L’estorsione “parlata” dalla vittima del reato

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Prendendo le mosse da un caso giudiziario conclusosi con la sentenza assolutoria in commento, nel presente articolo, verrà esaminato l’istituto del reato di “estorsione”, contemplato dall’art. 629 c.p., tenendo conto, in particolare, della recentissima sentenza emessa dalla Corte Costituzionale che ha introdotto l’ipotesi di lieve entità per tale fattispecie, la cui mancanza era tale da ledere il principio di proporzionalità della pena, e verrà altresì analizzato l’aspetto dell’attendibilità soggettiva e oggettiva delle prove dichiarative derivanti dalla persona offesa, spesso poste alla base delle pronunce definitorie dei giudizi.

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Indice

Tribunale Ordinario di Roma – Sez. VI Pen. – Sent. n. 11261 del 10 luglio 2023

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1. Introduzione

L’articolo editato, nell’analizzare la fattispecie criminale di cui all’art. 629 c.p., si soffermerà sull’analisi d’un caso pratico dall’esito tutt’altro che prevedibile, quindi al commento della sentenza pronunciata recentissimamente dalla IV Sezione Penale Collegiale del Tribunale di Roma, in cui l’imputato arrestato in flagranza di reato e sottoposto a misura cautelare coercitiva ed obbligatoria del divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima, all’esito del giudizio abbreviato, veniva prosciolto con formula piena, seppur dubitativa, ex art 530 comma 2 c.p.p., poiché l’unica fonte dichiarativa sulla quale si fondava l’accusa, quella dell’asserita vittima, non è risultata attendibile.

2. Profilo storico dell’istituto

Tradizionalmente, l’estorsione trova collocazione tra i “delitti con la cooperazione artificiosa della vittima”, ossia, una sottocategoria dei “delitti contro il patrimonio”, per il cui perfezionamento, come ormai ben compreso, è necessario l’apporto del soggetto passivo, costretto nel compiere un atto pregiudizievole per il proprio patrimonio. Da un punto di vista storico, risalendo all’operato del Legislatore fascista del 1930, da un punto di vista tecnico-normativo, si è preso come riferimento la figura del reato di violenza privata [1], siglando poi in un unico articolo, il 629 c.p. per l’appunto, le due figure di estorsione contemplate dal previgente Codice Zanardelli del 1889: l’estorsione propria e la rapina di atti (ex art. 407). La norma che possiamo leggere nel Codice odierno, nonostante i numerosi interventi legislativi, rispetto all’originaria previsione contemplata del Codice Rocco, è rimasta sostanzialmente immutata nei suoi elementi costitutivi tipici. Le modifiche hanno riguardato invece l’aspetto sanzionatorio: specificatamente, a seguito del d.l. 31.12.1991, n. 419, conv. in l. 18.2.1992, n. 172 si è visto un inasprimento nel minimo edittale, la cui previsione è mutata da tre a cinque anni; anche le pene pecuniare sono state soggette ad incremento, sia quelle previste per la fattispecie base, che quelle previste per i casi di aggravante.  Dottrina e giurisprudenza sono concorde nel ritenere l’estorsione come delitto caratterizzato da un profilo di plurioffensività, dato che, nonostante la sua collocazione codicistica, è una fattispecie che prevede non solo la tutela degli interessi patrimoniali della vittima ma anche la libertà di autodeterminazione, venendo questa lesa dall’operare del soggetto agente. 

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3. Breve analisi della figura delittuosa contestata

