Estinzione del reato per messa alla prova, revoca e riconseguimento della patente

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Di Silvio Brucoli e Laura Daniele

Come è noto, la guida in stato di ebbrezza , salvo i casi più lievi[1], costituisce un reato di natura contravvenzionale punito con l’ammenda e l’arresto, di diversa intensità a seconda del livello alcolico presente nel sangue[2].

Con la sentenza di condanna, o come accade più frequentemente, con il decreto penale di condanna nonché nei casi di applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d.patteggiamento), è disposta la sospensione della patente di durata variabile in relazione alla gravità della violazione commessa.

In tali casi la sospensione è disposta direttamente dal giudice con la sentenza (o decreto penale) di condanna e solo la materiale esecuzione è affidata ad un successivo provvedimento amministrativo del prefetto, il quale deve limitarsi alla mera applicazione di quanto disposto dall’A.G. (art.224, 1°comma, c.d.s.).[3]

Nei casi più gravi (quali ad esempio la recidiva nel biennio – art. 186, co.2, lett. c -, o ancora nei casi di incidente stradale provocato da un conducente al quale sia stato accertato un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l – art. 186, co.2 bis – , nonché in altre specifiche ipotesi) è prevista quale sanzione accessoria, in luogo della sospensione della patente, la revoca della patente e cioè il provvedimento amministrativo che priva definitivamente di efficacia il titolo di guida con la conseguenza che il titolare si trova nella stessa situazione di chi guida senza patente per non averla mai conseguita. Anche la revoca della patente è disposta direttamente dal giudice penale ed applicata dal Prefetto (art.224, 2°comma, c.d.s.).

Nei casi sopra descritti l’applicazione delle suddette sanzioni amministrative accessorie presuppongono l’accertamento del reato e cioè la sentenza (o il decreto) penale di condanna.

Appare opportuno precisare che con la L.29 luglio 2010, n. 120 è stata introdotta la possibilità di ricorrere al lavoro di pubblica utilità quale sanzione sostitutiva della pena inflitta in caso di condanna per guida sotto l’influenza dell’alcool (art. 186, co. 9 bis Cds)  ed in tema di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti (art. 187, co. 8 bis). Il lavoro di pubblica utilità consiste nello svolgimento di attività non retribuita in favore della collettività che deve essere svolta presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni ovvero presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato come previsto dall’art. 54, d.lgs. 28 agosto 2000, n.274. Le modalità di svolgimento sono state determinate dal D.M. 26 marzo 2001 del Ministero della Giustizia.[4]

Giova evidenziare che la sanzione del lavoro di pubblica utilità è una vera e propria pena, così qualificata dal legislatore, che determina una limitazione della libertà personale del condannato. In caso di positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, il giudice fissa udienza ed in detta occasione dichiara estinto il reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato.

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Sospensione del processo con messa alla prova

Fattispecie diversa è la c.d. sospensione del processo con messa alla prova, introdotta con  legge 28/04/2014, n.67, che trova notevole applicazione nei casi di guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti.[5] Trattasi di una modalità alternativa di definizione del processo, attivabile sin dalla fase delle indagini preliminari, mediante la quale è possibile pervenire ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato, laddove si concluda con esito positivo il periodo di prova cui acceda l’indagato/imputato, ammesso dal giudice in presenza di determinati presupposti normativi.[6]

La disciplina dell’istituto che dà luogo sul piano sostanziale all’estinzione del reato in caso di esito positivo, e, sul piano processuale, ad una modalità alternativa di definizione del giudizio, è contenuta negli artt.168-bis e ss c.p. nonché negli artt. 464 bis e ss c.p.p.

