Il fallimento della riforma sulla riduzione e semplificazione dei riti civili ex d.lgs. n. 150/2011

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Il d.lgs. 1 settembre 2011 n. 150, emanato in attuazione della legge delega di cui all’art. 54 L. 18 giugno 2009 n. 69, avrebbe dovuto tendere alla meta della semplificazione e della riduzione dei riti speciali di cognizione[1]. Tale obiettivo sembra sostanzialmente fallito. E ciò sia perché il d.lgs. 150/2011 si presenta come una sorta di “testo unico” di alcuni riti speciali, in precedenza contenuti in diverse leggi speciali, sia perché i riti da esso considerati[2] sono ricondotti ai tre modelli processuali codicistici del rito ordinario di cognizione, del rito laburistico e del procedimento sommario di cognizione, ma non senza l’aggiunta di specifiche disposizioni, peraltro, non sempre coerenti con principi e criteri direttivi della delega[3]. L’individuazione di disposizioni peculiari mantenute in vigore è stata effettuata non sulla base di un mero criterio di specialità, perché questo avrebbe imposto il mantenimento tout court di pressoché tutte le specificità preesistenti, bensì discernendo tra le numerose disposizioni derogatorie alle regole processuali generali, specie quelle volte a conseguire effetti di riequilibrio di posizioni sostanziali delle parti caratterizzate da una disarmonia originaria ovvero quelle rese necessarie dal collegamento con determinate fattispecie extra-processuali (come, ad esempio, i termini di svolgimento di correlati procedimenti amministrativi ovvero altre particolari e manifeste ragioni di urgenza). Il “motore immobile” di quanto esposto è rappresentato dall’estrema proliferazione dei modelli processuali, spesso in assenza di un disegno organico, all’insegna della ricerca di formule procedimentali che possano assicurare maggiore celerità dei giudizi. Viceversa detto fenomeno si è rivelato un fattore di disorganizzazione del lavoro giudiziario, individuato come una delle cause delle lungaggini dei processi civili, oltre che di rilevanti difficoltà interpretative date da un eccessivo tasso di pronunce in rito piuttosto che sul merito della controversia. Al contempo, a tale tendenza si è sovrapposta quella della c.d. tutela differenziata[4], in ragione di cui peculiarità processuali sono state varate in funzione della protezione di posizioni sostanziali casisticamente ritenute meritevoli (esempio paradigmatico è costituito dall’estensione del modello processuale laburistico al processo locatizio per la specifica tutela del conduttore). Nell’esercizio della delega, pertanto, il legislatore consapevolmente ha cercato di realizzare una chiara inversione di tendenza, razionalizzando disposizioni processuali contenute nella legislazione speciale, mediante un unico testo normativo in rapporto di complementarità rispetto al codice di rito civile. Si direbbe, quindi, un’opera di razionalizzazione piuttosto che una semplificazione dei riti in senso stretto (recte, di riconduzione ad unità del modello di rito utilizzabile, pur con qualche variante).
Scendendo più nel dettaglio di quanto prescritto nella legge delega, corre l’obbligo rilevare come la riconduzione dei procedimenti estravaganti sia avvenuta privilegiando il modello processuale del rito del lavoro per quelli nei quali risultassero prevalenti i caratteri della concentrazione delle attività processuali, ovvero nei quali fossero previsti ampi poteri di istruzione d’ufficio[5]. In particolare, il presupposto della concentrazione delle attività processuali è stato riscontrato in tutti quei procedimenti ove le regole previgenti prevedevano lo svolgimento contestuale di attività che, stando alla disciplina del procedimento ordinario di cognizione, sarebbero (state) scandite temporalmente (come, ad esempio, nel caso della decisione contestuale con lettura del dispositivo in udienza, che tiene luogo della successione procedimentale della precisazione delle conclusioni, seguita dallo scambio delle comparse conclusionali e, infine, dal deposito della decisione). Sono stati ricondotti, invece, al modello del procedimento sommario di cognizione, inteso come giudizio a cognizione piena, pur in forme deformalizzate, i procedimenti speciali caratterizzati da un’accentuata semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, rivelata, nella maggior parte dei casi, dal richiamo della procedura camerale prevista e disciplinata dagli artt. 737 ss. c.p.c.