n. 442 del 9/12/2005 in GU n. 50 del 14/12/2005, pp.1ss.) le quali, vietando ogni assimilazione con il pur similare ordinamento di polizia, a maggior ragione (argumentum interpretativo a majori) vietano l’assimilazione con l’ordinamente del personale privatizzato.
[3]Sul principio di specialità molto utilizzato dalla Corte Costituzionale specie negli anni ’70 del secolo scorso, v.si SCIRMAN, in Rivista della guardia di Finanza, ottobre/novembre 2005 n. 5, “Coesione, organizzazione e autoritatività nelle FF.AA.: rilettura della sentenza della Corte Costituzionale n. 449/1999”, pp. 1539-1548.
[4] Su cui POLI, in AA.VV. “L’ordinamento militare”, (POLI V. e TENORE V., a cura di), Giuffré, 2006, vol. II, pp. 427ss. nonché SCIRMAN L.,“Il trasferimento del militare nell’ordinamento delle FF.AA.: una differente impostazione”, in Diritto Militare, n. 2-3 (aprile –settembre), 2002, anno II, pp. 33ss; D’ANGELO L., “Trasferimento d’autorità nelle FF.AA.: natura giuridica e garanzie dell’interessato”, in Diritto militare 3(2003); BASSETTA F., “Il pubblico impiego militare”, in Quaderni nr 6, suppl. al n. 3/2003 della Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, parte V, cap. XII, rubricato “I trasferimenti”; POLI V., “Trasferimenti” in AA.VV., POLI-TENORE (a cura di), “I procedimenti amministrativi tipici ed il diritto di accesso nelle Forze Armate”, Milano, Giuffré, 2002, pp. 394-444
[5] Sia la manualistica (cfr., per tutti, CASETTA E., “Manuale di diritto amministrativo”, Giuffré, 2004, p. 360) sia la dottrina specifica (TENORE, in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit. vol. I, p. 324) tendono a riconoscere nel trasferimento di autorità la necessaria presenza di elementi di rapidità ed urgenza, che, in applicazione delll’incipit dell’art. 7 della legge 241/90 e smi, consentirebbero di bypassare molte, se non tutte, le regole partecipative procedimentali, tra cui l’obbligo di comunicare l’avvio di procedimento.
[6] Per la nozione di movimentazione interna: Cons. St., sez. IV, 31 maggio 2003 n. 3038; 30 maggio 2005 n. 2773), per la circostanza che non debbono essere adempiuti né gli obblighi di motivazione né quelli relativi all’avviso dell’avvio del procedimento (cfr., TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 24 ottobre 1997 n. 698; TAR Calabria, Catanzaro, n. 696/2001).
[7] “Sulla scorta di un principio giurisprudenziale largamente conosciuto ed applicato, recepito dall’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005 n. 15 ed entrato in vigore l’8 marzo del 2005, e cioè prima dell’emanazione dell’impugnato provvedimento di trasferimento – l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento si impone allorquando dall’adempimento di siffatto onere procedimentale discenda la possibilità per il destinatario dell’azione amministrativa di collaborare allo svolgimento di questa e per l’Amministrazione di acquisire in sede istruttoria una completezza di elementi altrimenti non ottenibile, perché, in caso contrario, l’obbligo verrebbe ad assumere un carattere meramente formale contrario ai principi di buona amministrazione. Ebbene, in presenza di un trasferimento per esigenze di servizio, che si sostanzia… in un semplice movimento interno di personale, fondato come nel caso di specie sulla discrezionale valutazione per cui il trasferimento stesso costituisce la misura adeguata e sufficiente alla migliore organizzazione dell’Amministrazione sul territorio, non si intende quale utile apporto istruttorio possa venire in concreto dal destinatario dell’atto” (cfr., TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 24 ottobre 1997 n. 698; TAR Calabria, Catanzaro, n. 696/2001).
[8] Il pericolo giunge dalla circostanza che, grazie all’accennata commistione, aumenta la possibilità di invocare la norma ex 173 c.p.m.p. (reato di disobbedienza) nonché la normativa disciplinare (sanzioni disciplinari di corpo e di stato).
[9] CdS, VI, 16/1/06 n. 73 in www.giustizia_amministrativa.it. Contra la meno recente giur. citata da POLI, in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit., vol. II, p. 429, nota 2.
[10] CdS, VI, 4/5/99, n. 580 in FA, 1999, 1010.
[11] POLI, in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit., vol. II, p. 430, ritiene che il t. d’autorità è “in via prioritaria” (ossia non sempre) diretto a soddisfare l’interesse dell’Amministrazione, ma non si esprime nel senso che in tale ipotesi prevalga lo scopo organizzatorio e fa supporre che lo scopo possa essere di altra natura. Poco oltre (p. 431) ammette che nei casi di trasferimento a domanda (ossia, come scrive lo stesso A., quando non ricorre un ordine in senso stretto) “troveranno applicazione le regole ordinarie del procedimento amministrativo”. Quindi se ne dovrebbe dedurre su un piano più generale che il discrimen tra applicabilità o meno delle regole partecipative, con riferimento alla movimentazione del personale del PI non privatizzato, si fonda sul fatto di riconoscere o meno che si tratti di un ordine amministrativo. Se ordine non è ma è un atto autoritativo discrezionale (come nel caso in commento), possono trovare ingresso le regole partecipative.
