Esclusione da elenchi provinciali per il conferimento di supplenze personale ATA (Cons. Stato n. 1308/2012)

Petrini Laura 20/09/12

 

Massima

Con la sentenza n. 1308 resa in data 8 marzo 2012 il Consiglio di Stato ha confermato la decisione di primo grado che rigettava il ricorso presentato da un lavoratore contro il provvedimento del Ministero della Pubblica Istruzione che lo dichiarava decaduto dai benefici ottenuti in forza di dichiarazione non veritiera, presentata in sede di domanda finalizzata all’ottenimento dell’incarico di supplenza, con la conseguente esclusione dagli elenchi provinciali per il conferimento delle supplenze al personale ATA e dal concorso per soli titoli di cui all’art. 554 D.Lgs. n. 297 del 1994 per difetto del requisito di servizio ritenuto che il servizio prestato era da considerarsi come prestazione di mero fatto.

 

La sentenza qui scrutinata, pur affrontando argomenti non nuovi, tratta di questioni meritevoli di analisi sia sotto il profilo procedurale, sia sotto quello del merito.

 

Interessante, innanzitutto, è la questione relativa all’eccezione di difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo, in favore di quello ordinario, sollevata per la prima volta nel grado del gravame dall’appellante il quale ha affermato che la materia trattata, ossia la cognizione la cognizione relativa all’inserimento o all’esclusione in graduatorie preordinate all’assunzione di soggetti in possesso dei requisiti predeterminati, apparterrebbe a quest’ultimo.

L’eccezione de qua è stata esaminata dal Consiglio di Stato sotto diversi aspetti.

In primo luogo il Collegio ne ha sentenziato l’inammissibilità rilevando come la stessa non sia sollevabile dalla parte che vi ha dato causa in quanto, ragionando in senso contrario, si andrebbero a violare i principi di correttezza e di affidamento che modulano il diritto di azione e significherebbe, in caso di domanda proposta a giudice carente di giurisdizione, attribuire alla parte la facoltà di ricusare la giurisdizione a suo tempo prescelta, in ragione dell’esito negativo della controversia (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 656 del 07/02/2012, in Massima redazionale, 2012).

In sostanza, ove fosse riconosciuto alla parte processuale la possibilità di scegliere il giudice di primo grado per poi disconoscerlo e contestarlo in appello, a seconda dell’esito del giudizio di primo grado, si andrebbe ad avallare un vero e proprio abuso del diritto, in violazione dell’art. 2 della Costituzione e dell’art. 1175 c.c., in quanto si consentirebbe un uso alterato dello schema formale del diritto, finalizzato al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli individuati dal Legislatore.

Il Consiglio di Stato, poi, non si è voluto esimere dall’affrontare il merito dell’eccezione sviluppando un ragionamento dicotomico: ha confermato l’overulling della giurisprudenza amministrativa che ha riconosciuto la competenza del giudice ordinario per le questioni relative all’inserimento o all’esclusione in graduatorie preordinate all’assunzione di soggetti in possesso dei requisiti predeterminati ed ha riaffermato come i mutamenti degli indirizzi giurisprudenziali, interpretativi delle norme che individuano la giurisdizione, non possono andare ad incidere sulla regola della perpetuatio iurisdictionis fatta propria dall’art. 5 c.p.c. (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 2228 del 10/04/2009, in Massima redazionale, 2009).

Riguardo al dibattito sulla competenza del giudice ordinario per le controversie attinenti all’inserimento o all’esclusione in graduatorie preordinate all’assunzione di soggetti in possesso di requisiti predeterminati il Collegio ha affermato che la questione è ormai superata alla luce di quelle pronunce della Corte di Cassazione (cfr. T.A.R. Campania Napoli, Sez. IV, n. 228 del 20/01/2010, in Massima redazionale, 2010; cfr. Cass. civ., SS.UU., n. 14529 del 29/09/2003, in Massima redazionale, 2003) che hanno rilevato come la posizione degli insegnanti nelle graduatorie non sia una vera e propria procedura concorsuale, per la quale sola vale la regola residuale della giurisdizione del Giudice Amministrativo, ma, è un atto gestorio del datore di lavoro pubblico a fronte di una già avvenuta instaurazione del rapporto di pubblico impiego; per cui, non può che affermarsi la giurisdizione ordinaria.