In sintesi, l’istituto in parola consiste nella richiesta da parte dell’imputato della sospensione del procedimento penale, che viene concessa dal giudice quando, in considerazione della gravità del reato e della capacità a delinquere dell’imputato, reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che il soggetto richiedente si asterrà dal commettere altri reati in futuro. Come evidenziato da attenta dottrina, “lo Stato cede la sua pretesa punitiva, tant’è che l’esito positivo della prova comporta la dichiarazione di estinzione del reato, se il reo recede dalla sua disposizione al reato”[7]. Si tratta di misura che va inserita nel solco della giustizia riparativa “ossia di quel modello di giustizia più mite e meno repressiva, alternativo al processo e basato su un paradigma riabilitativo e conciliativo, conferendo al processo e alla pena un ruolo di extrema ratio, limitato alle sole ipotesi di esito negativo della prova”.[8]

Più in particolare, la messa alla prova “comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato” (art. 186 bis c.p.), comporta poi l’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può implicare anche attività di rilevo sociale, ed è subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità.

Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita in favore della collettività, affidata tenendo conto della professionalità e delle attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie, o presso enti o organizzazioni, anche internazionali che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato (art. 168 bis c.p.).

L’esito positivo della prova determina l’estinzione del reato. A differenza del lavoro di pubblica utilità ex art.186, co.9 bis e 187, co.8 bis, la messa alla prova, in quanto istituto finalizzato ad una composizione “preventiva” del conflitto penale, prescinde dall’accertamento di responsabilità in ordine al fatto ascritto.[9]

Tale esito del procedimento penale, con riferimento ai reati previsti per guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti, ha creato non pochi problemi interpretativi sin dalla sua introduzione e ha posto numerose questioni pratiche che, in alcuni casi, hanno determinato significativi interventi della Corte di Cassazione.

Delle principali questioni si cercherà di dar conto nei successivi paragrafi.

Competenza ad irrogare la sanzione amministrativa accessoria

Una prima problematica attiene all’individuazione dell’organo competente ad irrogare la sanzione amministrativa accessoria della sospensione o della revoca della patente.

Come si è già detto, la sanzione amministrativa accessoria consegue all’accertamento della penale responsabilità e quindi alla sentenza penale di  condanna tanto che viene irrogata direttamente dal giudice penale ai sensi dell’art.224 c.d.s.. Senonché nel caso della messa alla prova manca una sentenza di condanna o ancora meglio manca l’accertamento della responsabilità penale ed il procedimento si conclude con il proscioglimento per estinzione del reato.

Secondo un primo orientamento[10] considerato che  “…nel caso di sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice non opera alcun accertamento del reato…..” e che “..la sentenza emessa all’esito del procedimento non può certamente equipararsi ad una condanna o all’applicazione della pena ex art.444 c.p.p…..” Il Tribunale di Milano ha concluso nel senso che “la sanzione amministrativa in parola non può trovare applicazione nel caso di declaratoria di estinzione del reato all’esito del procedimento di messa alla prova ex art.168 bis c.p., non sussistendo i presupposti che ne legittimano l’applicazione ai sensi dell’art.187 c.d.s.”.

Tale orientamento non ha trovato seguito ed è stato superato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha delineato in maniera chiara e precisa i contorni dell’istituto.

In particolare, con sentenza n. 40069 del 17/9/2015 la Cassazione ha preliminarmente precisato che nei casi in esame (di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova) “..nessun dubbio sussiste che la sanzione amministrativa de quo vada applicata”.

A tale conclusione la Cassazione giunge sulla base di una serie di elementi.

In primo luogo la Cassazione ha osservato che il legislatore nel 2014 nell’inserire nel codice penale l’art. 168 ter si è preoccupato di prevedere espressamente che l’estinzione del reato per l’esito positivo della messa alla prova non pregiudichi l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie ove previste dalla legge.

Precisa la Cassazione che tale previsione risulta necessaria in quanto il nuovo istituto della messa alla prova rientra nelle cause di estinzione del reato e, in quanto strumento di composizione preventiva e pregiudiziale del conflitto penale, non prevede un preventivo accertamento di penale responsabilità.

Nella detta sentenza si precisa altresì che :” la competenza all’irrogazione della stessa all’esito della positiva “messa alla prova” e dell’estinzione del reato, vada individuata, ai sensi dell’articolo 224, comma 3 c.d.s., in capo al Prefetto”.

