Evasione dell’Iva sui veicoli importati da altri stati UE e truffa ai danni dello Stato: un’interessante pronuncia.

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            La recente sentenza della Cassazione pen. n.7916/07 è molto interessante perché, pur ribadendo una corrente giurisprudenziale costante e maggioritaria, fa un’articolata ricostruzione di una nuova fattispecie di frode: quella fiscale e, nello specifico, quella relativa al mancato assolvimento del pagamento dell’*** su vetture importate da altri stati membri Ue in regime di sospensione di questo tributo e del possibile concorso di questo reato con altre analoghe fattispecie.
            Infatti il C. è stato rinviato a giudizio per vari reati di “falsificazione” (es. false dichiarazioni, attestazioni fatturazioni etc.), truffa ai danni dello Stato, reati ex L.74/00, associazione mafiosa e per tali motivi il Gip di Avellino aveva emesso la misura cautelare della custodia in carcere;misura impugnata, in riesame, presso il Tribunale di Napoli che la confermava.
            Avverso questa ordinanza il C. proponeva ricorso in Cassazione articolato in più motivi. I più interessanti sono quelli volti ad escludere il concorso, seppur apparente, tra il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, quelli previsti ex L.74/00 e quelli relativi alla ricostruzione dell’impianto accusatorio ed all’utilizzo delle intercettazioni.
Queste ultime doglianze sono state respinte, mentre sono state accolte quelle relative alla presunta attività fraudolenta, cassando l’ordinanza del tribunale del riesame con rinvio al Tribunale di Napoli. Sul punto,per economia narrativa, si rinvia integralmente alla sentenza de qua.
Interessante il passaggio della sentenza in cui si evidenzia che il reato ex L.74/00 e quello di truffa ex art.640 cp non sono due reati distinti, ma il primo assorbe l’altro, essendo considerato “prodomico” a quest’ultimo: “… questa Corte ha già in più occasioni affermato, in relazione all’articolo 2 del D.Lgs 74/2000 che, mutato il sistema penale tributario per effetto di detto decreto, il delitto di frode fiscale istituito con l’articolo 2 si pone in rapporto di specialità, rispetto a quello di truffa aggravata a norma del secondo comma n. 1 dell’articolo 640 Cp, in quanto connotato da uno specifico artificio e da una condotta a forma vincolata. L’ulteriore elemento, costituito dall’evento di danno, non è sufficiente a porre le dite norme in rapporto di specialità reciproca, perché il suo verificarsi è deliberatamente stato posto dal legislatore al di fuori della fattispecie oggettiva, rendendo così indifferente che esso si verifichi e necessario solo che vi sia collegamento teleologico sotto il profilo intenzionale (cfr. Sezione seconda, 7996/04, Greco; Sezione seconda, 47701/03, *******; Sezione seconda, 26344/04, Pronti; Sezione terza, sentenza 43308/05, **********; Sezione quinta, c.c. del 15.12.2006, ********).
A ragione di tale affermazione è stato rilevato che la negazione del rapporto di specialità tra frode fiscale e truffa ai danni dell’Erario si porrebbe in insanabile contraddizione con la linea di politica criminale e con la ratio che ha ispirato il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità, nella recente riforma, giacché questa muove dall’opzione fondamentale dell’ «abbandono del modello del c.d. “reato prodromico”, caratteristico della precedente disciplina» (Dl 429/82, convertito, con modificazioni, in legge 516/82). Proprio tale scelta «come si legge nella relazione ministeriale ‑ ha portato a focalizzare la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che “realizza”,dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e “definitivo” dell’evasione, negando rilevanza penale autonoma alle violazioni “a monte” della dichiarazione stessa» (Corte costituzionale, sentenza 49/2002). La punibilità dei fatti costitutivi della frode fiscale anche titolo di truffa frusterebbe dunque la disposizione dell’articolo 6 del decreto, che, escludendo la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo di cui agli articoli 2, 3 e 4 dello stesso Dl, mira «oltre che a stimolare, nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente scoperto nel corso del periodo d’imposta ‑ ad evitare che violazioni “preparatorie”, già autonomamente represse nel vecchio sistema (registrazione in contabilità di fatture per operazioni inesistenti, omesse fatturazioni, sottofatturazioni, ecc.), possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se, quali atti idonei, preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione» (Corte costituzionale, citata). Ed eluderebbe la forza cogente dell’articolo 9, il quale esclude la configurabilità di un concorso dell’utilizzatore nel fatto dell’emittente al fine di sottrarre l’utilizzatore da sanzione penale per il fatto “prodromico” (sul presupposto che il concorso è ravvisabile «nella generalità dei casi, a fronte dell’accordo tra i due soggetti normalmente sottostante all’emissione delle false fatture», Corte costituzionale citata)…. ” (sent.citata in epigrafe).