Nell’accertamento della giusta posizione o collocazione nella graduatoria permanente o ad esaurimento degli insegnanti, poi, vengono presi in considerazione atti che rientrano nell’ambito di quelle determinazioni assunte con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato, di fronte ai quali sussistono solo diritti soggettivi a che gli atti di gestione della graduatoria utile per l’eventuale assunzione siano conformi a legge. L’assenza di un bando, di una procedura di valutazione e, soprattutto, dell’atto di approvazione, colloca l’ipotesi in esame fuori della fattispecie concorsuale e comporta che sia il Giudice Ordinario a tutelare la pretesa all’inserimento e alla collocazione in graduatoria (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 11 del 12/07/2011, in Massima redazionale, 2011; cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 5885 del 07/11/2011, in Massima redazionale, 2011; cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 5595 del 18/10/2011, in Massima redazionale, 2011; cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 1537 del 10/03/2011, in Massima redazionale, 2011).

La giurisdizione del giudice amministrativo, pertanto, si estende fino all’approvazione della graduatoria dei vincitori e degli eventuali idonei mentre resta esclusa per le vicende successive, anche se relative ad assunzioni deliberate mediante lo scorrimento della graduatoria (cfr. T.A.R. Lazio Roma, Sez. II bis, n. 8828 del 19/09/2006, in Massima redazionale, 2006; cfr. T.A.R. Lazio Roma, Sez. III ter, n. 7675 del 29/07/2009, in Massima redazionale, 2009).

Per quanto riguarda, invece, l’aspetto della perpetuatio iurisdictionis, i Giudici d’appello hanno chiarito che il principio de quo viene utilizzato per risolvere la questione relativa alla sorte del processo instaurato ritualmente di fronte al giudice competente, nel caso in cui gli elementi, sulla base dei quali detto giudice era stato individuato, subiscano delle modificazioni.

Se la giurisdizione e la competenza si determinano con riferimento alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, per cui i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo sono privi di qualsivoglia rilevanza in quanto ad incidervi sono solo i sopravvenuti mutamenti legislativi e non gli indirizzi della giurisprudenza e ciò al fine di evitare di vincolare il giudice al precedente giurisprudenziale e di limitare il diritto di difesa nella prospettazione di una diversa interpretazione.

Fino alla riforma operata dalla L. n. 353 del 1990, il processo era sensibile ai soli mutamenti dello stato di fatto esistenti al momento della proposizione della domanda. Con il richiamato intervento legislativo, si è ampliato il contenuto precettivo dell’art. 5 c.p.c. estendendolo anche ai mutamenti della “legge vigente” al momento di proposizione della domanda. Naturalmente, l’operatività di questo ampliamento è residuale, limitata cioè alle ipotesi in cui la legge modificativa della competenza non prevede alcuna disposizione transitoria sul punto.

La giurisdizione, quindi, si determina in relazione allo stato di fatto e di diritto esistenti al momento della proposizione della domanda in giudizio, rilevando solo quei successivi mutamenti normativi che comportano la sopravvenuta giurisdizione del giudice che ne era privo al momento della domanda (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 3892 del 30/06/2011, in Massima redazionale, 2011).

Oltre a ciò il Collegio ha osservato pure che, se in primo grado il difetto di giurisdizione può essere rilevato anche d’ufficio, nei giudizi di impugnazione, invece, deve formare oggetto di uno specifico motivo d’appello. Diversamente, in difetto di un siffatto “specifico motivo”, si intende che la parte interessata a sollevare la carenza di giurisdizione vi ha fatto acquiescenza con la conseguenza che, sul punto, implicitamente si è formato il c.d. giudicato interno, valido anche per il processo amministrativo (cfr. per tutte, per il processo civile, Cass., SS.UU., 9 ottobre 2008, n. 24883).

