Diritto dei trattati ed evoluzione del diritto internazionale

Vita Marco 10/01/08
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Sommario: 1. Il diritto internazionale particolare: I Trattati internazionali; -1.1. Nozione e classificazione; -1.2. Procedimento di conclusione dei Trattati internazionali; -1.3. Fase della negoziazione; -1.4. Fase della firma; -1.5. Fase della ratifica; -1.6. Fase dello scambio delle ratifiche; -2. Riserve nei trattati; -3. Cause di estinzione dei Trattati internazionali; -4. Trattati internazionali e norme jus cogens; -5. Le teorie sullo jus cogens; -6. Jus cogens e diritto convenzionale: Il principio inadimplenti non est adimplendum; -7. La tutela dei diritti dell’uomo; -8. Norme jus cogens in contrasto con i trattati internazionali; -9. Il problema della determinazione del contenuto dello jus cogens; -10. Conlcusioni; -11. Bibliografia
 
 
1.Il diritto internazionale particolare: I trattati internazionali
 
1.1. Nozione e classificazione
I trattati ([1]) costituiscono lo strumento principale attraverso il quale i soggetti internazionali regolamentano tra di loro reciproche relazioni e sviluppano la collaborazione internazionale che rappresenta una delle caratteristiche salienti del diritto internazionale contemporaneo: infatti, il diritto internazionale è sempre meno un diritto della “coesistenza” e sempre più un diritto di “collaborazione”.
Anche se la prassi diplomatica utilizza diversi termini per riferirsi al fenomeno patrizio, accordo, trattato, patto, carta, convenzione, scambio di note, scambio di lettere, si tratta sempre dell’incontro delle volontà di due o più soggetti internazionali al fine di istituire, regolare ed estinguere determinati rapporti giuridici tra loro.Vi sono casi in cui un certo termine è utilizzato alla luce sia della materia di cui l’accordo si occupa, sia della procedura che si segue nella sua conclusione. Tuttavia, pur cambiando la denominazione, la natura dell’atto non muta ed è quella propria degli atti contrattuali. Il diritto internazionale lascia agli Stati la più ampia libertà nella scelta dei modi e delle forme al fine di manifestare la propria volontà ad obbligarsi.
 Tuttavia, è possibile effettuare delle classificazioni degli accordi internazionali sotto diversi punti di vista. Per quanto riguarda la forma, ad esempio, si possono distinguere tratti in forma scritta e in forma orale: la forma con la quale vengono conclusi i trattati non incide sulla loro validità. La Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati disciplina soltanto i trattati multilaterali in forma scritta. Per quanto attiene alla natura dei soggetti contraenti, si distinguono i trattati bilaterali dai trattati multilaterali. Se poi si fa riferimento alla facoltà o meno riconosciuta agli Stati terzi di aderire all’accordo in un momento successivo alla entrata in vigore, si possono distinguere trattati chiusi e trattati aperti. Ulteriore distinzione è quella che attiene alla procedura di conclusione dei trattati in forma solenne e in forma abbreviata. Sebbene gli accordi differiscano quanto alla loro natura e struttura, essi si articolano in parti che li caratterizzano da un punto di vista formale: il preambolo, che non ha portata vincolante, nel quale sono indicate le parti contraenti, i motivi che hanno indotto all’accordo, l’oggetto e lo scopo perseguito; il dispositivo, ossia l’insieme delle disposizioni aventi carattere vincolante che costituiscono la disciplina vera e propria della materia oggetto dell’accordo; infine, gli eventuali allegati nei quali vengono disciplinati a parte aspetti particolari o di natura tecnica, in modo da semplificare il testo del trattato([2]).
Quando si descrive, dunque, il procedimento di formazione dei trattati, non solo non ci si può riferire a precise e vincolanti norme giuridiche, ma neppure si può dare alla descrizione carattere tassativo dovendosi necessariamente limitarsi a quelle procedure che più delle altre sono praticate dagli Stati. Carattere tassativo non ha neppure l’elencazione dei modi di stipulazione contenuta nella Convenzione di Vienna (artt. 7-16) elencazione che, tra l’altro, è limitata agli accordi conclusi per iscritto. (art. 2, lett. A).
 
1.2. Procedimento di conclusione dei Trattati Internazionali.
Ancora oggi il procedimento solenne di formazione del trattato ricalca quello già seguito alcuni secoli fa, all’epoca delle monarchie assolute.
In tale epoca la stipulazione del trattato era materia di competenza esclusiva del Capo dello Stato. Esso era negoziato dagli emissari del Sovrano, definiti plenipotenziari, i quali predisponevano il testo dell’accordo e lo sottoscrivevano. Seguiva poi la ratifica da parte del Sovrano, con la quale questi accertava se i plenipotenziari si fossero effettivamente attenuti al mandato ricevuto. Occorreva, infine, che la volontà ultima del Sovrano fosse portata a conoscenza delle controparti attraverso lo scambio delle ratifiche. Oggi, sebbene sia venuta meno la posizione di preminenza del Capo dello Stato, (parallelamente alle modifiche prodottesi nell’organizzazione dei poteri dello Stato), le fasi descritte sono ancora in uso nella prassi internazionale.
Il procedimento normale di formazione dell’accordo si apre con i negoziati condotti dai plenipotenziari, i quali, di solito, sono organi del Potere esecutivo o comunque agiscono su mandato([3]).
Secondo il dispositivo dell’articolo 7, una persona è considerata come rappresentante dello Stato se produce i pieni poteri appropriati che attestino tale qualità, a meno che risulti dalla pratica degli Stati interessati o da altre circostanze che essi avevano l’intenzione di considerare questa persona come rappresentante dello Stato a questi fini e di non richiedere la presentazione dei pieni poteri([4]).
Gli artt. 7-16 della Convenzione di Vienna regolano la stipulazione di accordi per iscritto. Pur essendo consentito un procedimento di formazione in forma semplificata, il procedimento di formazione normale o solenne rispecchia quello seguito nei secoli dagli Stati occidentali. Vanno distinte quattro fasi.
 
1.3. Fase della negoziazione.
La negoziazione del testo è operata dai plenipotenziari. Essi, in base all’art. 7, predispongono il testo dell’accordo e lo sottoscrivono in forma non vincolante per i propri Stati. Dispongono dei “pieni poteri” coloro che possiedono una delega del Ministero degli Esteri per trattare in vece del proprio governo in sede di negoziazione. Pieni poteri hanno automaticamente i Capi di Stato e di governo, ministri degli Esteri, capi di missioni diplomatiche (solo per trattati con gli Stati in cui operano), delegati presso organizzazioni internazionali (solo per trattati stipulati in seno all’organizzazione a cui appartengono). L’art. 9 stabilisce che l’adozione del testo ha luogo con il voto favorevole dei due terzi degli Stati presenti e votanti a meno che, con la stessa maggioranza, non si sia preventivamente deciso altrimenti.
 
1.4. Fase della firma.
I negoziati si chiudono con l’apposizione della firma sul testo votato da parte dei plenipotenziari (art. 10). Il testo risulta così autenticato e un’eventuale modifica può avvenire solo attraverso un nuovo negoziato. La firma non ha valore vincolante per gli Stati.
 
 
1.5.Fase della ratifica.
Ogni Stato si impegna a osservare il trattato attraverso la ratifica (art. 14). Il meccanismo di ratifica viene disciplinato dalle costituzioni dei singoli Stati. La Costituzione italiana all’art. 87 comma 8, dispone che la ratifica spetti al Presidente della Repubblica previa autorizzazione delle Camere laddove ve n’è l’obbligo, regolato dall’art. 80 che elenca le materie coperte da riserva parlamentare: trattati di natura politica, regolamenti giudiziari, variazioni del territorio nazionale, oneri alle finanze, modificazioni di leggi. In realtà la ratifica è funzione del Governo: esso può anche non dare seguito all’autorizzazione parlamentare qualora subentrino ragioni di natura politica. L’adesione è il meccanismo con cui uno Stato che non ha partecipato alla negoziazione del trattato decida comunque di adottarlo. Ciò avviene solo se il trattato è aper-to, preveda cioè una esplicita clausola di adesione.
 