Nel caso in specie non è configurabile tale reato, perché la falsa dichiarazione deve essere ancora precedente all’emissione della falsa fattura e fornire un profitto per l’utilizzatore, id est ottenere fondi non dovuti e/o evadere il pagamento della dovuta *** con danno per l’erario.
Tutte queste operazioni sono incompatibili, per ovvi motivi con la truffa. Infatti “…«lucrare [non solo dal mancato versamento dell’IVA] ma anche dalla maggiore vendita di autovetture, alienate a prezzi inferiori a quelli di mercato»….” Presuppongo una finalità “… del tutto estranea al paradigma della truffa ai danni dello Stato o di altro ente pubblico, e non ha nulla a che vedere con quanto affermato nella sentenza delle Su di questa 27/2000 che si riferiva, esplicitamente, ad un caso di truffa il cui provento era costituito dall’erogazione di contributi o sovvenzioni comunitarie…” (sent.citata).
Infatti esula dagli atti di libera disposizione del danneggiato, ergo c’è carenza degli elementi soggetti ed oggettivi del reato di truffa e nello specifico di quella ai danni della Ue per indebita percezione di fondi, sì che in tal modo cade tutto l’impianto accusatorio e probatorio sino ad allora instaurato. In ogni caso, ratione temporis, niente poteva essere contestato all’imputato per sopravvenuta prescrizione dei reati.
In conclusione questa sentenza è rivoluzionaria non solo perché, per la prima volta, vengono enunciati i principi di cui sopra, ma anche perché è stata analizzata questa materia in modo chiaro, completo e critico sì da offrire spunti di riflessione per eventuali sentenze analoghe successive, fornendo, così, precise linee guida su come regolarsi in casi analoghi (funzione nomofilattica della S.C.). Tutto ciò è di fondamentale importanza stante l’aumento, come ci narrano le cronache moderne, di reati analoghi a quello qui analizzato.
 
DOTT.SSA **************, FORO DI GROSSETO
 
 
 
 
CASSAZIONE PENALE SEZ.V N.7916 del 26.2.2007
Pres.Pizzuti;Est. Di *******. Ricorrente O.C.
 
 
Omissis
 
FATTO
1. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Napoli, investito della richiesta riesame avanzata nell’interesse di O.C. avverso l’ordinanza 9.5.2006 del Gip di Avellino che aveva applicato al C. la misura cautelare della custodia in carcere, confermava detta ordinanza con riferimento al reato di associazione a delinquere (capo B) finalizzata, mediante l’introduzione nello Stato di vetture provenienti da altri Stati membri dell’U.E. in regime di sospensione IVA, alla commissione di truffe ai danni dello Stato, ribasso fraudolento di prezzi, reati tributari e falsi; nonché ai reati “fine” di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (capi B1 e C1); di truffa aggravata ai danni dello Stato (capi B2 e C2); di falsità nelle attestazioni circa l’assolvimento dell’IVA (capi B3 e C3); di occultamento e distruzione delle scritture contabili (capo C8); di attività fraudolenta sottrazione al pagamento delle imposte e alle procedure di riscossione coattiva con riferimento alle diverse società riferibili al C. (capi C10, C11 e C12).