L’articolo 224 c.d.s. prevede testualmente che: “la declaratoria di estinzione del reato per morte dell’imputato importa l’estinzione della sanzione amministrativa accessoria. Nel caso di estinzione del reato per altra causa, il prefetto procede all’accertamento della sussistenza o meno delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria e procede ai sensi degli articoli 218 e 219 nelle parti compatibili. L’estinzione della pena successiva alla sentenza irrevocabile di condanna non ha effetto sulla applicazione della sanzione amministrativa accessoria…”.

La sentenza in esame evidenzia poi le differenze tra l’istituto della messa alla prova e l’istituto del lavoro della pubblica utilità di cui agli artt. 186 comma 8bis e 187, comma 9bis.

Nell’ipotesi di cui agli articoli sopra citati vi è l’accertamento delle responsabilità dell’imputato e la pena detentiva e pecuniaria è sostituita dal lavoro di pubblica utilità. Ciò comporta che la competenza a statuire sulla sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente rimanga in capo al giudice penale, con la previsione della riduzione alla metà della detta sanzione in caso di esito positivo del lavoro di pubblica utilità.

Ben diversa è la situazione della messa alla prova in cui manca l’accertamento della penale responsabilità e riprende vigore la norma di carattere generale prevista dall’articolo 224 che in caso di estinzione del reato rimette al Prefetto la competenza ad irrogare la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente.

In conclusione la Corte di  Cassazione ha statuito che “..il giudice il quale…pronunci sentenza di intervenuta estinzione del reato ex art 168 ter co.2 cod.pen per positivo esito della messa alla prova, non può e non deve applicare la sanzione amministrativa accessoria, che verrà poi applicata dal Prefetto competente a seguito di trasmissione degli atti da parte del cancelliere ed in seguito a passaggio in giudicato della sentenza che tale estinzione del reato accerta e dichiara (ex art.224,co.3, c.d.s.).”

Nello stesso senso si segnala la sentenza della Cass. ,Sez.4 penale, 23 marzo 2016 n.29639.

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Riconseguimento della patente dopo la revoca: art. 219  3 bis o co. 3 ter?

Va premesso che, come già detto, l’art. 224 Cds stabilisce che “Nel caso di estinzione del reato per altra causa, il Prefetto procede all’accertamento della sussistenza  o meno delle condizioni di legge per l’applicazione  della sanzione amministrativa accessoria e procede ai sensi degli artt 218 e 219 nelle parti compatibili…”.

Il Prefetto quindi, per emettere la sanzione amministrativa accessoria, deve in primo luogo accertare la sussistenza o meno delle condizioni di legge[11] e poi deve procedere all’applicazione della sanzione, facendo riferimento agli artt. 218 e 219 per quanto compatibili. Dunque, in tali casi il Prefetto attua la stessa procedura prevista nei casi in cui la sanzione è conseguente a un illecito amministrativo.[12]

Acclarato che il provvedimento di revoca della patente nei casi in esame viene disposto dal Prefetto a seguito della trasmissione della sentenza di proscioglimento per estinzione del reato ai sensi dell’art.224, co.2 e 3, dopo l’espletamento di attività istruttoria, rimane aperto un ulteriore problema legato al riconseguimento della patente.

Premesso che il provvedimento di revoca, a differenza di quello di sospensione, produce la definitiva perdita di efficacia e validità del titolo abilitativo alla guida, il legislatore in via generale ha ritenuto che la revoca non determini una preclusione irreversibile al riconseguimento della patente.[13]

Tuttavia, per i casi di revoca disposta a seguito di violazione di norme del codice della strada, il legislatore ha previsto un periodo di interdizione per il conseguimento di una nuova patente il cui scopo è quello di evitare un troppo celere rientro sulle strade di chi si sia reso colpevole di gravi violazioni al codice della strada.

Le ipotesi di revoca disposta ai sensi degli artt.186 e 187 rientrano nella fattispecie prevista dall’art.219, co.3 ter che testualmente recita: “Quando la revoca della patente di guida è disposta a seguito delle violazioni di cui all’art. 186, 186bis e 187 non è possibile conseguire una nuova patente di guida prima di tre anni a decorrere dalla data di accertamento del reato…”.