1.6. Fase dello scambio delle ratifiche.
Il trattato entra in vigore dopo la fase dello scambio delle ratifiche tra gli Stati firmatari. Oggi si preferisce il deposito delle ratifiche (art. 16) presso uno Stato che funge da segretario o, più comunemente, presso il Segretario genrale delle NU (art. 102 della carta onuese). Il trattato entra in vigore negli Stati che hanno depositato la ratifica. La registrazione dei trattati presso l’ONU permette di invocare tale trattato di fronte all’Assemblea generale.
Nella prassi internazionale sempre più comuni stanno diventando gli accordi in forma semplificata, anche detti accordi informali, che entrano in vigore per effetto della sola sottoscrizione del testo da parte dei plenipotenziari (art. 12), che così esprimono la piena e definitiva manifestazione di volontà degli Stati di appartenenza. Tali accordi, secondo un’interpretazione estensiva dell’art. 80 della Costituzione italiana, sarebbero possibili in Italia per tutte le materie non coperte da riserva parlamentare per la ratifica. Gli esecutivi della maggior parte degli Stati, per motivi di necessità, preferiscono adottare accordi semplificati per bypassare l’inerzia parlamentare. Negli Stati Uniti la forma è particolarmente invalsa: tra gli accordi in forma semplificata adottati dal governo americano in particolare vanno citati gli executive agreements stipulati dal Presidente su materie tecnico-amministrative e di ambito militare[5].
L’accordo misto può essere ratificato tramite procedura normale o concluso in forma semplificata a discrezione degli Stati. Gli accordi formatisi esclusivamente nell’ambito di organizzazioni internazionali, come alcune dichiarazioni di principi dell’ONU, sono adottate in forma semplificata. Diverse sono le intese tra governi dove non vi è esplicita volontà di legarsi all’accordo giuridicamente e che quindi valgono finché valgono; assimilabili alle intese cono i trattati segreti che, non potendo essere invocati di fronte all’ONU, non hanno valenza giuridica internazionale. L’applicazione provvisoria dei trattati è un meccanismo usato in trattati adottati in forma normale che prevedono la loro provvisoria entrata in vigore nel corso del processo di ratifica solenne degli Stati firmatari. L’effettivo valore giuridico di tali trattati applicati in via provvisoria è oggetto di discussione.
 