Ora conviene prendere le mosse dalla nozione della fattispecie delittuosa in commento, pertanto, rispondere al quesito: quando può dirsi che si è di fronte ad una azione umana che giustifica la necessaria punibilità per estorsione nell’ambito dell’ordinamento nazionale? Ebbene, alla domanda può darsi risposta, evidentemente, attraverso l’analisi dell’art. 629 c.p.,secondo cui, come noto: ”(1)Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000. (2) La pena è della reclusione da sette a venti anni e della multa da euro 5.000 a euro 15.000, se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente”.
Il primo comma della disposizione in esame, chiarisce innanzitutto che si tratta di un reato comune, potendo essere commesso da un qualunque soggetto (“chiunque”). L’unica eccezione, non espressamente indicata ma che merita indubbio accenno, è legata al caso in cui a commettere il reato sia un soggetto con qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, il quale, abusando delle proprie qualità o funzioni, pone in essere il diverso reato previsto e punito dall’art. 317 c.p., quello cioè di concussione. Per quanto riguarda le modalità attraverso cui si estrinseca il reato di estorsione, deve necessariamente sussistere una “costrizionerealizzata con “violenza o minaccia: queste ultime devono essere serventi al concretizzarsi della costrizione, in quanto, in caso contrario, la mancata connessione eziologica e strumentale tra volenza/minaccia e costrizione farebbe configurare una semplice induzione. Con specifico riferimento al concetto di “violenza”, come condotta rilevante in termini costitutivi della fattispecie, la norma prevede che la volontà della vittima non debba essere coartata in maniera totale, dato che la completa coercizione determinerebbe il verificarsi del ben più grave delitto della rapina, descritto compiutamente dall’articolo 628 c.p. La “minaccia” invece, altro non è che il prospettare, da parte dell’agente, un male ingiusto e notevole, indifferentemente posto, in maniera esplicita o implicita, purché sia tale, sempre e comunque, da coartare la volontà del soggetto minacciato. Passando all’oggetto materiale verso cui la condotta appena analizzata può direzionarsi, si pone in evidenza l’oggetto materiale immediato, ovvero, la persona soggetta a violenza o minaccia, e l’oggetto materiale mediato, ovvero, qualunque bene che il soggetto agente vuole conseguire in termini di utile.  L’utilità in questione deve essere tale da determinare “un ingiusto profitto” per taluno (“sé o ad altri”), “con altrui danno. Il profitto può esser caratterizzato da vantaggi di diversa natura, mentre il danno cagionato deve essere esclusivamente attinente al profilo patrimoniale. Per quanto attiene il lato psicologico, in capo all’agente è richiesto il dolo generico, inteso come coscienza e volontà di costringere un’altra persona, con l’ausilio di violenza o minaccia, al compimento di atti di disposizione consistenti nel dare, fare o non fare a proprio danno, con conseguente produzione di profitto ingiusto per il minacciante stesso o altri. Il soggetto passivo invece, dovrà avere un margine di autodeterminazione, tale cioè da poter decidere se cedere all’estorsione o meno. Al secondo comma dell’articolo 629 c.p. si fa espresso richiamo alle aggravanti previste anche per il reato di rapina, il cui verificarsi comporta un inasprimento della pena detentiva e della multa (da 6 a 20 anni di reclusione, con multa da 5.000 a 15.000 euro, nettamente superiore rispetto alla pena base prevista, da 5 a 10 anni di reclusione, con multa da 1.000 a 4.000 euro):
se la violenza o minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite;
se la violenza consiste nel porre taluno in stato d’incapacità di volere o di agire;
(o) se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’articolo 416 bis;
se il fatto è commesso nei luoghi di cui all’articolo 624 bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa;
se il fatto è commesso all’interno di mezzi di pubblico trasporto;
– se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro;
se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne.
Diverso è il caso, comunque da menzionare per maggiore completezza, del “tentativo di estorsione”, il quale si verifica quando il soggetto agente pone in essere le azioni tipiche che determinano il configurarsi del delitto di estorsione, senza però riuscire nel conseguimento del profitto per sé o altri a danno della vittima. Perciò, può dirsi che l’attività criminosa si arresta ma non per volontà dell’agente! La Suprema Corte si è espressa a riguardo, affermando che una condotta ritenuta idonea all’integrazione del reato di estorsione e quindi tale da determinare la coazione del soggetto passivo, in mancanza del verificarsi dell’evento finale, integra perfettamente il caso di “tentativo”. È prevista comunque la punibilità ma con una pena meno severa, diminuita da un terzo a due terzi [2].