[12]Tesi prevalente anche nella disciplina penalistica: BRUNELLI-MAZZI, “Diritto Penale Militare”, 1998, p. 477. Tale tesi è stata mantenuta anche nelle edizioni successive del testo.
[13] E del successivo decreto legislativo n. 195 del 12 maggio 1995 e s.m.i..
[14] Le materie disciplinate per legge o, in base a questa, con atto normativo secondario o con atto amministrativo sono: 1) organizzazione del lavoro, degli uffici, delle strutture, ivi compresa la durata del lavoro ordinario; 2) procedure per la costituzione, modificazione dello status giuridico e l’estinzione del rapporto di pubblico impiego, ivi compreso il trattamento di fine servizio; 3) mobilità ed impiego del personale; 4) sanzioni disciplinari e relativo procedimento; 5) determinazioni delle dotazioni organiche; 6) modi di conferimento della titolarità degli Uffici e dei Comandi; 7) esercizio delle libertà e dei diritti fondamentali del personale; 8) trattamento accessorio per i servizi prestati all’estero.
[15] Anche per considerazioni generali sul danno militare, Cfr. SCIRMAN L., “Il danno da illegittima, ritardata od omessa valutazione del militare”, del 17/5/07, in www.diritto.it.
[16] Classicamente definito in giurisprudenza come: "menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica" (Cass. 90/7101; Cass. Sez. Lav. 88/5033; Cass. Civ. n.2883 del 1988). Sul contenuto del danno biologico e sulla sua differenza dal danno morale o patrimoniale, cfr. la Corte Costituzionale con la sentenza n.184 del 14 luglio 1986 in Giust. Civ., 1986, I, 2324.
[17] Cass. Civ., Sez. III, n. 20323 del 20/10/2005 in www.altalex.it. Si ricorre sovente anche alle tabelle preordinate dalla Corte di Appello di Milano o di Ancona.
[18] CdS, VI, n. 5087 del 4/9/06 in www.giustizia-amministrativa.it. Su cui POLI V., in AA.VV. “L’ordinamento…”, cit., pp. 454-456.
[19]Inquinamento acustico in Cass Civ. n.2396 del 1983; Cass. Civ. n.3367del 1988, Trib. Biella 22/4/89; esaurimento nervoso per fatto illecito altrui in Pret. Aquila 10/5/91; stress; morte di animale domestico; morte di un congiunto in Trib. Milano 1/2/93 e 2/9/93.
[20]Di recente, Cass. Civ., sez. lav. n. 238/07.
[21] LIMA F., “Il danno esistenziale”, 7/2/2007, che analizza e riporta la giurisprudenza recente formatasi in materia, in www.altalex.com; CdS, VI, 16/3/2005, n. 1096; Trib. Roma – 30/6/05 in Giurisprudenza di merito n. 3/2006, 579ss, con nota di L. STELLA, “L’equazione di Liberati sul risarcimento del danno esistenziale”, 582ss ed ivi bibliografia; Trib. Napoli – 1° Marzo 2005 in Giurisprudenza di Merito, n. 3/06, 591ss; CENDON P. e ZIVIZ P., “Vincitori e vinti dopo la sentenza n. 233/2003 della Corte Costituzionale”, in www.altalex.com. Cfr. pure TENORE, in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit., vol. I, pp. 1379ss; VIOLA L., “Nuove prospettive della responsabilità civile della PA: l’applicazione della nuova categoria del danno esistenziale ai provvedimenti in materia di servizio di leva”, in Diritto Militare, n. 2-3, anno II, 2002, pp. 7ss; Eid., “Il danno non patrimoniale da illegittima prestazione del servizio militare di leva”, nota a TAR Campania, Sez. II, Na, Sent. 4/3/04 in www.giustamm.it. 
[22] VIOLA L., “Nuove prospettive…”, cit., p. 27.
[23] Cfr. pure E. BETTINELLI, “Tempo di vita e servizio militare”, in FI, 1990, I, 1459ss.
[24] CASTIGLIONE S., “Il trasferimento d’autorità del personale militare e profili di danno esistenziale”, 2005, in www.filodiritto.com. Cfr. pure DE NICTOLIS R., in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit., vol. II, pp. 688ss.
[25] Proprio per arginare una eccessiva frammentazione del danno ed evitarne duplicazioni Cass. Civ., III, n. 23918 del 9/11/2006, in Corr. Giur., n. 1/07, pp. 20-21, ha negato, in un’ipotesi di colpa medica, il risarcimento del danno esistenziale oltre al già riconosciuto danno biologico e morale soggettivo, in quanto il danno alla salute (o danno biologico) comprende ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito che la lesione del bene salute abbia provocato alla vittima e non si differenzia dal danno estetico o dal danno alla vita di relazione, qui considerati come “componenti” del danno biologico.
[26] Citata e discussa da CASSANO G., “Fondamenti giuridici del danno esistenziale: novità giurisprudenziali e questioni in tema di prova”, in www.altalex.com. Di recente la Cass. Civ., n. 9514 del 20/4/07 in www.cassazione.net ha posto però in evidenza che non sempre può professarsi la separazione del danno esistenziale da quello biologico, nel quale può unilateralmente essere ricompreso.
[27] Cass. Civ. n. 2767 del 21/12/1998; Cass. Civ. n. 12124 del 19/8/2003.
[28] DIRIGENTE REGIONE CAMPANIA.

Scirman Luca

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