2.Riserve nei Trattati
Le riserve sono delle dichiarazioni unilaterali da parte di uno Stato che vuole manifestare la volontà di obbligarsi ad un trattato, il quale dichiara o di non accettare una certa clausola del trattato, o non l’accetta se non è formulata in un certo modo, o se non è interpretata in un certo modo.
Le riserve sono:
– eccettuative, quelle che consistono nel rifiuto, da parte dello Stato, di certe clausole del trattato;
-modificative, quelle che consistono nell’accettazione solo con modifica di alcune clausole;
-interpretative, quelle che consistono nell’accettazione di alcune clausole solo in base ad una certa interpretazione.
La riserva ha senso solo nei trattati multilaterali: nei trattati bilaterali essa non ha senso, in quanto lo Stato che non vuole assumere certi impegni, deve solo proporre alla controparte di escluderli  dal testo del trattato. Ma nei trattati multilaterali, non si applicano poi le stesse regole nei confronti di tutti gli Stati.Le riserve consentono allo Stato di aderire al trattato, anche se nel corso del negoziato non gli andavano bene certe disposizioni: se allo Stato non fosse consentito di apporre questa riserva, esso non diverrebbe parte del trattato.
Il primo problema che sorge è quello di accertare se è possibile apporre delle riserve al momento della ratifica o dell’insieme del trattato. Innanzitutto bisogna vedere cosa dice il  trattato.
E’ possibile che il trattato dica espressamente che non è possibile apporre delle riserve, e in questo caso gli Stati non possono apporre delle riserve. Importante sul punto è la Convenzione del Montego Bay che ha ricodificato tutto il diritto del mare, nel 1982: all’ART. 309, tale Convenzione dice espressamente che non possono essere apposte riserve o eccezioni alla stessa, se ciò non sia consentito da altri articoli della Convenzione; all’ART. 310, invece, ammette la possibilità  di effettuare delle dichiarazioni, quale ne sia la formulazione o la denominazione, in particolare allo scopo di armonizzare le sue leggi, a condizioni che dette dichiarazioni non siano dirette a escludere o modificare effetti giuridici  delle disposizioni della Convenzione, perché altrimenti sarebbero da considerare delle riserve.
Ci sono poi dei casi che il trattato prevede che le riserve possono essere apposte solo per determinati articoli del trattato stesso. Vediamo in questo caso la Convenzione Europea del 1950 per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la quale, all’art. 57 ammette la possibilità per ciascuno Stato di formulare una riserva riguardo ad una particolare disposizione della Convenzione = Es. al Protocollo N. 4 della convenzione, l’Italia ha apposto una riserva, dicendo che continuerà ad applicare le norme della Costituzione per quello che riguarda l’ingresso in Italia dei membri di Casa Savoia.
Ma il problema maggiore sorge quando il trattato non dice nulla sulla possibilità di apporre riserve. C’è una notevole evoluzione del diritto internazionale. Se in passato lo Stato avesse posto una riserva senza che lo Stato dicesse niente in merito, la sua ratifica o adesione con riserva sarebbe stata intesa come un nuovo accordo, senza che avesse nessun effetto, e lo Stato non sarebbe diventato parte del trattato. Si è verificata una notevole evoluzione nella disciplina dell’istituto.
 Una tappa fondamentale fu segnata dal parere  del 1951 della Corte Internazionale di Giustizia, parere reso su richiesta dell’Assemblea Generale, avente per oggetto la Convenzione sulla repressione del genocidio: tale convenzione  non dice niente sulla possibilità di apporre riserve e, appunto, l’Assemblea chiese alla Corte se gli Stati potessero ugualmente procedere alla formulazione di riserve al momento della ratifica. Nel rispondere la Corte affermò un principio che da alcuni, ed anche da alcuni giudici della stessa Corte, rimasti in minoranza, fu considerato come rivoluzionario, ma che oggi è del tutto consolidato come principio consuetudinario: una riserva può essere formulata all’atto della ratifica anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del trattato purchè essa sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato, purché essa non riguardi clausole fondamentali e caratterizzanti l’intero trattato. Se uno Stato ritiene che una riserva non sia compatibile con gli scopi del trattato può dichiarare la propria OBIEZIONE.
Sia la riserva che l’obiezione devono essere formulate per iscritto e comunicate agli altri Stati contraenti, così come l’eventuale ritiro. Nel caso ci sia opposizione sulla riserva da parte di uno o più Stati: nei rapporti con gli Stati che non hanno fatto opposizione, il trattato si applica così com’è stato modificato, nei confronti dello Stato che ha fatto opposizione e lo Stato che ha fatto la riserva, il trattato non entra in vigore e non si applica.
Anche la Convenzione di Vienna del 1969 agli ARTT. 19/23 si occupa delle riserve:
ART.19 = Uno Stato, nel momento di sottoscrivere, ratificare, accettare, approvare un trattato o di aderirvi, può formulare una riserva, a meno che: la riserva non sia proibita dal trattato; il trattato non disponga che possono essere fatte solo determinate riserve, fra le quali non figura quella in questione; oppure, la riserva non sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato.
Si ribadisce la possibilità di formulare riserve in ogni caso, purché compatibili con gli aspetti fondamentali del trattato.
 ART. 20: Una riserva espressamente autorizzata da un trattato non richiede un ulteriore atto di accettazione da parte degli altri Stati contraenti, a meno che ciò non sia previsto dal trattato (…) si afferma che le riserve devono essere accettate da parte di tutti i contraenti solo in alcuni casi, quando il numero limitato dei partecipanti o la particolare natura dell’accordo lo richiedano.
Se uno Stato si oppone alla riserva, la mancata entrata in vigore del trattato, si produce solo se lo Stato lo dice espressamente, ma se lo Stato si oppone senza dire niente, il trattato entra in vigore, salva la parte cui la riserva si riferisce = art. 21, par. 3° = Quando uno Stato che ha formulato una obiezione ad una riserva non si è opposto all’entrata in vigore del trattato fra se stesso e lo Stato autore della riserva, le disposizioni alle quali la riserva si riferisce non si applicano fra i due Stati nella misura prevista dalla riserva.
Anche dopo la Convenzione di Vienna la disciplina delle riserve ha continuato ad evolversi. La tendenza innovatrice più significativa rispetto al diritto internazionale classico, è quella che si ricava dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani: trattasi della tendenza a ritenere che, se lo Stato formula una riserva inammissibile, tale inammissibilità non comporta l’estraneità dello Stato stesso rispetto al trattato, ma l’invalidità della sola riserva: quest’ultima dovrà pertanto ritenersi come non apposta. La giurisprudenza della Corte europea riguarda però la Convenzione europea dei diritti umani: ogni estensione ad altri tipi di trattati, è da ritenere prematura.
Conforti ritiene che si tratta di una prassi che può portare ad un’evoluzione ulteriore, dopo la Convenzione di Vienna; ma tale affermazione non è da condividere([6]La riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del trattato, o di accettarle con alcune modifiche, oppure di accettarle secondo una determinata interpretazione. (c.d. dichiarazione interpretativa)).
In tal modo tra lo Stato autore della riserva e gli altri Stati contraenti, l’accordo si forma solo per la parte non investita dalla riserva ; mentre resta integralmente applicabile tra gli altri Stati. Il tema delle riserve, a partire dal secondo dopoguerra ha subito una notevole evoluzione nella prassi. Di tale evoluzione vi è traccia negli Artt. 19-23 della Convenzione di Vienna , la quale è stata essa stessa superata dalla prassi successiva. L’istituto della riserva costituisce uno strumento di fondamentale importanza, perché ha lo scopo di facilitare la più larga partecipazione nei trattati multilaterali, anche nel momento in cui alcuni Stati non vogliono accettare il testo dell’accordo nella sua integrità. Secondo il diritto internazionale classico (1648-1945) la possibilità di apporre delle riserve doveva essere tassativamente concordata nella fase di negoziazione, e quindi doveva figurare nel testo del trattato predisposto dai plenipotenziari; in mancanza, lo Stato doveva scegliere se ratificare il trattato, o meno.
I modi attraverso i quali si prevedeva la possibilità di apporre riserve erano due:i singoli Stati dichiaravano al momento della negoziazione di non voler accettare alcune clausole e quindi nel testo del trattato si faceva menzione di ciò; il testo prevedeva genericamente la possibilità di apporre riserve al momento della ratifica o dell’adesione e in tale momento ognuno sceglieva se avvalersi o meno di tale facoltà. Era, comunque necessario che il testo specificasse quali articoli potessero costituire oggetto di riserva. Oggi si è verificata una notevole evoluzione della disciplina dell’istituto allo scopo di facilitare la partecipazione all’accordo. Una tappa fondamentale in tale evoluzione è rappresentata dal parere 28.05.1951 della Corte Internazionale di Giustizia reso su richiesta dell’Assemblea generale avente per oggetto la Convenzione sulla repressione del genocidio. La Corte affermò un principio che da allora in poi è stato considerato come consuetudinario: affermò che una riserva può essere anche formulata all’atto della ratifica, anche se la relativa facoltà non è espressamente prevista nel testo del trattato, purché essa sia compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato; purché, in altre parole, essa non riguardi clausole fondamentali e caratterizzanti l’intero trattato, altrimenti non si configurerebbe neanche l’accordo.
Il parere della Corte ha ispirato gli articoli della Convenzione di Vienna, la quale persegue, in modo ancora più marcato, tali principi. All’art. 19 afferma:
Formulazione delle riserve
Uno Stato, nel momento di sottoscrivere, ratificare, accettare, approvare un trattato o di aderirvi, può formulare una riserva, a meno che:
– la riserva non sia proibita dal trattato;
-il trattato non disponga che possono essere fatte solo determinate riserve, fra le quali non figura quella in questione; oppure
-nei casi diversi da quelli contemplati sub a), e b), la riserva non sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato.
Essa stabilisce inoltre che una riserva, quando non sia prevista nel testo del trattato, possa essere contestata da un’altra parte contraente, ed aggiunge che, se tale contestazione non è manifesta entro dodici mesi, la riserva si intende accettata. (art. 20)
Molto importante è poi la norma che stabilisce che persino l’obiezione ad una riserva non impedisce che questa esplichi i suoi effetti tra lo Stato che la formula e lo Stato obiettante se quest’ultimo non abbia espressamente e nettamente manifestato l’intenzione di impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti tra i due Stati. ( art. 20, par. 4 e 21 par. 3).
Anche dopo la Convenzione di Vienna la disciplina ha continuato ad evolversi, innovandone alcune norme; ad es. riconoscendosi la possibilità che uno Stato formuli riserve in un momento successivo rispetto a quello in cui aveva ratificato il trattato, purchè nessuna delle altre parti contraenti sollevi obiezioni contro il ritardo. Ma la tendenza innovatrice più significativa è quella che si ricava dalla giurisprudenza della Corte europea sui diritti umani: la tendenza cioè a ritenere che, se lo Stato formula una riserva inammissibile, tale inammissibilità non comporta l’estraneità dello Stato rispetto al trattato, ma l’invalidità della sola riserva quest’ultima verrà ritenuta come non apposta.
 