4. La Cassazione sull’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa

Da prendere in considerazione, a corollario dell’argomentazione che si sta sviluppando, è il tema immediatamente consequenziale dell’attendibilità, intrinseca ed estrinseca, di quanto dichiarato della parte lesa da un reato.
Fino a che punto è possibile considerare indiscutibilmente ed oggettivamente vera, nonché autonomamente valida, la parola di chi abbia tutto l’interesse, patrimoniale e non, di accusare e ottenere la punizione dell’autore del reato? [3] Ebbene, stando all’orientamento giurisprudenziale prevalente, la prova dichiarativa discendente dalla figura del querelante, persona offesa, parte civile, testimone, anche se priva di riscontri esterni, può determinare la pronuncia di una sentenza di condanna dell’imputato. Sul punto in questione, sono gravitanti diversi dibattiti, in quanto, alcuni aspetti focali che disciplinano il processo penale, specificatamente, la “presunzione di non colpevolezza dell’imputato” fino alla pronuncia di una sentenza definitiva e il principio del “giusto processo” da svolgersi “nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità”, contemplati rispettivamente nell’art. 27 e 111 della Costituzione, potrebbero entrare in crisi dal momento in cui, in circostanze di conflitti più o meno aspri tra parte offesa e imputato, l’esito del processo venga rimesso interamente nelle mani della prima, considerata parte “preferita” rispetto alla seconda [4]. È logico e indiscutibile il fatto che la prova dichiarativa derivante dalla persona offesa, tutt’altro che super partes nel processo in cui è a suo mal grado invischiata, avrà una valenza diversa rispetto a quanto potrebbe essere dichiarato da un normale testimone non coinvolto in prima persona [5]. Merita pertanto il calzante richiamo a quanto affermato dalla Cassazione penale, Sez. III, 15/09/2015, (ud. 15/09/2015, dep. 19/10/2015), nella Sentenza  n. 41853: “ il Giudice deve in primo luogo verificare la credibilità del dichiarante, valutando la sua personalità, le sue condizioni socio-economiche e familiari, il suo passato, […]; in secondo luogo, deve verificare l’attendibilità delle dichiarazioni resevalutandone l’intrinseca consistenza e le caratteristiche, avendo riguardo, tra l’altro, alla loro spontaneità ed autonomia, alla loro precisione, alla completezza della narrazione dei fatti,  alla loro coerenza e costanza”. Ciò significa che, al fine di porre la deposizione della persona offesa alla base della dichiarazione di colpevolezza dell’imputato, questa dovrà essere valutata con le dovute cautele [6]; infatti, l’analisi in merito alla credibilità soggettiva [7] della persona offesa e alla valutazione dell’attendibilità intrinseca [8] del suo narrato, dovranno essere oggetto di un vaglio ben più approfondito rispetto a quello che sarebbe necessario attivare per un qualsiasi altro testimone [9], proprio in virtù della natura dei personali e antagonistici interessi che la muovono. Il rigore dovrà essere tanto più deciso quando vi è anche costituzione di parte civile. Il Giudice ha il dovere di rendere comunque esplicito l’iter logico e giuridico che ha condotto alla soluzione adottata. Va anche da ultimo ribadito, che i risconti esterni al narrato sono meramente “eventuali”, ciò ad ulteriore conferma della tesi sostenuta dai Giudici di legittimità [10]: quanto dichiarato dalla persona offesa deve poter essere, da solo, posto alla base del riconoscimento di responsabilità dell’imputato, previo indispensabile espletamento delle operazioni di valutazione nei termini fin ora illustrati [11].

5. Ordinanza d’incostituzionalità sull’assenza del fatto per lieve entità per l’ipotesi estorsiva

Recentissima è la sentenza n. 120 depositata il 15 giugno 2023, nella quale, la Corte Costituzionale ha affermato l’illegittimità costituzionale dell’art. 629 c.p. per violazione degli artt. 3 e 27, comma terzo, Cost., specificatamente, “nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”. La Corte ha ritenuto evidente la violazione del principio di ragionevolezza e finalità della pena, in quanto: “la mancata previsione di una ‘valvola di sicurezza’ che consenta al giudice di moderare la pena, onde adeguarla alla gravità concreta del fatto estorsivo, può determinare l’irrogazione di una sanzione non proporzionata ogni qual volta il fatto medesimo si presenti totalmente immune dai profili di allarme sociale che hanno indotto il legislatore a stabilire per questo titolo di reato un minimo edittale di notevole asprezza”. La mancata previsione di un’attenuazione del trattamento sanzionatorio per i fatti di lieve entità, incide dunque, fortemente, sul principio di proporzionalità della pena. La fattispecie estorsiva, in particolare, così come evidenziato dalla stessa Corte, ha subito un inasprimento del regime di punibilità per effetto della L. 18 febbraio 1992, n. 172, vedendo un incremento da tre a cinque anni del minimo edittale applicabile alla circostanza base e la conseguente impossibilità per l’autore del reato in esame, di accedere al beneficio della sospensione condizionale della pena, anche quando il fatto posto concretamente in essere sia avulso da circostanze aggravanti o sia caratterizzato da particolare tenuità del danno patrimoniale e del lucro. Sono state dunque ritenute fondate le questioni sollevate sia dal Tribunale di Roma che dal Tribunale di Firenze: la severità del minimo edittale della pena, pari a cinque anni di reclusione, impedisce di applicare una congrua punizione in caso di modesto disvalore della condotta, determinando così una sproporzione in eccesso della sanzione non coincidente con la finalità rieducativa della pena. Sarebbe dunque intrinsecamente irragionevole non contemplare un’attenuante di lieve entità per il reato in esame. La Corte, ponendosi perfettamente in linea con tali censure, richiama la Sentenza n. 68/2012, pronunciata dal medesimo organo costituzionale, nella quale è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 630 c.p. per identiche questioni. Decisivo è stato dunque il confronto con tale reato di “sequestro di persona a fini estorsivi”, rispetto al quale risulta esserci un’evidente affinità oggettiva nonché evolutiva del regime sanzionatorio, per cui, è risultata doverosa, per entrambe le fattispecie, l’applicazione della medesima “valvola di sicurezza” [12].