2. Ricorre il C. per mezzo del proprio difensore chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato.
2.1. Con il primo motivo lamenta la violazione dell’articolo 406, comma 5, Cpp in relazione agli articoli 405 e 407 stesso codice, 2 legge 742/69, 240bis disp. att. Cpp e 21 Dl 356/92, deducendo l’inutilizzabilità degli atti d’indagine espletati successivamente al 1.10.2004.
Erroneamente il Tribunale avrebbe respinto analoga censura osservando che dopo la prima iscrizione a carico del C. del 1.4.2004, erano stati a suo carico iscritti altri reati. Si trattava infatti di iscrizioni concernenti, per il C., il medesimo fatto via via attribuito pure ad altri soggetti; sicché per il C. valeva il termine originario. Esso scadeva dunque il 1.10.2004 e la richiesta di proroga, inoltrata dal Pm solamente il 12.11.2004 era tardiva.
2.2 Con il secondo motivo deduce:
– l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, effettuate, in violazione degli articoli 271 e 2689 comma 3, Cpp mediante impianti in dotazione alla Polizia giudiziaria, senza motivazione ad opera del Pm in ordine alle ragioni di urgenza e alla inidoneità o insufficienza degli impianti della Procura;
– l’illegittimità delle intercettazioni stesse per mancanza dei provvedimenti autorizzativi, con particolare riferimento al decreto di proroga 1.6.2004 del giudice ***** (p.304 f. riesame), perché mancante della richiesta di autorizzazione del Pm…;
– decreto di autorizzazione 19.4.2005 del giudice ***** (p. 1052 f. riesame), perché mancante della informativa della Guardia di finanza n. 3369/1416 del 15.4. 2005 cui fanno riferimento la richiesta del Pm e il decreto stesso, non esistente in atti; mancherebbe inoltre l’informativa 1033/1416 del giorno 8.2.2005 cui fanno riferimento richiesta del Pm e decreto autorizzativi …;
2.3. Con il terzo motivo denunzia la violazione di legge e il vizio di motivazione con riferimento al reato di cui all’articolo 416 Cp.
Apoditticamente il Tribunale avrebbe recepito l’impianto accusatorio del Gip (che escludendo sussistenza di gravi indizi a carico dei ricorrente per la costituzione dell’associazione gamma aveva ritenuto sufficientemente riscontrata l’ipotesi invece di sua partecipazione all’associazione del ********), motivando per relationem alla posizione dei coindagati, senza considerare:
– che il trasferimento dei veicoli dimostrava la «realtà delle operazioni»;
– che il ricorrente fungendo da “tramite” del ******** aveva con lui solamente un rapporto personale;
– che nessun elemento lo collegava agli altri partecipi dell’associazione;
– che la ricostruzione del passaggio dei beni, delle operazioni di vendita compiute dalla società SWIFT Trading del C., della veste da questi rivestita in detta società, della operatività della medesima che aveva riconosciuto il debito IVA contratto, della situazione patrimoniale del ricorrente (proprietario di immobili) e delle sue società (sui cui conti erano state rinvenute somme cospicue), della autonomia operativa del C., smentivano l’impianto accusatorio.
2.4. Con il quarto motivo denunzia la violazione del principio di specialità con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato di truffa ai danni dello Stato in concorso con la frode fiscale. Censura inoltre il provvedimento impugnato nella parte in cui non avrebbe considerato come, con riferimento alla specifica posizione del C., non fosse ravvisabile, per effetto della condotta di cui all’articolo 8 del D.Lgs. 74/2000, alcun ingiusto profitto con danno dello Stato (conseguibile invece dai beneficiari delle fatture inesistenti), mentre la fraudolenta sottrazione al pagamento dell’imposta in ipotesi ascrivibile al C. andava interamente assunta nel paradigma dell’articolo 11 del decreto 74/2000, realizzabile solo dopo l’emissione degli atti esecutivi.