Occorre dunque verificare la compatibilità di tale disposizione con la revoca disposta dal Prefetto ai sensi dell’art. 224, co. 3 e cioè a seguito di estinzione del reato per messa alla prova. Atteso che per accertamento del reato di cui alla suddetta norma si intende la sentenza penale di condanna passata in giudicato,[14] si pone il problema se detta norma possa trovare applicazione anche nelle ipotesi  esaminate di sentenza di proscioglimento per estinzione del reato a seguito della c.d. messa alla prova.

In tali casi infatti, come si è detto, manca l’accertamento del reato e cioè l’accertamento della responsabilità penale del soggetto attraverso una sentenza di condanna.

Al riguardo possono delinearsi diverse soluzioni. Secondo una prima prospettazione, il termine triennale potrebbe decorrere dalla data della sentenza di proscioglimento per estinzione del reato. Senonché tale interpretazione si pone in contrasto con il tenore letterale della norma e con l’ impossibilità di applicare la detta norma in via analogica o con interpretazioni estensive, dato il suo carattere di lex specialis.

Secondo un altro orientamento, è stata individuata la data di accertamento del reato nella data di contestazione della violazione da parte dell’organo accertatore.

In tal senso il Giudice di Pace di Udine, con sentenza n. 43517, ha ritenuto che: “… nel caso che ci occupa non vi è stato accertamento del reato (in quanto il reato è estinto) e, quindi, semmai il termine di tre anni per il conseguimento di una nuova patente di guida decorre dalla data del fatto, ovvero dalla data di commissione del reato”. 

Tale conclusione tuttavia non appare condivisibile in quanto non tiene in considerazione il fatto che la data di accertamento del reato vada intesa con riguardo alla data di definizione del procedimento penale, non potendosi individuare diversamente nel momento in cui l’organo accertatore contesta l’infrazione, essendo in realtà detto momento  quello di mero avvio della fase processuale, il cui esito sarà determinato dalla pronuncia del giudice, l’unica nella quale può essere accertato il reato ed il giudizio di colpevolezza ad esso collegato.[15]

Infine, va premesso che nel caso di specie, il provvedimento prefettizio di revoca torna ad assumente la natura di provvedimento amministrativo, svincolato dal procedimento penale.

In altri termini, nel momento in cui il cancelliere trasmette al Prefetto la sentenza di proscioglimento per estinzione del rato, è il Prefetto l’Organo deputato a procedere all’accertamento della sussistenza o meno delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria, tanto che lo stesso deve effettuare un’attività di tipo istruttorio volta all’accertamento della responsabilità del fatto ascritto all’imputato, non potendosi limitare al richiamo alla sentenza di proscioglimento, che in realtà non accerta alcun fatto-reato[16].

Da ciò discende che il provvedimento prefettizio assume il carattere di sanzione accessoria derivante da un illecito amministrativo e non da un illecito penale, con la ulteriore conseguenza che deve ritenersi applicabile per il riconseguimento l’art. 219 comma 3bis che prevede testualmente: “L’interessato non può conseguire una nuova patente se non dopo che siano trascorsi almeno due anni dal momento in cui è divenuto definitivo il provvedimento di cui al comma 2”.

Tale soluzione sembrerebbe quella maggiormente compatibile con il sistema normativo di riferimento. In ogni caso, emerge chiaramente un vuoto legislativo che rischia di far emergere soluzioni incoerenti e fra loro contrastanti su una problematica di notevole rilevanza per la garanzia della sicurezza stradale.

Computo della sospensione cautelare nel periodo di inibizione  alla guida (c.d.presofferto)

Secondo parte della giurisprudenza[17] nel periodo triennale di inibizione alla guida andrebbe calcolato il c.d. presofferto, cioè il  periodo di sospensione cautelare della patente di guida. Al riguardo si rileva che tale orientamento non appare sostenuto da valide argomentazioni giuridiche. Infatti il provvedimento di revoca ha carattere di sanzione amministrativa accessoria che priva in  via definitiva l’interessato del titolo di guida e pertanto non può confondersi con il provvedimento di sospensione della patente (che priva temporaneamente l’interessato della patente), adottato dal Prefetto  ai sensi dell’art. 186 del codice della strada, avente finalità esclusivamente cautelari, in quanto volto, nelle more del procedimento penale, a tutelare con immediatezza l’incolumità e l’ordine pubblico e ad evitare che il conducente possa assumere ulteriori condotte lesive della incolumità altrui (Cass. 19 ottobre 2010 n. 21447).  Ne consegue, stante il diverso scopo e la differente natura dei due istituti, la non corretta inclusione nel conteggio del periodo previsto dall’art. 219, comma 3 ter Cds, di quello sofferto a seguito della sospensione della patente di guida (cosiddetto presofferto).[18]

