Emile Durkheim e il comportamento deviante: riflessioni e contributi sull’idea di “Fatto Sociale”

Redazione 22/10/01
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di F. Giacca

Come viene mantenuto l’ordine sociale? E’ questa la domanda che si pone più spesso il grande sociologo francese. Egli, infatti, era convinto che la natura umana fosse per natura distruttiva, per sè come per gli altri.
Era dunque l’effetto di qualche altro fattore che permetteva la sopravvivenza della civiltà.
Il suo problema principale era comprendere cosa fosse a permettere tutto questo, in un periodo in cui la rivoluzione industriale sembrava avere spazzato via gli stretti legami sociali, tipici delle comunità preindustriali.
Tale punto di partenza appare importante per inquadrare la figura di Durkheim, sia come sociologo del diritto penale, sia come interprete dei fenomeni di devianza (Marra,1984, pp.31-85; Faugeron, 1983, pp.389-408).
Egli non considera la civilizzazione un processo d’inibizione in parte completa della personalità dell’individuo, non avanzando alcuna ipotesi sulla struttura della psiche umana, ma prendendo in esame le modalità attraverso la quali le condizioni sociali la modellano.
La prospettiva concettuale di Durkheim non considera la società riducibile ad un aggregato di contratti stipulati fra gli individui. Egli sottolinea l’esistenza di un’impalcatura di tradizioni e pratiche, i “fatti sociali” che, pur essendo opera dell’azione umana, precedono l’esistenza di ogni singolo individuo, del quale forgiano dunque la personalità e conseguentemente la natura stessa: “i fatti sociali…intesi come realtà che non appartengono alla coscienza individuale, che la oltrepassano, che non possono essere influenzati tanto dall’individuo, quanto da quella stessa realtà che è la società come dimensione a sé” (Durkheim,1979; De Leo,1999).
Ciò implica che non si devono esaminare la struttura della psiche o le relazioni fra gli individui, per capire quali forze leghino questi ultimi alla società. Occorre invece esaminare le forme d’organizzazione sociale in cui gli individui sono nati e le istituzioni dove essi operano.
Per quanto riguarda la criminalità, ciò che importa è lo studio dei processi che producono “conformità” o “non conformità” normativa in un dato contesto sociale, e non lo studio delle strutture intrapsichiche proprie degli individui che delinquono. Durkheim era convinto del fatto che l’avvento della nuova forma di produzione aveva profondamente alterato quelle dell’organizzazione sociale, poiché i legami stretti della vita di “comunità-villaggio” avevano ceduto il passo a quelli formali della vita di “società-città”.
In tal senso non riteneva però che ciò avesse determinato una diminuzione di coesione sociale: la base della solidarietà sociale non era, infatti, svanita nel nulla, ma si era soltanto trasformata.
In altri termini egli concordava sul fatto che la comunità aveva ceduto il passo alla società. Questa sua convinzione si riflette nella sua particolare terminologia: egli impiegò il termine di “solidarietà organica” in riferimento ai legami tipici delle società industriali e quello di “solidarietà meccanica” per indicare i legami vigenti nelle comunità preindustriali (Durkheim, 1977).
Naturalmente, riteniamo che il termine “solidarietà organica” vada letto nei suoi tre aspetti fondamentali: la “disciplina”, “l’attaccamento” e “l’autonomia”.
Il primo fa riferimento al poter contare su un certo livello di prestazione lavorativa fornito da figure poste in ruoli produttivi specializzati. Essa si fonda sull’esistenza di regole comunicate socialmente e su una gerarchia di comando socialmente costruita.
Nel secondo aspetto, perché l’individuo riesca a superare il meccanicismo dell’esecuzione del proprio compito di ruolo, deve sentirsi legato alla collettività e alle sue aspirazioni.
Infine, nel processo d’autonomia, gli individui devono scegliere liberamente la conformità sociale, in conformità ad un apprezzamento intellettuale della necessità dell’ordinamento normativo vigente nella loro società in tema di morale. Quest’autonomia, però, non vuole essere radicale per evitare di frammentare la società, ma deve essere aderente alla collettività.
Non sorprende dunque che Durkheim sia anche molto interessato dal problema dell’indebolimento della solidarietà sociale.
Egli, individuò come uno dei segnali di questo processo, la diminuzione di attaccamento al corpo sociale, dovuta alla stratificazione di classe della società industriale, al suo carattere impersonale e al potere degradante del processo di produzione industriale.
Un altro segnale da lui individuato fu “l’anomia”, cioè l’assenza di norme: le aspirazioni dell’individuo sfuggono al suo controllo per la mancanza di un loro chiaro limite e di regole di comportamento.
Una preoccupazione crescente per la presenza di alienazione e anomia sociali, e il timore che esse sospingessero gli individui più deboli verso comportamenti antisociali, psicopatologie e persino al suicidio, riportarono Durkheim all’idea originaria che la solidarietà organica tipica della moderna società industriale non è sufficiente ad assicurare l’ordine sociale (Durkheim, 1969; Viano,1963, pp.310-352).
Occorreva introdurre un elemento dei rituali parareligiosi delle forme di società preindustriali, cioè la “solidarietà meccanica”.
Il popolo ha bisogno di ritrovarsi unito in rituali a cadenza temporale regolare, per riaffermare dedizione, fiducia e attaccamento per la collettività.
Un primo elemento da notare nell’approccio teorico di Durkheim è il fatto che le azioni antisociali siano ancora una volta concettualizzate come deficit dell’individuo in tema di norme e di attaccamento all’ordine sociale.
Durkheim considera i fattori di tipo psicologico in gioco costruzioni interamente sociali e cerca di individuare il tipo di organizzazione sociale che le genera. La devianza intrattiene però una relazione molto indiretta con la società. Si continua ad ignorare il contesto sociale nel quale nasce il comportamento dissociale.
Esistono anche fautori di una lettura più radicale dell’opera durkheimiana (Taylor, Walton, Young, 1973), i quali pongono l’accento sul fatto che egli considerava l’esistenza della ricchezza e delle differenze fra ricchi e poveri come una delle cause prime di corruzione morale nella società.
Secondo queste posizioni, Durkheim concepisce dunque la devianza come uno strumento di affermazione della moralità delle masse su quell’imperante. In questa ottica, il popolo diviene un aggregato di ribelli dediti a questa causa.
Per Durkheim non è tanto la devianza in sé a essere importante, ma il fatto che fornisce l’opportunità di celebrare i rituali collettivi del processo e dell’infliggere la punizione al deviante (Durkheim,1977,97).
I confini della moralità possono essere evidenziati solo per contrasto: è, infatti, solo quando gli individui trasgrediscono che si può rendere evidente dove quei confini sono posti.
Tali rituali collettivi forniscono così a tutti i membri della società un’opportunità frequente di richiamare alla memoria quali sono i comportamenti moralmente inaccettabili.
La teoria classica considerava l’istituzione della punizione penale finalizzata a influenzare la decisione razionale del potenziale deviante.
Secondo Durkheim, invece, la punizione penale ha una funzione simbolica. Serve, infatti, a riconfermare la validità dei modelli di moralità vigenti nella società, nonché ad assicurare i non-devianti che le loro scelte morali sono quelle corrette. Perché questa riconferma simbolica accada, la devianza deve esistere. La società ha bisogno dei propri “cattivi” per rafforzare la propria solidarietà morale.
Il funzionalismo lascia anche spazio alla visione più pessimistica del comportamento dissociale.
In questa prospettiva teorica, la devianza è una prova della decadenza della società. E questa è la premessa della gran parte delle teorie sociologiche della devianza, condividendo l’idea di Durkheim che la natura umana è forgiabile.
Conseguentemente, che la personalità dell’individuo e le sue inclinazioni comportamentali sono costruzioni sociali.