[6]. Il presupposto della semplificazione della trattazione è stato rinvenuto, inoltre, in quei procedimenti che, nel loro pratico svolgimento, sono caratterizzati da un tema probatorio semplice, cui di norma consegue breve attività istruttoria, a prescindere dalla natura delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte. Per i procedimenti nei quali, viceversa, non è stato dato rinvenire alcuno dei predetti caratteri si è operata una riconduzione, residuale, al rito ordinario di cognizione[7] che, così procedendo, ha perso la sua tradizionale attitudine a porsi quale paradigma processuale applicabile, in difetto di espressa deroga, ad ogni istanza giudiziale[8]. Ciò che con più evidenza emerge è una nuova impostazione della “differenziazione” processuale, basata sulla valutazione del diverso valore ponderale istruttorio della lite in funzione del suo oggetto, cosa che troverà espressione nella rinnovata collocazione del procedimento sommario di cognizione di cui in un cospicuo numero di controversie non si farà più applicazione opzionale[9] e, contestualmente, nella residuale applicazione del rito ordinario (riservato ai soli casi di cui agli artt. 31, 32 e 33 d.lgs.).
Tuttavia, la prescritta riconduzione del singolo procedimento speciale ad uno dei tre modelli di riferimento previsti nel decreto, pur utile alla risoluzione di alcuni problemi applicativi, non è idonea, in concreto, a determinare un’effettiva riduzione dei riti[10], posto che i modelli processuali de quibus si rivelano incompleti, se non previo complessi rimandi alla disciplina ordinaria, né direttamente applicabili nella loro interezza, bensì sottoposti ad una faticosa opera di “riadattamento”[11]. Va precisato che tale criterio direttivo è stato interpretato nel modo più restrittivo possibile onde potenziare, al massimo possibile, la programmatica opera di semplificazione. Pertanto, il fatto che la riconduzione ad uno dei modelli avvenga nei limiti di compatibilità finisce di fatto per obbligare l’interprete -e, di conseguenza, a complicare la sua attività ermeneutica- a chiedersi quali siano le norme compatibili e quali no. Dovendo affrontare il prevedibile (ed inevitabile) frazionamento tra l’originaria disciplina di settore ed il nuovo codice dei procedimenti speciali, risulta evidente che le difficoltà dell’interprete non sono tenute in sufficiente considerazione dal velleitarismo della delega. Con ogni probabilità, per una reale e vincente semplificazione della giurisdizione civile speciale, sarebbe stato opportuno optare per una soluzione che prediligesse un rito unico[12].
Alla luce di tali premesse, l’impressione più immediata che si avverte è quella che, nell’ottica di una riaffermata centralità del codice di procedura civile, sempre più erosa dal “pluralismo rituale della legislazione speciale”, la riforma de qua ha segnato un’autentica “rivoluzione copernicana[13]. Pur riconfermando una pluralità di riti, la voluntas lesislatoris si è orientata nel senso di ridurne la frammentarietà, rendere più flessibile il processo civile e rafforzare, al contempo, il ruolo del giudice. Nell’ottica del legislatore delegato, le regole processuali da applicare alla singola materia dovranno ricavarsi da una lettura “in multitasking” tra codice di procedura civile, articoli 2, 3 e 4 del d.lgs. 150/2011 (c.d. disposizioni comuni) e le specifiche disposizioni contenute negli artt. 5 ss, del medesimo decreto (c.d. disposizioni speciali)[14]. Si tratta con tutta evidenza non di un’operazione di razionalizzazione, quanto piuttosto di un modus procedendi contorto e farraginoso che, lungi dal ridurre il numero dei riti, è esclusivamente volto a ridurre il numero dei modelli ai quali ciascun rito deve riferirsi. La materia processuale, pertanto, continua ad essere regolata in maniera disomogenea e frammentaria[15], ingenerando confusione tra la molteplicità di modelli processuali applicabili; molteplicità che viene porsi quale presupposto di possibili errori nella selezione del rito, aprendo così la strada ad indagini sulle conseguenze per le parti nell’ipotesi di mutamento del rito qualora l’attore abbia erroneamente introdotto una controversia con un rito difforme da quello prescritto dal legislatore delegato.