Con sentenza n.651/2016 il Tribunale di Siena, oltre a ribadire il concetto di accertamento del reato quale dato del passaggio in giudicato della sentenza, si è  soffermato sulla questione del cosiddetto “presofferto” e cioè della computabilità della sospensione cautelare nel triennio di cui all’art. 219, c. 3ter, escludendone la possibilità.

La detta sentenza ha precisato che mentre lo scopo della sospensione cautelare è ”… quello di impedire” in via cautelare “la prosecuzione della guida da parte di soggetto ritenuto pericoloso per se stesso e per gli altri…il triennio in parola ha il fine, invece di far trascorrere un tempo adeguato al pieno recupero sociale dell’individuo ritenuto responsabile; altrimenti opinando, la previsione normativa dell’articolo 219 sarebbe nella sostanza superflua e non troverebbe mai applicazione”[19]

Giurisdizione sul provvedimento di diniego di ammissione all’esame per il conseguimento della patente per mancato decorso del triennio

In un primo momento, sulla questione si sono pronunciati i Tar, ritenendo implicitamente la giurisdizione del giudice amministrativo.[20]

Con sentenza 5 marzo 2015, n.3817, il Tar del Lazio invece ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’interessato per difetto di giurisdizione ritenendo, nel caso di specie, venire in rilievo una posizione di diritto soggettivo del ricorrente, non configurandosi alcuna spendita di poteri discrezionali da parte dell’Amministrazione. In particolare il Giudice amministrativo, richiamando la pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione n. 10406/2014 intervenuta in materia di revoca della patente di persona sottoposta a misura di prevenzione, ha affermato che “in difetto di deroghe ai comuni canoni sul riparto della giurisdizione, spetta alla cognizione del Giudice ordinario”. Ha poi precisato che il provvedimento prefettizio con il quale viene disposta la revoca, non possa essere assimilato alle sanzioni amministrative per le quali è previsto, in via generale, il regime di impugnazione di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22-bis, e che quindi la giurisdizione vada individuata in capo al Tribunale Ordinario e non al Giudice di Pace.

Anche alcuni giudici ordinari (v. Tribunale di Firenze, adito ex art.700 c.p.c., ord. n. 4181/15) hanno ritenuto sussistente la propria giurisdizione.

Sulla questione è quindi intervenuto il Consiglio di Stato, Sezione III, sentenza 25.01.2016, n. 235 che, conformemente all’orientamento delle SSUU della Corte di Cassazione, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo  nelle controversie aventi ad oggetto il diniego al riconseguimento della patente nei casi previsti dall’art. 219, comma 3ter C.d.S. In particolare il Consiglio di Stato ha rilevato che “nella vicenda contenziosa in trattazione viene in rilievo una misura amministrativa vincolata che accerta la carenza di un requisito soggettivo di idoneità” e che “in questo caso, in capo al destinatario della revoca non è configurabile un interesse legittimo, ma un diritto soggettivo, suscettibile di tutela innanzi al giudice ordinario…”.

Tale sentenza conferma l’orientamento in merito già espresso da numerosi Tar (Tar Lazio, Sez. III ter n. 3817/2015, Tar Lombardia n. 2004/2015, n. 1274/2015, Tar  Liguria n. 188/2016, Tar Trento n. 164/2016,  Tar Emilia Romagna n. 440/2016, ecc.).

Di recente tuttavia il Tar Lombardia, Sez Brescia, Ord n. 117/2016, ha ritenuto che:”…la giurisdizione …spetti al Giudice amministrativo, in quanto tutte le valutazioni relative ai requisiti necessari per la patente di guida ( fisici, psichici, morali, di idoneità tecnica), anche se in taluni casi hanno natura vincolata,   incidono su un provvedimento abilitativo che rimane costantemente nella sfera di vigilanza dell’Amministrazione. Si tratta pertanto di attività svolta dall’amministrazione nell’esercizio di funzioni pubbliche connesse alla sicurezza della viabilità”.