2.5. Con il quinto motivo deduce la violazione dell’articolo 8 del D.Lgs. 74/2000, osservando come, sulla scorta degli elementi già evidenziati, non era in alcun modo predicabile la fittizietà delle operazioni fatturate, a fronte delle quali aveva contratto debito con l’Erario.
2.6. Con il sesto la violazione dell’articolo 10 del medesimo decreto, giacchè la distruzione delle scritture contabili non era a lui riferibile, avendo in precedenza ceduto la società.
2.7. Con il settimo la violazione dell’articolo 11, mancando una procedura di riscossione in atto, alla cui esistenza è subordinata l’integrazione del reato contestato.
2.8. Con l’ottavo afferma infine che la prescrizione dei reati ai capi C12 (risalente all’anno 2000) e C11 (all’anno 2001) ne impediva la contestazione con ordinanza custodiale e che la truffa aggravata escludevano l’ipotizzabilità del reato di cui all’articolo 11 del decreto 74/2000.
Considerato in diritto
1 Il primo motivo di ricorso, con il quale si deduce la violazione del divieto di utilizzazione di atti d’indagini assunti dopo la scadenza dei termini delle indagini preliminari, è fondato nei termini che seguono.
E’ vero che, come sostiene il ricorrente, iscritta la prima notizia di reato per il reato associativo e i reati collegati a carico di O.C. il 10.4.2004, il termine delle indagini scadeva il 1.10.2004, giacché la sospensione dei termini per il periodo feriale non s’applica, pacificamente ai procedimenti concernenti reati di criminalità organizzata, di qualsivoglia tipo (Su, sentenza 17706/05, ********).
La proroga chiesta dal Pm un mese e mezzo circa dopo tale data era perciò tardiva e non poteva condurre, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, alla protrazione di un termine già scaduto. E’ peraltro verosimile – per quel che vale – che tale ritardo fosse dipeso proprio dall’originario errore in cui era incorso l’ufficio del Pm, annotando, nonostante il reato di cui all’articolo 416 Cp, nella iscrizione del 1.4.2004 una scadenza dei sei mesi senza calcolare il periodo di sospensione dei termini.
Tanto eccepito in sede di riesame dal ricorrente, al fine di far valere l’inutilizzabilità degli atti d’indagini compiuti dopo la scadenza, il Tribunale rispondeva osservando che “dalla stessa nota prodotta dalla difesa si evince che le iscrizioni del C. nel registro degli indagati sono plurime ed attengono a diverse fattispecie di reato», sicché pur essendo la prima non prorogata ve ne erano «altre ben successive, come si evince dalla stessa data dell’ultima contestazione ex articolo 416 Cp che è relativa a fatti accertati il 18.1.2005».
Lamenta il ricorrente che siffatte iscrizioni erano relative ad altri soggetti e che, con riferimento al C., non concernevano comunque fatti diversi o ulteriori rispetto al primo registrato.
Osserva il Collegio che effettivamente, dall’esame degli atti trasmessi (in copia), risultano plurime iscrizioni successive alla prima ma formalmente relative ad altri soggetti. Con riferimento al C. sta di contro il dato obiettivo che i fatti a lui infine contestati si dicono consumati sino a metà del 2005, e non potevano dunque essere riferiti con la prima delle notizie iscritte; v’è inoltre traccia tra i documenti trasmessi a questa Corte di una successiva notizia di reato iscritta nel 2005 a carico del C. per altro analogo reato associativo a seguito di trasmissione da altra autorità giudiziaria.
Orbene, le successive iscrizioni a carico di altri soggetti non possono condurre alla protrazione del termine ‑ che «decorre in modo autonomo per ciascun indagato dal momento dell’iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato» (tra molte v. Sezione sesta, sentenza 19053/03, ********) ‑ nei confronti del soggetto per primo iscritto, pena la surrettizia elusione della stessa disciplina del termine delle indagini. Quanto alle successive “iscrizioni” a carico del medesimo soggetto, per essere idonee a determinare uno spostamento in avanti del termine esse devono riferirsi a fatti ulteriori ovvero diversi. Sono difatti normativamente escluse dal novero delle vere e proprie iscrizioni le annotazioni che costituiscono, a norma dell’articolo 335, comma 2, Cpp, mero “aggiornamento” della qualificazione giuridica o delle circostanze contestate. Possono dar luogo così a nuova iscrizione, e perciò a nuova decorrenza del termine, tutte quelle notizie relative a condotte naturalisticamente autonome e diverse capaci di condurre alla configurazione di una prosecuzione dell’attività delittuosa nel reato permanente, nel reato a condotta protraentesi nel tempo, nel reato continuato (cfr. in senso analogo Sezione 33067/03, *********).