In base all’art. 9 c.p.a. (introdotto con il D.Lgs. n. 104 del 2010), infatti, è venuta meno la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione in grado di appello, incombendo sulla parte interessata l’onere di sollevare la questione con apposito motivo di appello, pena l’irrilevanza della semplice eccezione formulata in memoria (cfr. Riforma della sentenza del T.a.r. Calabria – Catanzaro, sez. I, n. 1250/2001; cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 6147 del 22/11/2011, in Massima redazionale, 2011; cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 1415 del 13/03/2012, in Massima redazionale, 2012). La previsione contenuta nell’art. 9 c.p.a., quindi, va ad assumere un duplice contenuto precettivo, posto che, da un lato preclude al Giudice d’impugnazione di rilevare il difetto di giurisdizione non eccepito da alcuna parte processuale, dall’altro lato, pone in capo alle parti l’onere di far valere il difetto giurisdizionale mediante la proposizione di uno specifico motivo di gravame. La questione di giurisdizione in secondo grado, dunque, non è più considerata una condizione dell’azione che il giudice può indagare d’ufficio ma rappresenta, invece, una vera e propria eccezione di parte in senso tecnico per cui, l’eventuale difetto dello specifico motivo di appello viene interpretato come acquiescenza dalla parte che aveva l’interesse e l’onere di sollevare la carenza di giurisdizione (cfr. per tutte, per il processo civile, Cass., SS.UU., 9 ottobre 2008, n. 24883).

 

Nel merito la sentenza in commento affronta un problema intrigante ossia, quello dell’espletamento dell’attività lavorativa fondata su una dichiarazione non veritiera e, quindi, in assenza dei necessari requisiti richiesti dalla legge.

Accertato il falso, quindi, si tratta di capire se la prestazione effettuata dal lavoratore sia da considerare di fatto o di diritto.

I giudici di primo grado e d’appello l’hanno qualificata come “di fatto”!

Punto di partenza è l’art. 2126 c.c., il cui precetto garantisce al lavoratore la titolarità dei diritti nascenti da un contratto invalido e da un rapporto che ne scaturisce per effetto della sua esecuzione.

La norma de qua, è pacifico, non parifica il rapporto di lavoro invalido a quello valido, né regola lo svolgimento di un rapporto in atto ma, disciplina unicamente gli effetti già prodottisi di un rapporto di fatto, riconoscendogli efficacia limitatamente al periodo in cui ha avuto attuazione ed evitando, così, che la portata retroattiva della pronuncia di nullità del contratto di lavoro possa incidere sulla prestazione lavorativa già resa. Ed è altresì pacifico che esulano dalla previsione di cui all’art. 2126 c.c., quelle pretese del lavoratore che, presupponendo la validità del rapporto, tendano alla sua conservazione, o alla sua costituzione di un contratto individuale di lavoro (cfr. Cass. Civ., n. 685 del 24/01/1987, in Foro It., 1988, I, 220).

Nel rapporto di pubblico impiego, la locuzione “prestazione di fatto” assume una pluralità di significati in quanto a volte, indica le prestazioni di lavoro che sono state rese dal lavoratore sulla base di un contratto nullo o successivamente annullato, altre volte viene impiegata per indicare l’esecuzione di prestazioni non riconducibili al rapporto di lavoro per difetto di uno degli elementi indispensabili per la produzione degli effetti tipici dell’atto cui si ricollega la nascita del rapporto di lavoro, altre volte ancora viene utilizzata per indicare le prestazioni lavorative diverse o difformi dall’oggetto principale dell’obbligazione. È evidente, però, ed è quello che conta a prescindere dai vari dibattiti teorici che ne sono scaturiti, che l’espressione “prestazione di fatto” coincide con quella di “rapporto di fatto”; e, come tale, è priva di rilevanza giuridica (Alì, Le prestazioni di fatto nel Pubblico Impiego, in Le prestazioni di fatto nel rapporto di lavoro con le USL, Atti del Convegno di Catania, Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro, 19/20.10.1990, Milano, 1992, 11).