Ma tale posizione, allo stato, resta isolata e nettamente prevalente è in ogni caso l’affermazione della giurisdizione del Giudice Ordinario.[21]

Pertanto, in caso di rigetto della domanda di riconseguimento della patente per mancato decorso del triennio di cui all’art. 219, co. 3ter dalla data di accertamento del reato, detto provvedimento è impugnabile dinanzi al Tribunale Ordinario civile competente per territorio. Si sottolinea infatti che il detto provvedimento, come precisato dalla giurisprudenza, non costituendo sanzione amministrativa, non rientra nella competenza per materia del Giudice di Pace ma è devoluto, come detto, alla competenza ordinaria del Tribunale Ordinario ai sensi dell’art. 9 c.p.c..

Conclusioni

La guida in stato di ebbrezza ( e/o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti) costituisce senza alcun dubbio uno dei comportamenti più pericolosi sotto il profilo della sicurezza stradale e della incolumità propria ed altrui. L’ordinamento nel corso del tempo ha sempre più inasprito le pene principali ed accessorie sia a scopo preventivo sia per finalità repressivo-dissuasive.

Tuttavia l’introduzione di misure quali la messa alla prova, pur giustificate da ragioni sociali ed organizzative, ha depotenziato l’efficacia degli interventi legislativi, soprattutto con riferimento alla pena principale. E’ dunque necessario che il sistema delle sanzioni accessorie (quali la sospensione e la revoca della patente), che è l’unico ad assicurare l’effettiva incidenza sulle abitudini di vita dei soggetti destinatari e a neutralizzare per periodi più o meno lunghi il pericolo di reiterazione di fatti delle stessa specie, venga applicato in maniera rigorosa con norme il più possibile chiare e precise, che non lascino spazio ad interpretazioni capziose ed elusive in considerazione della estrema importanza degli interessi in campo.

Pertanto sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che, in caso di revoca della patente, stabilisca in maniera certa il dies a quo del periodo di inibizione alla guida in modo da non lasciare alla libera interpretazione dei singoli organi giurisdizionali  una materia così delicata e complessa.

Note

[1] Qualora sia accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per litro, il fatto non costituisce reato ed  è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 532,oo a euro 2.127,00  e con la sospensione della patente da tre a sei mesi (art. 186 Cds, co.2, lett.a).

[2] In particolare, qualora sia stato accertato un valore corrispondente a un tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro, il fatto è punito con l’ammenda da euro 800 ad euro 3.200 e l’arresto fino a sei mesi. All’accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno (art. 186 Cds, co.2, lett. b); ove invece venga accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro, il fatto viene punito  con l’ammenda da euro 1.500 ad euro 6.000 e l’arresto da sei mesi ad un anno. All’accertamento del reato segue sempre la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a due anni. Se il veicolo appartiene a persona estranea al reato, la durata della sospensione della patente di guida è raddoppiata (art. 186 Cds, c.2, lett. c).

[3] In questo caso si tratta di vera e propria sanzione amministrativa accessoria applicata dal Giudice penale che non va confusa con la sospensione della patente di guida che il Prefetto, ai sensi del co. 9 dell’art.186 c.d.s., può disporre in via cautelare nel caso in cui dagli accertamenti risulti un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l. In tal caso la sospensione si protrae fino a quando non è disponibile l’esito della visita medica disposta ai sensi del co.8 dell’art.186 c.d.s.