3.Cause di estinzione dei Trattati Internazionali.
Cause di estinzione dei trattati([7]): abrogazione ad opera delle parti 
Il medesimo procedimento che aveva dato origine alla regolamentazione pattizia incorporata nel testo di un trattato può in seguito portare all’estinzione della regolamentazione stessa. Una regola generale di diritto internazionale, riguarda la convergenza delle manifestazioni di volontà di tutte le parti ad un trattato, ciascuna delle quali consente nei confronti delle altre a porre termine all’efficacia del trattato, a presupposto per il prodursi di conseguenze conformi a quelle volute dalle parti. Un accordo delle parti in ordine alla cessazione degli effetti di un trattato, c.d. abrogazione del trattato, può infatti sempre intervenire successivamente alla sua entrata in vigore, vale a dire in ogni momento, attraverso il consenso di tutte le parti, e dopo la consultazione degli altri Stati contraenti. Non è però frequente che gli Stati concludono un trattato all’unico scopo di abrogare espressamente un precedente trattato in vigore fra di loro. Inoltre va puntualizzato che, il consenso di due o più Stati diretto all’abrogazione di un precedente trattato può essere manifestato, tuttavia, oltre che in maniera espressa anche in maniera tacita. 
La violazione del trattato ad opera di una delle due parti. Non è mai stata seriamente contestata nella dottrina e nella pratica l’esistenza di una regola generale di diritto internazionale che consente a una parte di sciogliersi da un trattato nel caso di una sua violazione sostanziale ad opera di un’altra parte (c.d. inadimplenti non est adimplendum). La regola ha trovato un’ulteriore conferma nel parere consultivo reso dalla Corte Internazionale di Giustizia del giugno del ’71. La Corte dovendo tener conto dei principi generali del diritto internazionale che regolano la estinzione di una relazione convenzionale come conseguenza di una violazione, ha infatti affermato che le regole della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 relative all’estinzione di un trattato violato possono essere considerate come una codificazione del diritto internazionale vigente in materia. La regola inadimplenti non est adimplendum, è diversa a seconda che il trattato violato sia bilaterale oppure multilaterale. In presenza di un trattato bilaterale una violazione sostanziale ad opera di una della parti autorizza l’altra parte a invocare la violazione come motivo per mettere fine al trattato o sospenderne la sua applicazione in tutto o in parte. In presenza di un trattato multilaterale, le conseguenze dell’inadempimento sostanziale di una parte sono alquanto più complesse. Bisogna fare una ulteriore distinzione tra le misure adottabili per accordo unanime da tutte le parti e le misure adottabili da una parte specialmente lesa dalla violazione. Nel primo caso una violazione sostanziale del trattato autorizza le parti a sospendere l’applicazione del trattato in tutto o in parte o a porvi fine, sia nelle relazioni tra esse stesse e lo Stato autore della violazione, sia tra tutte le parti. Nel secondo caso, la parte lesa può invocare la violazione come motivo di sospensione dell’applicazione del trattato in tutto o in parte nelle relazioni tra essa stessa e lo Stato autore delle violazioni.
Questa causa di estinzione di un trattato è contemplata nell’art. 61 della convenzione di Vienna del ’69 il quale codifica un’altra regola , la cui esistenza un diritto internazionale appare generalmente riconosciuta: una parte può invocare l’impossibilità di eseguire un trattato come motivo per porvi fine o per recedervi se questa impossibilità deriva dalla scomparsa o distruzione definitiva di un oggetto indispensabile all’esecuzione di questo trattato. Se l’impossibilità è temporanea, essa può essere invocata soltanto come motivo per sospendere l’applicazione del trattato. Esempi di impossibilità temporanea dell’esecuzione, invocabile come motivo di sospensione del trattato, possono essere la rottura delle relazioni diplomatiche o consolari tra due Stati, per quei trattati che presuppongono come indispensabile per la loro applicazione l’esistenza di relazioni di questo genere. L’impossibilità di esecuzione non può essere invocata da uno Stato come motivo per porre fine ad un trattato per recedervi o per sospendere l’applicazione se questa impossibilità deriva da una violazione ad opera della parte che la invoca.
 Il mutamento fondamentale delle circostanze. Per quanto riguarda questa causa di estinzione, quasi tutti i giuristi, anche se talvolta a malincuore, ammettono l’esistenza in diritto internazionale del principio correntemente denominato rebus sic stantibus. L’esistenza in diritto internazionale di un’apposita regola generale che tra l’altro limita un’altra regola ormai consolidata in dottrina che è quella di pacta sunt servanda ha trovato un’ulteriore conferma nel suo riconoscimento alla Conferenza di Vienna. Infatti quest’ultima dispone che: un mutamento fondamentali di circostanze che si è verificato rispetto a quelle esistenti al momento della conclusione di un trattato e che non era stato previsto dalle parti non può essere invocato come motivo per porre fine al trattato o per recedervi a meno che non ricorrano due ipotesi. In primo luogo l’esistenza di queste circostanze abbia costituito una base essenziale del consenso delle parti ad essere vincolate dal trattato; e in secondo luogo questo cambiamento abbia per effetto di trasformare radicalmente la portata degli obblighi che restano da eseguire in virtù del trattato. Il mutamento inoltre, deve essere imprevisto e fondamentale, sia perché verte su di un aspetto essenziale del trattato, sia perché altera radicalmente l’equilibrio che esisteva in origine tra le prestazioni delle parti.
L’art.62 della convenzione di Vienna del ’69 prevede, inoltre, un limite escludendo che il mutamento fondamentale delle circostanze possa venire invocato: se il mutamento fondamentale derivi da una violazione, ad opera della parte che lo invoca, sia di n obbligo del trattato, sia di un obbligo internazionale nei confronti di ogni altre parte del trattato; ed inoltre se si tratta di un trattato che stabilisce una frontiera. Infine la convenzione di Vienna ammette che una parte possa invocare il mutamento fondamentale delle circostanze, qualora ne ricorrano i presupposti, soltanto come causa di sospensione dell’applicazione del trattato. Molto importante ai fini del nostro studio è anche la sospensione dell’applicazione di un trattato, come l’estinzione, può verificarsi o conformemente alle disposizioni del trattato o in ogni momento, attraverso il consenso di tutte le parti, dopo la consultazione delle parti contraenti. Benchè le disposizioni sulla sospensione dell’applicazione di un trattato non siano molto frequenti, esse si trovano soprattutto in vari trattati istitutivi di organizzazioni internazionali, dove svolgono la funzione di tutelare il rispetto della regolamentazione pattizia di fronte a membri inadempienti. A differenza di quanto avviene per l’estinzione, la sospensione dell’applicazione di un trattato multilaterale può intervenire per accordo tra alcune sue parti soltanto. Nell’ipotesi di violazione del trattato ad opera di una delle parti, la sospensione dell’applicazione del trattato può essere invocata, in certi casi quali unica conseguenza dell’inadempimento,e in altri casi in alternativa all’estinzione. Essa può essere anche venire invocata in presenza di un’impossibilità sopravvenuta, ma temporanea, dell’esecuzione del trattato e in presenza di un mutamento fondamentale delle circostanze.
 
4.Trattati internazionali e norme ius cogens
L’origine del termine jus cogens non può ravvisarsi nel diritto internazionale stesso, ma è da ricercarsi entro il diritto privato a livello di nozioni preliminari riguardo ai limiti della volontà delle parti che vogliano regolare per mezzo di un negozio giuridico i propri rapporti giuridici.
Secondo la definizione contenuta nei manuali privatistici ([8]): “Le norme di diritto privato si distinguono in de derogabili (o dispositivi) e inderogabili( o cogenti o imperative): si dicono inderogabili o cogenti quelle norme la cui applicazione è imposta dall’ordinamento prescindendo dalla volontà dei singoli; derogabili o dispositive le norme la cui applicazione può essere evitata mediante un accordo degli interessati”.
Lo jus cogens costituirebbe una parte così essenziale per il legislatore di uno Stato al punto da non permettere alle parti private di derogarvi in favore di una disciplina diversa, frutto dell’incontro delle volontà. Trattasi di un nucleo di norme che il legislatore riterrebbe fondante ed imprescindibile per la società che disciplina. L’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969 prevede la nullità di qualsiasi trattato il quale, al momento della sua conclusione, sia in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale generale .
Come è noto l’art. 53 non specifica quali siano le norme imperative del diritto internazionale limitandosi a stabilire che ai fini della Convenzione è da ritenersi imperativa la norma che è accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati come norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da una nuova norma del diritto internazionale generale che abbia lo stesso carattere. La tendenza probabilmente più diffusa nella dottrina internazionalistica è quella di considerare norme imperative o di jus cogens tutte o quasi le norme che sanciscono il rispetto dei diritti umani fondamentali sul presupposto che tali diritti siano l’espressione di valori comuni della comunità internazionale e che la loro tutela rappresenti un interesse della comunità degli Stati nel suo insieme piuttosto che l’interesse del singolo Stato. Alla nozione di jus cogens viene spesso associato il concetto di obblighi erga omnes .
Come è noto la Corte Internazionale di Giustizia ne ha fornito una definizione nella sentenza del 5 febbraio 1970 nel caso Barcelona Traction, distinguendo gli obblighi che uno Stato assume nei confronti della comunità internazionale nel suo insieme da quelli che uno Stato assume nei confronti di un altro Stato nell’ambito della protezione diplomatica. In particolare la Corte ha qualificato erga omnes gli obblighi assunti da ogni Stato nei confronti dell’intera comunità internazionale in quanto, per l’importanza dei diritti coinvolti, tutti gli Stati hanno un interesse giuridico alla loro protezione 3. Tali obblighi derivano ad esempio, secondo la Corte, dalla illegittimità degli atti di aggressione o di genocidio e anche dai princípi e dalle norme che regolano “the basic rights of the human person”, incluso il divieto della schiavitù e della discriminazione razziale. Dopo aver analizzato brevemente le principali teorie elaborate dalla dottrina per spiegare il diritto internazionale cogente, ci soffermeremo nel prosieguo sulla nozione di jus cogens esaminando attraverso la prassi alcuni ambiti nei quali vi si è fatto ricorso e le conseguenze giuridiche che se ne sono tratte.
 