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[1] Sulla quale v. Carratta A., in Mandrioli C., Caratta A., Come cambia il processo civile, Giappichelli, Torino, 2009, p. 208; Balena G., La delega per la riduzione e semplificazione dei riti, in Foro it., 2009, V, p. 351.  

[2] Il testo della delega è, infatti, di contenuto specifico e delimitato sulla base di quanto prescritto dall’art. 54, comma 4, lett) b, l. 69/2009. In particolare, tra i processi speciali di cognizione non interessati dalla legge delega vi sono: i processi speciali di cognizione che sono disciplinati direttamente dal codice di procedura civile (si pensi ai procedimenti regolati nel libro IV come, ad esempio, il procedimento ingiuntivo, quello per convalida di sfratto, quello di divisione, di interdizione, di separazione, ecc.), dal codice civile o dal codice della navigazione; i processi speciali di cognizione non “autonomamente regolati dalla legislazione speciale”, in quanto regolati mediante il semplice rinvio alla disciplina codicistica; i processi di natura volontaria (o, comunque, non contenziosa), disciplinati al di fuori dei codici (ad es. quello per la rettificazione degli atti dello stato civile, ex art. 95 e 96 d.p.r. 396/00); i processi che non si concludono con provvedimenti idonei al giudicato e, dunque, in primo luogo quelli cautelari estravaganti (ad es. quelli previsti dalla l. 633/1941 a tutela del diritto d’autore) ed i processi esecutivi.
Riguardo ai procedimenti speciali di cognizione, disciplinati tramite richiamo alla disciplina codicistica, restano sicuramente escluse dall’opera di semplificazione le controversie agrarie, in virtù dell’art. 47, l. 203/1982, che richiama espressamente le disposizioni dettate per il rito del lavoro. Considerazione analoga può essere fatta per la disciplina dettata per il processo di divorzio e per quella dettata per il rilascio di immobili urbani alla prima scadenza del contratto di locazione. Per quanto riguarda il processo di divorzio contenzioso, dal momento che esso è disciplinato da una legge speciale, la l. 1° dicembre 1970, n. 898, stante il tenore letterale dell’art. 54 l. 69/2009, sarebbe lecito ritenere che anch’esso possa divenire oggetto dell’opera di riduzione e semplificazione processuale. In realtà, anche questo tipo di processo deve essere considerato esente dall’opera di riduzione prevista dalla legge delega per il fatto che, in forza delle ultime modifiche normative apportate dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35 e dalla l. 28 dicembre 2005, n. 263, oggi sia regolato in modo quasi identico rispetto al procedimento di separazione giudiziale, disciplinato nel libro IV del codice di procedura civile. Quanto agli immobili urbani locati ad uso diverso dall’abitazione, invece, in riferimento al procedimento di diniego di rinnovo della locazione alla prima scadenza, è dettato un procedimento speciale dall’art. 30, l. 27 luglio 1978, n. 392 che, eccetto che per alcuni aspetti procedurali marginali, richiama espressamente la normativa codicistica, ed in particolare il procedimento locatizio. Pertanto, nonostante sia formalmente regolato da una legge speciale, in realtà il rito speciale trova sostanziale disciplina all’interno del codice di rito e, per questa ragione, sembrerebbe, quindi, anch’esso esentato dalla delega in materia di riduzione e semplificazione.