6. Dall’arresto in flagranza ad una tardiva revocatoria di condanna: una coraggiosa pronuncia

Il Tribunale Ordinario di Roma ha recentemente affrontato un caso di particolare interesse, relativo alla valutazione della sussistenza o meno della fattispecie estorsiva, che verrà subito di seguito descritto: l’imputato, si è trovato coinvolto, dopo essere stato denunciato ed immediatamente arrestato in flagranza, con tempestiva convalida del giudice della direttissima,  in un procedimento penale in quanto accusato del reato previsto dall’art. 629, 1° comma, c.p. con l’aggravante prevista al punto 5 dell’art. 61 c.p. (tra le “Circostanze aggravanti comuni”, il riferimento è all’ “avere profittato di circostanze di tempo, luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”). Il prefato avrebbe posto in essere atti violenti, consistiti nello strattonare e nel prendere a schiaffi in volto la vittima, con l’aggiunta di minacce di gravi lesioni personali, al fine di costringere la stessa a recarsi presso uno sportello Bancomat e prelevare la somma di 150 euro. La vicenda prende le mosse dalla denuncia sporta da parte della vittima, ossia la donna con la quale l’imputato ha intrattenuto una relazione sentimentale: questa, dirigendosi verso una pattuglia di personale operante, una volta scesa precipitosamente dalla propria autovettura, asseriva esser stata vittima di estorsione di 150 euro da parte dell’uomo che sedeva accanto a lei, sul sedile anteriore del veicolo, e proseguiva affermando di essere affetta da disturbo della personalità di tipo misto-obesità, sindrome comiziale con crisi parziali in trattamento farmacologico. Dal verbale di polizia emergeva però che la stessa donna si era precedentemente accordata con l’imputato per la fissazione di un incontro, finalizzato alla cessione da parte sua di una somma di denaro pari a 40 euro, da intendersi come libera offerta di aiuto all’ex compagno. Stando sempre al narrato della denunciante, una volta incontrati, l’imputato avrebbe preteso una somma di denaro ben più considerevole, pari a 250 euro e, a fronte del diniego a tale richiesta, l’uomo avrebbe dato in escandescenza, colpendo la macchina e operando violenza nei suoi confronti, forzandola in questo modo a prelevare degli ulteriori contanti presso uno sportello Bancomat. Dei 200 euro che la donna ha ritirato, nel rientrare in macchina, ne avrebbe consegnati al precedente compagno, dapprima solo 150, per poi cedere anche l’ultima banconota da 50 euro a causa delle ulteriori pressioni avanzate. Poco dopo la consumazione di tale accaduto, una volta messasi di nuovo alla guida, la donna ha incrociato gli operanti in servizio di pattugliamento e ha esposto loro la dinamica della circostanza, così come appena descritta.
Concentrandoci ora sulla ricostruzione dei passaggi logici che hanno portato all’assoluzione dell’imputato ex art. 530, comma 2, c.p.p., il Tribunale ha correttamente individuato alcuni elementi e circostanze di manifesta criticità nel narrato della donna: è ben possibile, in maniera dissimile a quanto descritto nell’imputazione in merito alle modalità dell’accaduto, che la cessione delle banconote sia avvenuta senza forzature, e dunque in maniera del tutto spontanea, sulla scorta della precedente relazione sentimentale intercorsa tra le parti contrapposte nel suddetto procedimento e per il fatto che vi fosse stata una manifesta disponibilità della donna nel corrispondere a titolo di prestito una somma di denaro all’uomo, anche se in misura contenuta. Inoltre, può escludersi che vi sia stata una perseverante condotta aggressiva, così come rappresentato dalla denunciante, in seguito alla presunta forzata consegna delle prime tre banconote da 50 euro (per il totale dei sopramenzionati 150 euro) per poter ricevere anche l’ultimo contante, in quanto solo tre banconote, delle quattro asseritamente prelevate, sono state rinvenute nella concreta disponibilità dell’uomo. Dato che la condotta estorsiva si sostanzia nel ricorso alla forzatura della vittima a scelte obbligate, riassumibili nelle due alternative di “soggiacere alle altrui pretese” o “il subire”, pena “un pregiudizio diretto e immediato” (così come opportunamente riportato nella sentenza n. 47100 del 28 ottobre 2021, Sez. II), nel caso di specie, vista la pacifica attesa in macchina del congetturato estorsore nel cruciale momento del prelievo, in quale frazione dell’intero episodio può ravvisarsi la coazione della donna? Può dunque ritenersi che il narrato della stessa sia caratterizzato da una sufficiente attendibilità oggettiva? Può ritenersi Ella stessa una dichiarante credibile? Questi sono i decisivi interrogativi che il Collegio si è posto per escludere che, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sussistenza di una minaccia tale da aver inciso sull’autodeterminazione della vittima, l’imputato è stato assolto perché “il fatto non sussiste”.