5. Le teorie sullo jus cogens
In dottrina sono state elaborate diverse teorie sullo jus cogens. In generale possono individuarsi le teorie che negano l’esistenza di norme imperative del diritto internazionale e quelle che, al contrario, tendono ad affermarle seppur con argomentazioni diverse. Le teorie per così dire “negazioniste” partono da una concezione volontarista del diritto internazionale, in quanto diritto basato sul consenso degli Stati e sostengono che la circostanza per cui, nel diritto internazionale, i destinatari delle norme sono gli stessi soggetti che le creano rende impossibile che norme imperative limitino l’autonomia della volontà degli Stati .
In altri termini, l’esistenza stessa di norme imperative presupporrebbe un’autorità sovraordinata e enti subordinati che nel diritto internazionale non esistono. Nell’ambito delle teorie che sostengono l’esistenza di norme di jus cogens nel diritto internazionale, vi sono quelle che identificano tali norme con l’ordine pubblico internazionale, ovvero come un insieme di norme materiali di natura costituzionale che esprimono i valori fondamentali della comunità internazionale, ma altresì come tecnica giuridica che, non consentendone la deroga da parte di altre norme, ne garantisce la loro necessaria integrità. Vi sono poi le teorie in base alle quali sarebbero norme cogenti non solo e non tanto quelle che, da un punto di vista sostanziale, tutelano valori fondamentali della comunità internazionale quanto soprattutto quelle che incorporano i princípi strutturali del diritto internazionale quali le norme sulla produzione giuridica o le norme “primarie” sulla soggettività internazionale o sulla responsabilità 8. In questo senso il carattere cogente sarebbe proprio essenzialmente di principi generali del diritto, una sorta di strumento per garantire le funzioni essenziali di un ordinamento giuridico. Altre teorie poi identificano lo jus cogens come principio di gerarchia materiale, cioè come insieme di norme la cui applicazione prevale rispetto ad altre regole consolidate.
La gerarchia materiale in questo senso risulterebbe contrapposta alla gerarchia formale che attiene all’effetto della non derogabilità e di conseguenza alla nullità della norma contraria. Anche le teorie per le quali non vi sarebbe gerarchia delle fonti nel diritto internazionale, data la sua struttura paritaria, e per le quali l’unica fonte sarebbe rintracciabile nell’accordo, identificano le norme di jus cogens in una autolimitazione che gli Stati si impongono per la creazione di norme convenzionali future. È cioè attraverso l’accordo che gli Stati limitano la propria capacità di concludere accordi futuri aventi ad oggetto determinate norme. Vi sono poi le teorie che considerano lo jus cogens un “postulato razionale a priori” ovvero norme che designano il “minimo esistenziale” per garantire la sopravvivenza stessa dell’ordinamento internazionale. Lo jus cogens avrebbe così la funzione di tutelare i diritti inalienabili dei soggetti di diritto internazionale ad esempio, fra gli Stati, il diritto ad esistere, il diritto di eguaglianza e il divieto di ricorrere alla forza; fra gli individui, i diritti inalienabili della persona umana e ancora fra i gruppi, il diritto di autodeterminazione dei popoli o il divieto di genocidio. Vi è poi chi ritiene che lo jus cogens sia una tecnica giuridica che si presenta come attributo di alcune norme dal punto di vista della loro derogabilità. In questo senso, le norme di jus cogens sarebbero profondamente diverse dalle norme di ordine pubblico in quanto le prime indicano una peculiare qualità delle seconde e più precisamente ne impediscono la frammentazione normativa. Occorre infine segnalare la teoria, che come vedremo nel prosieguo risulta maggiormente corrispondente alla prassi anche più recente, in base alla quale è impossibile ricostruire un’unica categoria di norme aventi “una maggiore forza” rispetto alla gran parte delle altre. Partendo dal presupposto per cui nella prassi risulta chiara l’esistenza di un nucleo di norme internazionali caratterizzate da un quid pluris rispetto alle altre, potrebbe anche parlarsi di un “ordine pubblico della comunità internazionale” o di jus cogens ma purché sia chiaro che il problema consiste nel vedere quali norme siano cogenti e, strettamente connesso, quale significato venga attribuito alla perentorietà di ciascuna norma.
In sintesi, alcune teorie si fondano sulla natura dei valori che le norme di jus cogens tutelano mentre altre si concentrano sugli effetti riconducibili a tali norme in particolare alla loro non derogabilità. In realtà, come vedremo attraverso l’analisi della prassi, in alcuni casi gli effetti derivanti dalla natura cogente di una norma si estenderebbero oltre la sua non derogabilità. Peraltro in altri ambiti nei quali la prassi ha affrontato la questione delle norme cogenti non sembra che ad esse sia stato ricondotto alcun effetto fra quelli invocati dalle parti interessate.
La prassi che di seguito analizzeremo mostra due elementi contrapposti in materia di jus cogens. Vi è un certo numero di sentenze attraverso le quali, pur riconoscendo la natura cogente di talune norme internazionali, si è restii ad accogliere le conseguenze ad esse ricondotte circa, ad esempio, l’immunità giurisdizionale dello Stato. In altri casi, invece, precisamente laddove i giudici tendono a sottolineare e talvolta a enfatizzare l’importanza delle norme cogenti, ci sembra che la tendenza sia a ricorrere alla nozione di jus cogens per confermare o meglio avvalorare certe conclusioni che sarebbero raggiungibili di per sé in base a quanto previsto dal diritto internazionale vigente. Talvolta i giudici, in qualche caso supportati dalla dottrina, si sono spinti verso affermazioni di principio che, seppur auspicabili, semplicemente non avevano alcun riscontro nella prassi né hanno dato vita ad una prassi successiva conforme.
 