Il disposto di cui all’art. 2126 c.c. rileva, quindi, per le prestazioni di fatto di cui si discute, anche nell’ambito del rapporto di impiego pubblico e con la stessa ratio cui si ispira la disciplina codicistica, vale a dire per la tutela del lavoratore in tutte quelle ipotesi nelle quali, pur non disconoscendosi che siano state rese prestazioni lavorative, il diritto alla retribuzione incontrerebbe un ostacolo nella disciplina generale delle nullità o degli effetti che di norma conseguono all’annullamento dell’atto costitutivo del rapporto. L’art. 2126 c.c., anche nel rapporto di pubblico impiego, pertanto, viene in rilievo nell’ipotesi di prestazioni rese ma non retribuite o meglio per la materiale attività lavorativa espletata da un soggetto sulla base di un titolo nullo o annullato con ciò derogando al principio in base al quale una pretesa può essere sostenuta in sede giurisdizionale solo se il titolo su cui essa si fonda è valido ed efficace e garantendo a colui, che verosimilmente ha trovato la sua fonte di sussistenza nel rapporto stesso, il pagamento degli emolumenti e dei contributi, come se non esistesse la ragione di nullità dell’atto di assunzione (cfr. Cons. Stato, n. 277 del 11/03/1998, in Foro Amm., 1998, 758; cfr. Cons. Stato, n. 1462 del 21/10/1995, in Foro Amm., 1995, 2214; cfr. Cons. Stato, n. 1705 del 12/04/2007, in Massima redazionale, 2007; cfr. Cons. Stato, n. 6352 del 24/10/2006, in Massima redazionale, 2006; cfr. Cons. Stato, n. 5062 del 30/08/2006, in Massima redazionale, 2006; cfr. Cons. Stato, n. 5295 del 18/09/2003, in GI, 2004, 1, 184).

Da tutto ciò consegue che il rapporto in concreto svolto può essere solo fonte dei diritti di carattere retributivo tipici dell’impiego pubblico ex art. 2126 c.c. ma non è valutabile agli ulteriori fini della carriera poiché non è fondato su un titolo valido (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 1887 del 08/04/2002, in Foro Amm. CDS, 2002, 959).

La nullità dell’atto costitutivo del rapporto di pubblico impiego, infatti, non impedisce che l’attività materialmente svolta possa essere configurata come mero atto con le conseguenze di cui all’art. 2126 c.c. che pone una vera e propria fictio iuris di sussistenza del rapporto medesimo al fine di garantire al lavoratore l’erogazione della retribuzione e delle competenze accessorie per il periodo di effettiva prestazione dell’attività senza, però, produrre, come già detto, ulteriori effetti giuridici (cfr. Cons. Stato, n. 4477 del 13/07/2006, in Massima redazionale, 2006; cfr. Cons. Stato, n. 51 del 18/01/1996, in Foro Amm., 1996, 108) quali ad esempio, i benefici spettanti ai soli dipendenti di ruolo (cfr. Cons. Stato, n. 377 del 06/03/1998, in Foro Amm., 1998, 655; cfr. Cons. Stato, n. 390 del 11/04/1996, in Foro Amm., 1996, 1213).

 

Il Consiglio di Stato, infine, nel respingere l’ulteriore doglianza del lavoratore che aveva dedotto il difetto di motivazione del decreto di esclusione (qualificato come provvedimento di autotutela) per mancata indicazione delle ragioni di interesse pubblico a suo sostegno, ha rilevato come il decreto impugnato configuri un’ipotesi di decadenza automatica dai benefici conseguiti prevista direttamente dalla legge. Ed ha aggiunto che anche a voler considerare il decreto impugnato quale provvedimento di autotutela, cosa che non è, l’interesse all’esercizio dell’autotutela è “in re ipsa”, identificandosi nella cessione della produzione di ulteriori effetti contra legem e nell’interesse al ripristino della legalità e alla tutela degli altri aspiranti alla utile posizione in graduatoria pregiudicati dall’inserimento di soggetti privi dei necessari requisiti.

Se è vero, infatti, che le graduatorie per il conferimento di supplenze acquistano il carattere della definitività una volta decorso il termine per provvedere sui reclami proposti avverso graduatorie provvisorie, ciò non implica che le stesse acquistano il carattere della irretrattabilità e che non ammettano, in base ai principi generali, l’esercizio del potere di autotutela. Il comportamento non corretto del dichiarante non può, infatti, determinare il formarsi di posizioni irretrattabili e insuscettibili di essere incise dall’amministrazione scolastica, considerato sia il pregiudizio causato ad altri aspiranti all’incarico collocati nella relativa graduatoria e derivante dal mantenimento dell’illegittimo vantaggio in favore del ricorrente sia l’obbligo per il CSA di accertare il possesso, allo stato, dei requisiti necessari ai fini dell’ammissione al concorso. Accertata la falsità della dichiarazione e la conseguente mancanza dei requisiti richiesti, il CSA è tenuto, quindi, ad adeguare il provvedimento amministrativo al quadro normativo di riferimento mediante il ripristino della legalità violata (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 995 del 03/07/1995, in Foro Amm., 1995, 1503; cfr. Cass. Pen., Sez. V, n. 7108 del 15/12/2010, in CED Cassazione, 2011).