Quali e quante delle successive iscrizioni a carico del C. rispondano a siffatti requisiti è accertamento che presuppone tuttavia un controllo di fatto sul contenuto delle singole notizie criminis e una valutazione della loro “novità” che attiene interamente al merito ma che non è dato desumere dal provvedimento impugnato.
Competenza peraltro e di conseguenza al giudice del merito investito della eccezione verificare altresì che siffatte “nuove” iscrizioni si saldassero senza soluzioni di continuità al termine della precedente ovvero che, in assenza di continuità, gli elementi di prova considerati nella sua decisione fossero comunque utilizzabili perché risultavano assunti entro il termine delle diverse iscrizioni, od erano stati ritualmente acquisiti da altro procedimento.
1.2. Poiché il provvedimento impugnato non offre alcun elemento da cui indurre che siffatti accertamenti abbiano positivamente condotto al risultato della utilizzabilità di ciascuno degli elementi cui il Tribunale fa riferimento nel motivare sulla esistenza di un compendio indiziario sufficiente, esso va annullato con rinvio per nuovo esame sul punto.
2. E’ inammissibile invece il secondo motivo, con il quale si deduce l’inutilizzabilità di talune intercettazioni telefoniche per difetto dei provvedimenti autorizzativi ovvero per mancanza di motivazione circa l’utilizzazione di impianti in dotazione alla Polizia giudiziaria.
Quanto al primo profilo, deve osservarsi che il ricorrente ripropone tal quale parte delle censure avanzate con la domanda di riesame, alle quali il Tribunale ha dato compiuta risposta meticolosamente indicando luogo e numero d’affoliazione dei provvedimenti che si lamentavano mancanti. Siffatta risposta risulta nella sostanza ignorata nel ricorso, non svolgendosi in esso alcun rilievo sulle indicazioni fornite dal Tribunale. Sicché la doglianza è, per la parte in esame, priva di diretto collegamento al provvedimento impugnato, a contestazione del quale non propone argomenti, tanto da non risultare neppure riconducibile alla nozione di motivo ai sensi dell’articolo 581 Cpp.
Quanto al secondo, risulta dal provvedimento impugnato, e non è contestato dal ricorrente, che gli impianti che si dice in “disponibilità” della Polizia utilizzati per le operazioni di intercettazione si trovavano però collocati nei locali della Procura della Repubblica. Non occorreva perciò per utilizzarli ‑ come esattamente ha rilevato il Tribunale ‑ la motivazione prevista dal comma 3) dell’articolo 268 Cpp, necessaria invece, alla luce di quanto dispone il comma 1, soltanto per tali impianti non “istallati”in quei locali. Il dato testuale, oltremodo chiaro, è confortato dalla ratio della disposizione di garanzia, che all’evidenza vuole che ricorrano l’insufficienza o l’inidoneità degli impianti installati nella Procura e le ragioni d’urgenza, e che vi sia adeguata motivazione sul punto, allorché le operazioni di captazione invasive dell’altrui sfera di libertà si svolgano fuori del diretto controllo della Autorità giudiziaria.
3.. Degli altri motivi, nonostante tutti rechino nella loro intestazione la denunzia di violazione di legge, alcuni, e in particolare quelli numerati come terzo (dedicato a confutare la prova della partecipazione dei ricorrente all’associazione per delinquere contestata), come quinto (con il quale si contesta la “fittizietà” delle operazioni fatturate) e come sesto (relativo alla attribuibilità della distruzione delle scritture contabili), si riferiscono a vizi di motivazione, il cui esame resta allo stato assorbito dal parziale accoglimento della prima delle questioni procedurali dedotte.