6. Jus cogens e diritto convenzionale: il principio inadimplendti non est adimplendum
In alcune occasioni i giudici internazionali si sono pronunciati sugli effetti delle norme di jus cogens nell’ambito dei trattati, in particolare come subito vedremo sull’art. 60, par. 5, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che sancisce il principio inadimplenti non est adimplendum, e sulle riserve apposte dagli Stati a norme convenzionali. Riguardo all’art. 60, par. 5, si è pronunciato il Tribunale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia nella sentenza emessa il 14 gennaio 2000 nel caso Prosecutor v. Kupreki et al. La Camera di prima istanza si è soffermata sulla possibilità di invocare l’illecito altrui per giustificare l’illecito compiuto dall’imputato. In particolare, nel caso di specie, secondo la tesi della difesa, gli attacchi commessi contro la popolazione musulmana e oggetto della sentenza, sarebbero stati in qualche modo giustificabili sul presupposto che la stessa popolazione musulmana aveva a sua volta commesso simili attacchi contro la popolazione croata. La Camera ha dichiarato che le norme che vietano i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il genocidio hanno natura cogente nel senso di norme non derogabili . Una delle conseguenze di tale natura consisterebbe nel fatto che, qualora siano contenute in un trattato e siano oggetto di violazione da parte di uno Stato contraente, contrariamente a quanto previsto dall’art. 60, par. 5, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, non sarebbe consentito agli altri Stati parte di invocare la detta violazione al fine di sospendere o estinguere il trattato stesso. In altri termini, se ad essere violata è una norma cogente contenuta in un trattato, l’effetto della violazione sarebbe quello di lasciare inalterato il trattato in quanto appunto sarebbe esclusa la possibilità per gli altri Stati di far valere la violazione ai fini della sospensione o della estinzione del trattato stesso. La Camera in sintesi ha ribadito quanto previsto all’art. 60, par. 5, della Convenzione di Vienna aggiungendo tuttavia che il principio inadimplenti non est adimplendum sarebbe una conseguenza della violazione di norme di jus cogens. Il che, a nostro avviso, appare criticabile in quanto il ricorso alla nozione di norme cogenti non sembra essere stato decisivo per giustificare le conclusioni della Camera di prima istanza considerando che è lo stesso art. 60, par. 5, a prevederle senza tuttavia precisare che le norme relative alla tutela della persona umana siano o debbano essere norme cogenti. L’art. 60, par. 5, infatti prevede che il principio inadempimplenti non est adimplendum non si applica alle norme relative alla tutela della persona umana contenute nei trattati di carattere umanitario, in particolare alle disposizioni che vietano ogni forma di rappresaglia nei confronti delle persone protette da detti trattati. È chiaro che l’articolo non fa alcun riferimento alle norme di jus cogens né sembra potersi dedurre dalla sua formulazione che tutte indistintamente le norme poste a tutela della persona umana siano considerate cogenti. Risulta pertanto non chiaro il ragionamento della Camera e in particolare il ricorso alla nozione di jus cogens per affermare un principio che è applicabile di per sé ai sensi dell’art. 60, par. 5, nei confronti delle norme che tutelano i diritti dell’uomo, a prescindere dalla loro qualificazione come norme cogenti.
Un approccio simile a quello seguito dal Tribunale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia sembra essere stato seguito dalla Commissione interamericana dei diritti dell’uomo in merito all’effetto della violazione di norme cogenti sulle riserve apposte ai trattati dagli Stati. Si tratta della risoluzione n. 3/87 adottata il 22 settembre 1987 nella quale la Commissione ha affrontato il caso di due individui, Roach e Pinkerton, condannati negli Stati Uniti alla pena di morte per reati commessi prima del compimento della maggiore età 18. Si trattava di stabilire se gli Stati Uniti avessero violato l’art. 4 della Convenzione interamericana che tutela il diritto alla vita e l’art. 5, par. 5, il quale prevede che i minori di età siano sottoposti a procedimenti e pene diverse da quelle previste per gli adulti, norme alle quali gli Stati Uniti avevano apposto una riserva. La Commissione interamericana ha fatto ricorso alla nozione di jus cogens per concludere che gli Stati Uniti avevano violato entrambe le norme della Convenzione interamericana. Partendo dal presupposto per cui le norme cogenti sono norme necessarie a proteggere il pubblico interesse della società degli Stati, la Commissione ha affermato che il divieto di pronunciare una condanna capitale nei confronti di persone che non abbiano raggiunto l’età di 18 anni è oggetto di una norma di jus cogens in quanto tale non derogabile. In questo senso la Commissione ha fatto riferimento all’art. 53 della Convenzione di Vienna che come si è sottolineato definisce le norme di jus cogens in quanto norme inderogabili mediante trattato.
Proprio alla luce del contenuto dell’art. 53 ci sembra che la Commissione abbia impropriamente considerato la riserva apposta dagli Stati Uniti alla stregua di un trattato che in quanto tale non avrebbe potuto derogare ad una norma cogente. Ci sembra pertanto che anche in questo caso si sia cercato di associare allo jus cogens un effetto che sarebbe stato comunque ricostruibile sulla base del diritto internazionale, in particolare sulla base della norma che vieta agli Stati l’apposizione di riserve contrarie all’oggetto e allo scopo del trattato. In altri termini, la Commissione avrebbe potuto giungere alla medesima conclusione, risultando probabilmente più convincente, se avesse impostato il proprio ragionamento sulla contrarietà delle riserve apposte dagli Stati Uniti all’oggetto e allo scopo della Convenzione interamericana ma prescindendo dalla natura cogente di tali norme.
 
7. La tutela dei diritti dell’uomo
L’affermazione dei diritti dell’uomo nell’ambito del diritto internazionale ha radici lontane e per lungo tempo si è ritenuto che questa materia rientrasse nella competenza domestica di uno Stato e quindi in suscettibile di ingerenza da parte di altri Paesi([9]). I diritti umani hanno subito nel tempo una notevole evoluzione, soprattutto analizzando quali sono quei diritti fondamentali la cui violazione potrebbe rendere legittima l’ingerenza umanitaria ([10]).
Un primo cambiamento si verificò dopo la fine della prima guerra mondiale, quando in diversi trattati di pace furono inserite clausole relative ai diritti da attribuire ai cittadini di uno Stato appartenenti a determinate minoranze etniche, religiose o linguistiche. Soltanto con la fine della seconda guerra mondiale si ebbe una chiara affermazione dei diritti dell’uomo anche sul piano internazionale. Infatti con la Carta delle Nazioni si ottenne il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione. L’art. 55 ribadisce che il rispetto dei diritti dell’uomo è una condizione necessaria per il conseguimento della pace e della stabilità delle Nazioni.
Un’imponente serie di dati della pratica internazionale dimostra infatti, che la materia dei diritti dell’uomo, è sottratta alla esclusiva competenza interna degli stati in quanto alcuni diritti ritenuti veramente fondamentali fanno parte di quella particolare categoria che è diritto cogente e per i quali non è ammissibile nemmeno una sospensione in presenza di circostanze eccezionali quali una situazione di conflitto o di gravi tensioni interne. In particolare l’art. 4 del patto sui diritti civili e politici per il quale non è possibile, neanche in caso di necessità sospendere il godimento del diritto alla vita, del diritto a non subire torture, del diritto a non essere sottoposto a schiavitù o a lavoro forzato, del diritto a non essere imprigionato per debiti contrattuali.
Quindi la qualifica delle norme poste a tutela dei diritti fondamentali dell’individuo come norme di jus cogens induce non solo ad affermare la nullità assoluta dei trattati in contrasto con esse, ma consente ad ogni Stato di chiedere l’osservanza di tale norme. Tutti gli Stati hanno un interesse giuridico a che siano osservate le norme sui diritti umani, per cui gli obblighi da esse derivanti devono essere considerati erga omnes, in quanto basati sulla concorrente potenziale attività degli Stati operanti uti universi.
 