7. Considerazioni conclusive

Oltre la vicenda giurisdizionale in sé, da cui si è preso spunto per una disamina dell’istituto, passando per la sentenza additiva della Corte costituzionale che ha introdotto come evocato sopra la fattispecie di lieve entità anche nel caso di estorsione, sono le sfumature ed i contorni non sempre nettamente delineati nel merito dei fatti processuali, i quali ostano ad una semplice riduzione di talune condotte umane al modello criminale di cui all’art. 629 c.p., in cui la cooperazione della vittima, come già dedotto, molto più spesso di quanto non possa ad una superficiale analisi apparire, a volte può scriminare il comportamento dell’asserito autore, se ed in quanto lo stesso ha agito con la consapevolezza di aver ottenuto lecitamente il consenso dell’avente diritto, il quale, a sua volta, evidentemente non può ex post revocarlo al proprio interlocutore, solo in quanto resipiscente rispetto a proprie deliberate scelte, al prezzo dell’incriminazione del prefato.
Per fare un banale parallelismo, proprio come accade per chi al fine di evitare il pagamento di un costo ontologicamente ingiusto, denuncia smarrito il titolo di credito sul quale l’importo è tratto, non di meno rispondendo del reato di calunnia, in quanto l’ingiustizia sia pure obbiettiva del pagamento non elide la volontà non coartata dell’azione, nel nostro esempio la ratifica dell’assegno, come nel caso in narrativa la deliberata, più probabile che non, dazione di denaro al presunto estortore poi prosciolto.

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Note

  1. [1]

    L’estorsione si discosta dal delitto di violenza privata in quanto, quest’ultima prevede, oltre al “fare o all’omettere”, anche il mero “tollerare” qualcosa da parte della vittima e ne rappresenta l’evento conclusivo del reato; nel caso dell’estorsione invece, questi si intendono come eventi intermedi e strumentali per il diverso evento finale rappresentato dall’ingiusto profitto a danno della vittima.

  2. [2]

    Brocardi, sull’art. 629 c.p., aggiornato al 21 giugno 2023.

  3. [3]

    M.T. CULTRERA, “Attendibilità della persona offesa”, 8 marzo 2022

  4. [4]

    M. MUSOLINO, “La testimonianza della persona offesa. Necessario il vaglio della credibilità ed attendibilità”, 10 febbraio 2021

  5. [5]

    Canestrini Lex, D. PASSARO, “Verità processuale, ragionevole dubbio e dichiarazioni della persona offesa”, 16 novembre 2020

  6. [6]

    G. FAILLACI, “Il valore probatorio delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato nel processo penale”, 19 luglio 2021

  7. [7]

    Quando si parla di “credibilità soggettiva” si fa riferimento ad una forma di valutazione, operata dal Giudice, in merito al possibile inquinamento del narrato a causa dell’esistenza di particolari situazioni personali del soggetto dichiarante, tali da poterne falsare, anche in maniera inconsapevole, la genuinità.

  8. [8]

    Quando si parla di “attendibilità intrinseca”, si fa riferimento all’idoneità del racconto di offrire una rappresentazione degli eventi accaduti in maniera logica e coerente.

  9. [9]

    Cfr. pronunce recenti: Corte d’Appello di Taranto, 10/01/2022, n.919; Tribunale Pescara, 12/01/2022, n.3087; Cassazione Penale, Sez. 3, 19 ottobre 2020, n. 28837/2020.

  10. [10]

    L’orientamento nomofilattico, altresì, sostiene la tesi secondo la quale le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, c.p.p. non si applicano al dichiarato della persona offesa, fermo restando la valutazione soggettiva ed oggettiva rispettivamente della persona e del narrato, sorretto il tutto da idonea motivazione.

  11. [11]

    Cfr. Cassazione, Sez. I, Sentenza n. 13016/2020

  12. [12]

    S. CORBETTA, Il Quotidiano Giuridico, “Riduzione di pena se l’estorsione è di lieve entità”, 19 giugno 2023

Ivano Ragnacci

Paola Casale

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