Vanno quindi esaminate solamente le restanti censure, attesa la loro rilevanza indipendentemente dalla quantità e qualità delle prove utilizzabili.
4. Deve dunque rilevarsi che è fondato il quarto motivo, con il quale si deduce che le condotte contestate ai sensi dell’articolo 8 del D.Lgs 14/2000 non possono configurare anche il reato di truffa aggravata ai danni dell’Erario.
Questa Corte ha già in più occasioni affermato, in relazione all’articolo 2 del D.Lgs 74/2000 che, mutato il sistema penale tributario per effetto di detto decreto, il delitto di frode fiscale istituito con l’articolo 2 si pone in rapporto di specialità, rispetto a quello di truffa aggravata a norma del secondo comma n. 1 dell’articolo 640 Cp, in quanto connotato da uno specifico artificio e da una condotta a forma vincolata. L’ulteriore elemento, costituito dall’evento di danno, non è sufficiente a porre le dite norme in rapporto di specialità reciproca, perché il suo verificarsi è deliberatamente stato posto dal legislatore al di fuori della fattispecie oggettiva, rendendo così indifferente che esso si verifichi e necessario solo che vi sia collegamento teleologico sotto il profilo intenzionale (cfr. Sezione seconda, 7996/04, Greco; Sezione seconda, 47701/03, *******; Sezione seconda, 26344/04, Pronti; Sezione terza, sentenza 43308/05, **********; Sezione quinta, c.c. del 15.12.2006, ********).
A ragione di tale affermazione è stato rilevato che la negazione del rapporto di specialità tra frode fiscale e truffa ai danni dell’Erario si porrebbe in insanabile contraddizione con la linea di politica criminale e con la ratio che ha ispirato il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità, nella recente riforma, Giacché questa muove dall’opzione fondamentale dell’ «abbandono del modello del c.d. “reato prodromico”, caratteristico della precedente disciplina» (Dl 429/82, convertito, con modificazioni, in legge 516/82). Proprio tale scelta «come si legge nella relazione ministeriale ‑ ha portato a focalizzare la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che “realizza”,dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e “definitivo” dell’evasione, negando rilevanza penale autonoma alle violazioni “a monte” della dichiarazione stessa» (Corte costituzionale, sentenza 49/2002). La punibilità dei fatti costitutivi della frode fiscale anche titolo di truffa frusterebbe dunque la disposizione dell’articolo 6 del decreto, che, escludendo la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo di cui agli articoli 2, 3 e 4 dello stesso Dl, mira «oltre che a stimolare, nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente scoperto nel corso del periodo d’imposta ‑ ad evitare che violazioni “preparatorie”, già autonomamente represse nel vecchio sistema (registrazione in contabilità di fatture per operazioni inesistenti, omesse fatturazioni, sottofatturazioni, ecc.), possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se, quali atti idonei, preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione» (Corte costituzionale, citata). Ed eluderebbe la forza cogente dell’articolo 9, il quale esclude la configurabilità di un concorso dell’utilizzatore nel fatto dell’emittente al fine di sottrarre l’utilizzatore da sanzione penale per il fatto “prodromico” (sul presupposto che il concorso è ravvisabile «nella generalità dei casi, a fronte dell’accordo tra i due soggetti normalmente sottostante all’emissione delle false fatture», Corte costituzionale citata).
Lo speciale sistema sanzionatorio istituito con il decreto 74/2000 impone dunque che dal lato dell’emittente la punibilità rimanga circoscritta alla produzione della falsa fattura. mentre dal lato dell’utilizzatore resti ancorata alla falsa dichiarazione. E la circostanza ‑ evidenziata dai Giudici delle leggi ‑ che l’emissione di fattura per operazione soggettivamente od oggettivamente inesistente non può non presupporre un accordo con l’utilizzatore, nel cui esclusivo interesse è formata allorché risulti finalizzata ad evadere le imposte (generando per l’emittente dal punto di vista fiscale solamente una voce di debito), consente di affermare che l’evasione tributaria realizzata mediante le false fatture all’evidenza costituisce, nel disegno del legislatore, per l’emittente un post fatto non punibile: nello stesso modo in citi la formazione/emissione di tali documenti integra, per l’utilizzatore, un antefatto penalmente irrilevante.