Bibliografia
ARON, R. (1978): Le tappe del pensiero sociologico, Mondatori, Milano.
BARATTA, A. (1982): Criminologia critica e critica del diritto penale, Il Mulino, Bologna.
COTESTA, V. (1982): Kant e E. Durkheim. Elementi per una sociologia dell’individuo moderno, in “Critica sociologica”, 60.
DE LEO, G. (1999) : La devianza minorile. Il dibattito teorico, le ricerche, i nuovi modelli di trattamento, Carocci, Roma.
DURKHEIM, E. (1969): Il suicidio, UTET, Torino.
DURKHEIM, E. (1977): La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano.
DURKHEIM, E. (1979): Le regole del metodo sociologico, Comunità, Milano.
FAUGERON,C. (1983): Rappresentazioni sociali della devianza e dell’intervento penale, in “Dei Delitti e delle Pene”, 2.
MARCONI, P. (1974): Durkheim. Sociologia e politica, Jovene, Napoli.
MARRA, R. (1984): Durkheim sociologo del diritto penale. Sentimenti, riflessioni e valori nella produzione ideale di fatti normativi, in “Dei Delitti e delle Pene”, 1.
TAYLOR, I., WALTON, P., YOUNG, J. (1973): The new criminology, London, Hutchinson.
VIANO, C.A. (1963): La dimensione normativa nella sociologia di Durkheim, in “Quaderni di sociologia”, XII.

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