Il decreto impugnato, comunque, come detto, è stato qualificato dal giudice quale decadenza automatica dai benefici conseguiti, prevista direttamente dalla legge ex art. 75 D.P.R. n. 445 del 2000 e non come provvedimento di autotutela.

A tal riguardo, va rilevato come in materia di concorsi a pubblici impieghi, la erronea indicazione in ordine al possesso di un titolo, in realtà non posseduto, determina la decadenza dalla formata graduatoria concorsuale; diversamente, la mancanza di un titolo di preferenza, che non rileva ai fini dell’ammissione al concorso, comporta la non valutazione dello stesso e non la pena della decadenza. In tal senso, invero, la norma di cui all’art. 75, D.P.R. n. 445 del 2000 espressamente dispone che qualora dall’effettuato controllo in ordine alle dichiarazioni fornite dagli aspiranti impiegati pubblici emerga la non veridicità di quanto dichiarato, l’interessato decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera. Se la dichiarazione non veritiera ha assunto rilevanza ai fini dell’ammissione al concorso, la conseguenza naturale è, pertanto, la decadenza dalla graduatoria già formata, previa sussistenza del nesso di causalità tra la dichiarazione stessa e l’attribuzione del beneficio (cfr. T.A.R. Sardegna, Sez. II, n. 1253 del 09/07/2009, in Massima redazionale, 2009).

L’art. 75 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, pertanto, nel prevedere la “decadenza” dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione riscontrata come non veritiera in sede di controllo postumo, fa riferimento ad un provvedimento di “decadenza” inteso come esclusione – anche ex post – dalla graduatoria e, perciò, come atto strettamente vincolato e formale; e, in quanto tale, non sottoposto alla ponderazione di interessi tipici dei provvedimenti di annullamento d’ufficio o al riscontro della “consapevolezza” della falsità dei documenti da parte del soggetto che li ha prodotti (cfr. T.A.R. Lazio Roma, Sez. III bis, n. 3899 del 25/05/2006, in Massima redazionale, 2006; cfr. T.A.R. Lazio, Sez. I, n. 383 del 19/01/2004, in Giornale Dir. Amm., 2004, 4, 427; cfr. T.A.R. Puglia Lecce, Sez. II, n. 6300 del 18/11/2002, in Foro Amm. TAR, 2002).

Ne discende, dunque, la non necessarietà dell’obbligo di motivare sull’interesse pubblico all’annullamento nel caso di una situazione non ancora consolidata e, comunque, in caso di controllo dell’autodichiarazione ai sensi del D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445, che all’art. 75 individua espressamente, nella decadenza dai benefici conseguiti e quindi nell’annullamento dell’aggiudicazione, la sanzione per le dichiarazioni non veritiere (cfr. T.A.R. Puglia Lecce, Sez. II, n. 1657 del 06/05/2002, in Foro Amm. TAR, 2002, 1756; cfr. TAR Lazio, n. 345 del 10/01/2007 in www.altalex. it con Nota di Gesuele Bellini).

Il provvedimento di decadenza, in conclusione, va inteso come atto strettamente vincolato e formale, in cui l’interesse pubblico è in re ipsa, completamente assorbito nel rilievo della disposizione che vieta la produzione di documenti falsi e nel carattere vincolato della correlativa esclusione dalla graduatoria. Né occorre alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del dichiarante perché, così ragionando, si svuoterebbe di ratio la disciplina, volta a semplificare l’azione amministrativa, che fa leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante. Conseguenza naturale di tale affermazione è che, la non veridicità della dichiarazione, rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera, a prescindere da ogni indagine della Pubblica Amministrazione sull’elemento soggettivo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 2447 del 27/04/2012, in Massima Redazionale, 2012).

 

 

Laura Petrini
Laureata in Giurisprudenza, Specializzata in Professioni Legali, Avvocato, Cultore della materia alla cattedra di Diritto del Lavoro presso l’Università degli Studi di Teramo.

Sentenza collegata

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Petrini Laura

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