Ne consegue che, come è stato affermato che la rilevanza penale delle condotte prodromiche non può per l’utilizzatore risorgere alla stregua della contestazione della truffa tentata ai danni dell’erario, così deve affermarsi che la punibilità dell’emittente per il contributo dato alla frode fiscale ai danni dell’Erario con profitto dell’utilizzatore non può essere reintrodotta attraverso la contestazione della truffa.
Anche con riferimento al reato di cui all’articolo 8 del D.Lgs 74/2000 va perció ribadito che l’evidente e assoluta specialità connotante i meccanismi della repressione penal – tributaria non consentono di ascrivere al concorrente delitto di truffa ai danni dello Stato quelle condotte che, previste e sanzionate nel decreto 74/2000, non hanno altra diretta finalità che l’evasione o l’elusione dell’obbligazione tributaria (in termini non dissimili, vedi peraltro Su, sentenza 27/2000).
4. 1. Orbene, rispondendo alle doglianze articolate dalla difesa del ricorrente sul punto, il provvedimento impugnato non s’è attenuto a tali principi.
La possibilità di configurare, oltre che il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, anche la truffa è stata difatti affermata dal Tribunale sul duplice presupposto che al C. non era stato contestato il reato di cui all’articolo 2 – del che s’è già detto ‑ e che sussisteva nel caso di specie una distinta ed autonoma finalità extratributaria, ravvisabile in quella di «lucrare [non solo dal mancato versamento dell’IVA] ma anche dalla maggiore vendita di autovetture, alienate a prezzi inferiori a quelli di mercato».
Ma siffatta ulteriore “finalità” è del tutto estranea al paradigma della truffa ai danni dello Stato o di altro ente pubblico, e non ha nulla a che vedere con quanto affermato nella sentenza delle Su di questa 27/2000 che si riferiva, esplicitamente, ad un caso di truffa il cui provento era costituito dall’erogazione di contributi o sovvenzioni comunitarie. Nel caso di specie, invece, niente consente di ricondurre il “lucro” di cui parla il Tribunale del riesame ad un atto di disposizione patrimoniale del danneggiato (requisito implicito della truffa) direttamente produttivo dell’ingiusto profitto dell’agente. Sicché la “finalità” di vendere più vetture, a prezzi inferiori a quelli del mercato (all’evidenza con più facili guadagni), è esterna alla truffa ai danni dello Stato come lo è alla frode fiscale.
4.2. Il provvedimento impugnato deve di conseguenza essere annullato con rinvio anche in relazione all’affermata possibilità del concorso della truffa ai danni dello Stato con il reato di cui all’articolo 8 D.Lgs 74/2000.
5. Le precedenti ragioni rendono evidente, di contro, l’irrilevanza delle censure articolate nell’ambito dell’ottavo motivo, relative alla dedotta sussistenza di un inverso rapporto di specialità tra il reato di cui all’articolo 11 del D.Lgs 74/2000 e la truffa aggravata ai danni dello Stato, a privilegio di questa. Censure peraltro manifestamente. infondate perché la clausola di salvezza dei reato più grave contenuta nell’incipit dell’articolo 11 non è in alcun modo riferibile al reato di truffa (bensì, esplicitamente nell’intenzione del legislatore, alla bancarotta, cfr. relazione al decreto), del quale il reato di cui si discute non condivide né struttura né connotati, non essendo la condotta in esso considerata capace di determinare alcun “atto di disposizione” dell’Erario.
6. Parimenti infondata è la censura, sviluppata nel settimo motivo, con la quale si sostiene che non sarebbe configurabile il reato di cui all’articolo 11 del D.Lgs 74/2000 in assenza di una procedura di riscossione in atto.