8. Norme jus cogens in contrasto con i Trattati internazionali
Per quanto riguarda le norme jus cogens l’opinione generale della dottrina che dopo la conclusione della Conferenza di Vienna, esistevano norme imperative nel diritto internazionale([11]). Secondo Gros-Espiell l’idea dello jus cogens non è stata, associata a nessuna scuola di pensiero giuridico, ma autori di diverso orientamento teoretico, hanno accettato l’esistenza delle norme imperative. Alexidze, affermava che si poteva parlare di un concetto socialista di jus cogens internazionale,riconoscente, nel diritto internazionale generale, di norme imperative che non permettano nessuna deroga da parte dei trattati inter se. E’ sua opinione, che è stata condivisa da molti autori occidentali, l’esistenza dello jus cogens nel diritto internazionale contemporaneo. Secondo lui, è da ritenersi che ci sia l’esistenza di norme imperative o che mettano in guardia contro l’introduzione dell’istituto della norma imperativa nelle relazioni tra Stati, per via della mancanza di una precisa definizione del suo contenuto: secondo tale posizione, la possibilità di appellarsi allo jus cogens creerebbe anarchia.
Rozakis sostenne che,tutte le norme di diritto internazionale avevano il carattere dello jus dispositivum e che l’unica condizione, per la validità di tale norme, era l’esistenza di consenso espresso debitamente tra le parti. Secondo l’autore, la Convenzione di Vienna era la prima ad aver introdotto il concetto jus cogens, essendo l’unico strumento autoritativo che offriva, in uno con i propri lavori preparatori, la prova incontestata dell’accettazione del concetto jus cogens da parte di tutta la Comunità Internazionale.
Il concetto jus cogens, era secondo Rozakis, il risultato di un bisogno sentito dagli Stati.Infatti questi avevano realizzato che, in una società vasta, diversificata e caotica certe norme giuridiche severe debbano esistere, per frenare e per costituire una solida base per relazioni pacifiche([12]).
Lo jus cogens veniva concepito come lo standard giuridico minimo per l’ordine mondiale e come una manifestazione della istituzionalizzazione della Comunità Internazionale. Sztucki fu invece molto critico nell’esistenza dello jus cogens nel diritto internazionale. Egli affermava che mancava, sia nella prassi degli Stati che nella giurisprudenza internazionale, ogni richiamo allo stesso e si oppose all’ipotesi di una esistenza nel diritto internazionale. Szutcki affermò di non essere convinto che i trattati contrari a norme imperative presunte, si potessero invalidare, poiché non esisterebbe un effettivo potere pubblico che faccia rispettare lo jus cogens. Concluse quindi affermando che lo jus cogens, fosse un concetto sviluppatosi nell’ambito del diritto internazionale che trovava il proprio apice con l’inclusione della fattispecie del conflitto tra trattati e norme imperative, nelle cause di “invalidità. Estinzione e Sospensione dell’applicazione dei Trattati”.
Hannikainen criticò duramente la posizione di Sztuchi contro l’esistenza di norme imperative nel diritto internazionale,ritenendola molto tendenziosa. Lo studioso finlandese, affermò che Sztucki non avrebbe analizzato in dettaglio la definizione di norma imperativa contenuta nell’art. 53 della Convenzione. Non discuterebbe i criteri per distinguere tra norme jus cogens e jus dispositivum e presterebbe scarsa attenzione alle norme sul cui carattere imperativo, ci sarebbe largo accordo. Anche Gomez-Robledo affermò che solo durante l’era ONU si può parlare di jus cogens universale.
Se si accetta di considerare che il sistema giuridico internazionale sia pur sempre un sistema giuridico, nonostante le differenze con i sistemi giuridici propriamente detti, non gli si possono negare dei concetti che, per i sistemi giuridici, sono essenziali alla propria esistenza e supremazia rispetto alla volontà dei singoli. La Convenzione sul diritto dei trattati, stipulata a Vienna, aveva lo scopo principale la codificazione dei principi in materia di diritto dei trattati. Essa costituisce, una convenzione di codificazione, ossia, utilizzando la definizione contenuta nello Statuto della International Law Commission (ILC), di: formulazione e sistematizzazione di norme di diritto internazionale in campi dove già vi sono state prassi, precedenti e dottrina di tipo esteso. Nel sistemare la materia relativa ad “invalidità, estinzione e sospensione dell’applicazione dei trattati” ed a seguito di diverse discussioni tra i rappresentanti degli stati stipulanti, la ILC è venuta a delineare una nuova causa di invalidità dei trattati che è disciplinata dall’art. 53: E’ nullo qualsiasi trattato che al momento della sua conclusione, è in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale generale. E’ da considerarsi, ai fini della convenzione, norma imperativa, una norma accettata e riconosciuta dalla comunità degli Stati nel suo insieme come norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto con una successiva norma avente lo stesso carattere. L’articolo 53, nel sancire la nullità di un trattato in conflitto con una norma imperativa, si preoccupa innanzi tutto di definire norma imperativa, in modo da poter dare tutti la stessa interpretazione e individuare subito quale sia la norma imperativa e poi stabilire se il trattato sia in conflitto o meno con essa. Infatti per definire lo jus cogens si erano delineati alcuni orientamenti principali che avevano soluzioni diverse. Un primo orientamento indicava qualche soluzione per l’elaborazione di un elenco tassativo di norme ritenute imperative. L’ultimo orientamento, riteneva per contro, che fosse sufficiente dare una definizione generale di jus cogens con cui fosse possibile identificare le norme imperative. Quest’ultimo fu il metodo prescelto per redigere l’art. 53, considerata l’impossibilità di mettersi d’accordo su quali dovessero essere in concreto le norme da identificare come norme imperative. L’art. 53 non ci dice però quali norme si intendano per norme di diritto internazionale generale. Per norma di diritto internazionale generale deve intendersi una norma che vincola tutti i membri della Comunità Internazionale. Dunque una norma di diritto internazionale generale è una norma applicabile a tutti gli Stati facenti parte della Comunità Internazionale. Quindi l’interprete deve stabilire se la norma di fronte al quale si trovi sia o meno una norma vincolante per la grande maggioranza degli Stati.
Un trattato, sussistendo il principio della autonomia della volontà degli Stati, potrà regolare qualsivoglia materia che gli Stati ritengano importante regolare. Questa regolamentazione potrà avvenire in deroga ad alcune norme consuetudinarie che abitualmente disciplinano quella determinata materia, ponendosi in posizione di lex specialis che deroga un diritto di portata generale quale il diritto consuetudinario. Il diritto consuetudinario, afferma Rozakis, è un sistema giuridico consensuale e finchè vivrà il consenso degli Stati intorno all’obbligatorietà giuridica di una determinata norma, vivrà la norma. Per la particolare caratteristica inerente alle norme di diritto consuetudinario, non può non concludersi che una norma imperativa potrà nascere quale norma di diritto consuetudinario.
Se le norme imperative possono appartenere alla categoria del diritto consuetudinario, ci si chiede se queste possano far parte a quelle del diritto pattizio. Può un trattato dar vita a norme inderogabili per l’intera comunità degli Stati? Prima di tutto bisogna fare una netta distinzione dei trattati. Infatti nono tutti i trattati possono considerarsi uguali: un trattato multilaterale può contare sulla firma da parte di molti Stati e quindi non potrà che tendere a porsi su di un gradino più alto rispetto ad eventuali accordi bilaterali. Per ottenere questa posizione di privilegio rispetto ad accordi successivi, si include tra le disposizioni di un trattato una clausola di non applicabilità in base alla quale si stabilisce che, nel caso di contrasto tra le norme del trattato ed altri accordi, prevarranno le norme del trattato. Un trattato multilaterale, sancendo la propria superiorità, finisca con l’avere al suo interno vere e proprie norme imperative, grazie proprio a questa clausola che ne sancisce l’inderogabilità. Ma se si considera che le norme imperative, proprio per la loro inderogabilità, non ammettono regolamentazioni diverse e divergenti da quanto dispongono ed in caso di conflitto sanciscono la nullità degli accordi divergenti, sembra azzardato parlare di nullità di accordi a base ristretta che dispongono diversamente rispetto ad un trattato multilaterale, in presenza di una clausola di non applicabilità contenuta nel trattato: nullità e non applicabilità sono due concetti diversi. Si pensi all’articolo 103 della Carta ONU, questo non afferma l’invalidità degli accordi in conflitto con la carta, ma la prevalenza degli obblighi assunti con altri accordi internazionali. La Carta non chiede la nullità di questi obblighi, ma la prevalenza dei propri ([13]).Così altri trattati multilaterali non comminano la nullità ad accordi contrari ma indicano la necessità di non applicare gli accordi contrari per tener fede agli impegni presi con tali trattai.. Se la via da praticare, per affermare che una norma imperativa possa originarsi da un trattato, è quella della clausola di non applicabilità, gli sbocchi sono pochi se non nulli: confondere nullità ed applicabilità non è una buona cosa.
Infatti, afferma Ronzitti: se due Stati, parti della convenzione multilaterale in cui vi è inserita la clausola in questione, concludono un accordo contrario, tali stati commettono un illecito internazionale, ma l’accordo è valido. E’ da preferirsi l’opinione che afferma, che una norma di un trattato possa diventare una norma consuetudinaria e quindi di portata generale, e possibilmente imperativa, cioè, una norma patrizia può, col tempo essere sentita come obbligo giuridico da parte dell’intera Comunità di Stati. Questo ragionamento, però, vale per norma consuetudinarie che si originino da strumenti pattizi di carattere mondiale, perché, in caso di consuetudini originate da accordi regionali o locali, si parlerà di consuetudini regionali o locali, in quanto consuetudinarie, essendo in uso in zone delimitate. Per acquisire il carattere della generalità, la consuetudine dovrebbe diffondersi lentamente nelle zone adiacenti sino a raggiungere la maggior parte di territorio su cui insiste la Comunità. Alcuni affermavano che un trattato potesse creare jus cogens, ma che si opponeva a tale tesi affermava che la maggior parte dei trattati multilaterali prevedevano clausole di estinzione o denuncia che difficilmente potevano far pensare alla creazione di norme imperative di diritto internazionale generale. In sostanza, sarebbe difficile pensare che ci si può sottrarre ad una norma imperativa. I trattati possono avere valenza codificatoria di norme imperative già esistenti di cui possono fissare il contenuto. Unico valore, nell’ambito produttivo del diritto, che si può riconoscere al trattato, è la capacità di codificare,sistematizzandole, norme già esistenti. Da questa considerazioni emerge che quando l’articolo 53 parla di norma imperativa come norma appartenente al diritto internazionale generale, per diritto internazionale generale deve intendersi il diritto di origine consuetudinaria.
Uno dei requisiti della norma inderogabile è l’accettazione e riconoscimento da parte della Comunità degli Stati nel suo insieme. Il primo criterio dettato dall’articolo 53 per l’individuazione di una norma imperativa, è il criterio della generalità del diritto. Se una norma imperativa esiste, è da ricercarsi nell’ambito del diritto internazionale generale, ossia, il diritto consuetudinario([14]). Ma questo non è l’unico criterio: è norma imperativa del diritto internazionale generale una norma accettata e riconosciuta dalla Comunità Internazionale degli Stati nel suo insieme come norma alla quale non è consentita alcuna deroga. Quindi detto articolo, oltre che delimitare il campo di ricerca, fornisce il criterio per distinguere, le norme imperative, ossia quelle norme alle quali gli Stati, non solo sono vincolati, ma dalle quali non possono prescindere nei loro rapporti pattizi pena la nullità. L’articolo 53 crea un imbarazzante equivoco, prima, si affermerebbe che la norma imperativa è una norma appartenente al diritto consuetudinario, poi, si ammetterebbe che tramite un accordo gli Stati possono riconoscere una determinata norma pattizia come avente carattere imperativo. La formula accettazione e riconoscimento impiegata dall’articolo 53 non è altro che un’endiadi con cui si è inteso far riferimento alla convenzione degli Stati intorno alla natura inderogabile della norma ([15]).
Nonostante le critiche sollevate, l’articolo 53 sembra dire molto di più, infatti Ronzitti, afferma che l’elemento differenziale tra la formazione di una semplice norma consuetudinaria ed una imperativa è il particolare modo di atteggiarsi dell’elemento psicologico. Una norma può nascere come semplice norma consuetudinaria e successivamente, acquisire il carattere di norma imperativa. La Conferenza di Vienna, riuscì quindi, partendo dal testo finale del progetto della ILC, riguardo al futuro articolo 53, a dare una definizione più consistente e specifica di jus cogens, rispetto al progetto stesso: l’aggiunta dell’inciso “accettata e riconosciuta dalla Comunità Internazionale degli Stati nel suo insieme” voleva sgombrare il campo ad ogni riferimento al diritto naturale nel solco di quanto aveva già tentato di fare con il suo ultimo rapporto lo stesso Waldock, rispetto ai precedenti relatori del progetto di Convenzione sul Diritto dei Trattati (Lauterpacht e Fitzmaurice).
 