[3] Nello stesso senso v. Carratta A., La semplificazione dei riti civili: i limiti dello schema di Decreto Legislativo presentato dal Governo, in www.treccani.it; Mandrioli C., Carratta A., in Diritto processuale civile, III, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 379 ss; Sassani B., La semplificazione dei riti, in Sassani B., Tiscini R. (a cura di), Roma, 2011, p. XI; Luiso F. P., Diritto processuale civile, IV, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 104 ss.; Proto Pisani A., La riduzione e la semplificazione dei riti (d.lgs. 1 settembre 2011 n. 150) “Note introduttive”, in Foro it., 2012, V, p. 73; Balena G., I modelli processuali, in Foro it., 2012, p. 76; Saletti A., La semplificazione dei riti civili, in Riv. dir. proc. civ., 2012, p. 727. Per una diversa conclusione, v. Consolo C., Prime osservazioni introduttive sul d.lgs. n. 150/2011 ecc., in Corr. giur., 2011, pp. 1488; Id., Codice di procedura civile commentato, diretto dallo stesso, Milano, 2012, p.V.

[4] Proto Pisani A., Riflessioni critiche sulla cosiddetta tutela giurisdizionale differenziata, in Rivisteweb.it, 2014, pp. 537 ss.

[5] Cfr. Carratta A., La semplificazione dei riti civili: i limiti dello schema di decreto legislativo presentato dal governo, in www.treccani.it, che costituisce il parere sullo schema di decreto legislativo depositato nell’audizione svolta il 19 luglio 2011 presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati con riguardo, per quanto qui interessa, alla nozione di “concentrazione”. La questione si pone per il fatto che si tratta di un concetto estremamente teorico che non è facilmente individuabile sul piano della pratica o nella legislazione.

[6] Per la fittizia scomparsa del rito camerale, v. Martino R., Paranzola A., Commentario alle riforme del processo civile: dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, Giappichelli, Torino, 2013 p. XXVII.

[7] Caporusso S., Il “modello processuale” del rito ordinario di cognizione, in Foro it., 2012, V, pp. 208 ss.; Asprella C., Il modello ordinario, in Santangeli F. (a cura di) Riordino e semplificazione dei procedimenti civili, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 931 ss.; Saletti A., La semplificazione dei riti civili, in Riv. dir. proc. civ., 2012, p. 730.   

[8] La Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo è reperibile on line sul sito del Ministero della Giustizia all’indirizzo www.giustizia.it.

[9] In questo senso, v. approfonditamente Tedoldi A., Il processo sommario di cognizione, Zanichelli, Bologna, 2015, pp. 617 ss; Caponi R., Per una sostenibile diversità del processo a cognizione piena, in Foro it., 2012, V, pp. 199 ss.; Fabiani M., Semplificazione dei riti: il modello sommario, in Foro it., 2012, V, pp. 202 ss.; Bove M., Su alcune controversie regolate dal rito sommario di cognizione, in Giusto proc. civ., 2012, pp. 975 ss.

[10] Santangeli F., Riordino e semplificazione dei procedimenti civili, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 37 ss.

[11] Oltre ad individuare le controversie da sottoporre al rito del lavoro, l’art. 2 d.lgs. 150/2011 procede a selezionare le disposizioni codicistiche di tale rito a queste non applicabili (basti pensare, ad esempio, alla depurazione del rito del lavoro da quelle norme dettate ed applicate solo a controversie che abbiano come parte il lavoratore). A proposito dei problemi che pone l’adattamento del rito del lavoro codicistico, v. in dottrina Carratta A., La semplificazione dei riti civili: i limiti dello schema di Decreto Legislativo presentato dal Governo, in www.treccani.it, pp. 25 ss.  

[12] Cfr., in proposito, Porreca P., Il decreto legislativo sulla semplificazione dei riti: qualche osservazione iniziale, in Giur. Merito, 2012, pp. 30 ss.

[13] Proto Pisani A., Dai riti speciali alla differenziazione del rito ordinario, in Foro it., 2006, V, cit., p. 85.

[14] Così, Russo F., La semplificazione del processo civile, Aracne, Roma, 2011, cit., p. 20.

[15] Bove M., Non viene meno la frammentazione dei riti ma solo quella dei testi di legge da consultare, in Guida dir., 2011, pp. 8 ss.

Valeria Gangemi

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