Il dato testuale della norma evocata non consente dubbi sul fatto che il riferimento alla procedura di riscossione appartiene al momento intenzionale e non alla struttura del fatto.
Le ragioni di tale configurazione emergono con chiarezza dalla relazione governativa al decreto, che evidenzia come «Rispetto alla previsione punitiva dell’articolo 97, sesto comma, del Dpr 602/73, come sostituito dall’articolo 15, comma 4, lettera b), della legge 413/91 ‑ di cui quella in esame costituisce lo sviluppo» sia stata dal legislatore voluta proprio «la soppressione del presupposto rappresentato dall’avvenuta effettuazione di accessi, ispezioni o verifiche, o dalla preventiva notificazione all’autore della manovra di inviti, richieste, atti di accertamento o iscrizioni a ruolo: presupposto che aveva contribuito, in effetti, a limitare fortemente le capacità di presa dell’incriminazione». Dacché, deliberatamente, «la linea della tutela penale è stata opportunamente avanzata, richiedendo, ai fini della perfezione del delitto, la semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione ‑ idoneità da apprezzare, in base ai principi, con giudizio ex ante ‑ e non anche l’effettiva verificazione di tale evento».
Lettera, intento e ratio, non consentono perciò di condividere la pronunzia citata dal ricorrente (Sezione sesta, sentenza 9251/05, *******), nella parte in cui parrebbe affermare la perdurante necessita, ai fini della configurabilità del reato, dell’esistenza una procedura in atto di riscossione coattiva: pronunzia peraltro già argomentatamente superata nella giurisprudenza di questa Corte da sezione terza), sentenza 17071/06, *********, secondo cui al fine del perfezionamento del reato di cui all’articolo 11 del D.Lgs 74/2000, è richiesto soltanto che l’atto simulato di alienazione, o gli altri atti fraudolenti sui beni, siano idonei ad impedire il soddisfacimento totale o parziale del fisco, sul rilievo appunto che la disposizione vigente non contiene alcun riferimento alle condizioni prima previste dall’articolo 97, comma sesto, del Dpr 602/73, come modificato dall’articolo 15, comma 4, della legge 4113/91 (ovvero alla avvenuta effettuazione di accessi, ispezioni o verifiche, o alla preventiva notificazione, all’autore della condotta fraudolenta, di inviti, richieste o atti di accertamento).
6.1. Ha invece ragione il ricorrente quando, nell’ambito dell’ottavo motivo, lamenta che non sia stato in alcun modo considerato, ai sensi dell’articolo 273, comma 3, Cpp, il tempo di consumazione dei reati di cui all’articolo 11 del D.Lgs 74/2000 con riferimento a fatti che, a stare alla contestazione, potevano ritenersi già estinti per prescrizione.
L’ordinanza cautelare è del maggio 2006 e il capo C12 si riferisce a «fatto relativo all’anno 2000», il capo C11 anche a fatto relativo all’anno 2001. L’intervenuta modifica degli articoli 157 e 158 Cp ad opera della legge 251/05 imponeva dunque di verificare quale fosse, in concreto, la legge più favorevole applicabile: se la precedente che per tali fatti prevedeva un termine di 5 anni, a decorrere tuttavia dalla consumazione dell’ultimo reato in continuazione ‑ dovendosi in tal caso valutare anche la ricorrenza, seppure ai soli fini cautelari, delle condizioni di cui all’articolo 81 cpv, Cp-, ovvero la nuova che, pur portando a sei anni il termine prescrizionale, impedisce però di considerare ai fini della decorrenza di detto termine i successivi fatti in continuazione.
7. Conclusivamente, l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio al tribunale di Napoli perché, in diversa composizione stante l’articolo 34 Cpp, proceda a nuovo esame dei materiale probatorio utilizzabile conformandosi ai principi sopra enunziati.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al tribunale di Napoli per nuovo esame.
 

Dott.ssa Milizia Giulia

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