[4] In particolare il D.M. 23 marzo 2001 indica quale può essere l’oggetto del lavoro di pubblica utilità, che può consistere in: a) prestazioni di lavoro a favore di organizzazioni di assistenza sociale o volontariato operanti, in particolare, nei confronti di tossicodipendenti, persone affette da infezione da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex-detenuti o extracomunitari; b) prestazioni di lavoro per finalità di protezione civile, anche mediante soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali, di tutela del patrimonio ambientale e culturale, ivi compresa la collaborazione ad opere di prevenzione incendi, di salvaguardia del patrimonio boschivo e forestale o di particolari produzioni agricole, di recupero del demanio marittimo e di custodia di musei, gallerie o pinacoteche; c) prestazioni di lavoro in opere di tutela della flora e della fauna e di prevenzione del randagismo degli animali; d) prestazioni di lavoro nella manutenzione e nel decoro di ospedali e case di cura o di beni del demanio e del patrimonio pubblico ivi compresi giardini, ville e parchi, con esclusione di immobili utilizzati dalle Forze armate o dalle Forze di polizia; e) altre prestazioni di lavoro di pubblica utilità pertinenti la specifica professionalità del condannato.

[5] Nel nostro ordinamento l’istituto della messa alla prova era già contemplato come causa di sospensione del processo penale minorile (art. 28-29 DPR 22 settembre 1988, n. 488). Tuttavia, le ragioni che hanno indotto il legislatore a ricorrere a tale istituto sono molto differenti nei due casi in esame: infatti, nel caso dell’imputato minorenne, la finalità che si intende perseguire è limitare la permanenza dello stesso nel circuito penale e indurlo ad “attivarsi positivamente in un percorso di maturazione e cambiamento, di guisa che, rimeditando criticamente sul suo passato, si dissoci dalla scelta deviante, reinserendosi nella vita della collettività” (TABASCO, La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti, in Archivio Penale, 2015, n.1). Nel caso invece della messa alla prova dell’adulto, l’intervento del legislatore si deve inquadrare all’interno della drammatica problematica del sovraffollamento delle carceri, che ha comportato varie condanne della Corte europea dei diritti  dell’uomo per violazione dell’art. 3 della CEDU, norma che prevede: ”nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Secondo la Corte il sovraffollamento, oltre un certo limite, costituisce un trattamento inumano e degradante. L’istituto va quindi inquadrato nel più ampio ripensamento del sistema processuale e sanzionatorio, volto a favorire il ricorso a sanzioni non penali o comunque alternative alla detenzione. (V. FIORENTIN, Rivoluzione copernicana per la giustizia riparativa, in Guida dir., 2014, 21, 67).

[6] L’istituto trae origine dal “probation” del diritto anglosassone ma tuttavia assume caratteristiche particolari dato che si tratta di misura che interviene nel corso del processo e non dopo la sua conclusione, nella fase di esecuzione della pena (cfr. TABASCO, cit, p.1).

[7] TABASCO, cit., p. 4.

[8] MARANDOLA, La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in Dir. Pen. Proc., 2014, 676.

[9] Sul punto tuttavia si richiama la sentenza della Corte Costituzionale 14 aprile 1995, n. 125, la quale evidenzia, con riferimento alla sospensione per messa alla prova nel processo minorile, che “presupposto concettuale essenziale del provvedimento, connesso ad esigenze di garanzia dell’imputato, è costituito da un giudizio di responsabilità penale che si sia formato nel giudice, in quanto altrimenti si imporrebbe il proscioglimento”. (Nello stesso senso, Trib. Min. Cagliari, 5 luglio 2011). Anche la dottrina rileva che, se così non fosse, l’istituto perderebbe il carattere di misura penale per acquistare quello di misura amministrativa (cfr. LOSANA, Sub art. 28, in Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1994, p. 292; PALOMBA, sistema del nuovo processo penale minorile, Milano, 1991, 414). Con riferimento alla messa alla prova dell’imputato adulto, la dottrina mette in evidenza che tale conclusione “si desume a chiare lettere dall’art. 464 quater, co.1 cpp, laddove è previsto che la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta a meno che il giudice non ritenga di dover pronunciare una sentenza di proscioglimento ex art. 129 cpp.” (AMATO, L’impegno è servizi sociali e lavori di pubblica utilità, in Guida dir., 2014, 21, 87). Altro argomento per una lettura in tal senso si desume dalla circostanza che la messa alla prova prevede lo svolgimento di attività dirette all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti da reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno. Secondo l’Autore infatti il richiamo al reato e al pregiudizio che ne deriva richiede necessariamente un accertamento positivo della sua sussistenza e della responsabilità dell’agente. Ovviamente manca però un accertamento approfondito della responsabilità del soggetto.

[10] Tribunale di Milano, Sezione X Penale, sent. 3440/16

[11] Ad esempio, in caso di revoca per incidente stradale commesso da soggetto con un tasso alcolemico superiore ad 1,5 g/l, il Prefetto deve accertare il valore del tasso alcolemico e la sussistenza del sinistro stradale.

[12] Sul punto v. Circolare Ministero dell’Interno 04/07/2000 n. M/2413/9.

[13] Secondo la disciplina del codice precedente (D.P.R. 15 giugno 1959, n.393 – Testo unico delle norme sulla circolazione stradale), quando, nei casi più gravi, veniva disposta la revoca, non poteva poi “essere rilasciata una nuova patente” (art.91, comma 7).

[14] Vedi circolare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti n. 14549 del 18.06.2015.

[15] Si cita per tutte Tribunale di Sondrio, Ord.RG144/2016, che  ha precisato che: “…un reato può dirsi definitivamente accertato solo allorquando la pronuncia giudiziale che ne ha accertato la sussistenza acquisti efficacia di giudicato”. Da ciò consegue, secondo il detto Tribunale, che il decorso del termine di cui all’art. 219, c.3 ter, presuppone il passaggio in giudicato della pronuncia giudiziale. Il detto Tribunale ha precisato inoltre che tale interpretazione è supportata anche da ragioni logico-sistematiche. Infatti: “…poiché prima che intervenga il giudicato non vi è revoca della patente, e poiché prima che intervenga la revoca della patente non vi è necessità di conseguirne una nuova, coerenza impone che il decorso del termine per il conseguimento della nuova patente presupponga il passaggio in giudicato della pronuncia di condanna”.

[16] Tribunale Trento del 05.05.2018.

[17] Per tutte TAR Lombardia, Brescia, Ord. N.117/2016, secondo cui “La sospensione disposta dalla Prefettura è una misura cautelare, che interviene nell’immediatezza del fatto, senza le garanzie dell’accertamento in sede penale, e dunque è destinata a essere assorbita nella sospensione disposta dal giudice penale, con detrazione del periodo di tempo già scontato (v. Cass. pen. Sez. IV 24 novembre 2015 n. 48845). La medesima regola deve valere per il coordinamento tra la sospensione disposta dalla Prefettura e la revoca disposta dal giudice penale. Il tempo di inibizione collegato alla revoca può infatti essere inteso come la durata massima della sospensione. Pertanto, il cumulo di queste sanzioni non può eccedere il risultato sostanziale di quella più grave, ossia della revoca”.

[18] In particolare, in merito alla questione, il Tribunale di  Trieste con Ordinanza n. R.G. 2970/16,   ha affermato che :”Non è possibile includere nel conteggio del periodo ex art. 219, comma 3ter C.d.S. , il periodo già scontato dal  conducente a seguito della sospensione cautelare della patente di guida (cosiddetto presofferto), poiché gli istituti della sospensione e della revoca hanno una natura giuridica differente” ed ancora, il ricorso al cosiddetto presofferto “non ha …alcun senso nel caso di applicazione della sanzione accessoria della revoca”.

[19] Sulla questione del cosiddetto computo del presofferto, è intervenuto il Ministero dell’Interno che, con nota prot. 0016938 del 07.11.2016, diramata a tutte le Prefetture per competenza, ha escluso  la possibilità di tale computo in quanto “….una riduzione del periodo di divieto mediante lo scomputo del cosiddetto presofferto, oltre a non trovare riscontro letterale nel dato normativo sembra anche porsi in contrasto proprio con le finalità dissuasive perseguite dalla normativa” che ha inteso chiaramente “operare  un aggravamento degli effetti preclusivi conseguenti alla revoca della patente”.

[20] Tar Veneto, Sez.3, n.288/15; Tar Liguria, Sez.2, n.367/15.

[21] Il Tar Umbria con sentenza 28 febbraio 2018, n.134 ha nuovamente affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulle domande tese al riconseguimento della patente.

 

Avv. Brucoli Silvio

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