9. Il problema della determinazione del contenuto dello jus cogens
Dopo aver analizzato l’origine del concetto di jus cogens non resta che chiederci, quali sono le norme di jus cogens, ossia quali norme del diritto internazionale generale posseggano quelle qualità, che le distinguono dalle altre norme del diritto internazionale generale.Una parte della dottrina ha cercato di individuare il contenuto delle norme imperative indicando quei trattati che fossero ritenuti come stipulati in violazione dello jus cogens. Altra ha indicato come norme imperative tre principi: pacta sunt serranda, divieto di ricorso alla guerra e riconoscimento della dignità umana. La ILC preferì che la definizione del contenuto dello jus cogens era lasciata alla prassi degli Stati ed alla giurisprudenza. Una parte della dottrina, ritiene fermamente che il contenuto di una norma jus cogens possa emergere solo in un particolare caso, in cui si presuma una violazione di jus cogens, sia portato innanzi ad un giudice internazionale, cioè la Corte Internazionale di Giustizia, innanzi alla quale uno Stato può sollevare una questione inerente il contrasto di un trattato con lo jus cogens. Infatti, Suy affermava che sembrasse irrealistico cercare, lo jus cogens formulato in norme precise. Sempre a favore del metodo giudiziale, si espresse Amerasinghe affermando che servisse a dare sostanza ad un concetto su cui i governanti non ragionavano in astratto, ma solo relativamente ad casi concreti che potevano essere sollevati innanzi ad un organo giudicante. Molte sono state le critiche, perché legare la determinazione dello jus cogens alle pronunce della giurisdizione internazionale, avrebbe scoraggiato, gli Stati, a sottoporre controversie internazionali a tale giurisdizione. Infatti, Tenekides, affermava che se la giurisdizione era una garanzia contro lo stato che si volesse fare giustizia da se, aveva i suoi pericoli in quanto, conferire al giudice il potere di determinare, in un modo soggettivo, quali regole appartengano allo jus cogens, sommato al potere discrezionale, avrebbe potuto accrescere la tendenza degli Stati a non sottoporsi ed a evitare la giurisdizione obbligatoria. Virally affermava, che potrebbe diventare più facile per gli Satti accettare la giurisdizione obbligatoria se conoscessero in via preliminare quali criteri e standards il giudice avrebbe applicato.Tutto questo perché, secondo lui, ero inverosimile che gli Stati accettassero di delegare al giudice internazionale il compito di individuare il contenuto delle norme jus cogens trattandosi di un concetto altamente politico. Chi si opponeva con metodi giudiziari affermava che il giudice non potesse legiferare ma dovesse solo applicare le norme giuridiche così come fossero emerse nella prassi degli Stati.
Ora sorge il problema di individuare il criterio definitivo per rilevare l’esistenza di una norma di jus cogens. La dottrina si divide tra coloro che ritengono che si deve considerare gli effetti della norma jus cogens e coloro che ritengono che si debba considerare il contenuto. Gli studiosi soffermarono la propria attenzione agli effetti della norma, affermando che principale effetto della norma imperativa era rendere nullo ogni trattato con essa in conflitto.
C’era anche chi sosteneva la definizione dello jus cogens facendo riferimento ai suoi effetti, non riusciva, però, a non fare a meno di portare esempi di contenuto di norme imperative. A tal proposito Geamanu propose come norme sicuramente di jus cogens quelle che avessero un certo ruolo nel mantenimento della pace e della sicurezza indicando i principi dell’articolo2 della Carta ONU ed il principio dell’autodeterminazione come ricedenti in questa definizione. Alla conferenza di Lagonissi in Grecia nel tentativo di dare un contenuto alle norme di jus cogens vi si è fatto riferimento più volte ai principi della Carta ONU contenuti negli articoli 1 e 2, come a norme di jus cogens, in quanto racchiuderebbero principi fondamentali per l’esistenza della Comunità Internazionale.Principi che quindi non dovrebbero obbligare solo i Membri dell’ONU ma anche gli Stati non Membri.Ed a parziale sostegno di questa opinionista il paragrafo 6 dello stesso articolo 2 che, nel quadro del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, ritenute da molti come il polmone naturale entro cui lo jus cogens può svilupparsi, vista l’importanza fondamentale della pace e della sicurezza internazionale, e assegnava all’ONU il compito di fare in modo che anche gli Stati non Membri delle Nazioni Unite agiscano a conformità di questi principi. 
Quindi, se formalmente gli Stati non membri non erano obbligati ad attuare le risoluzioni ONU, in pratica venivano invitati a conformarvisi allo scopo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. L’ultimo relatore Waldock indicava il divieto dell’uso della forza come norma, sul cui valore imperativo, no era possibile sollevare dubbi ed incertezze. La stessa ILC, nel commento finale al progetto di Convenzione sul Diritto dei Trattati, affermava che il divieto dell’uso della forza costituiva un cospicuo esempio di norma internazionale avente carattere imperativo e che riscuoteva un consenso pressoché unanime. In seno alla successiva conferenza di Vienna, le delegazioni, alla richiesta di indicare concretamente quali fossero le norme imperative del diritto internazionale generale, indicarono in gran parte l’uso della forza come sicura norma jus cogens. Un terzo delle delegazioni che decisero di fare degli esempi di norme imperative, indicarono oltre il divieto dell’uso della forza a scopo aggressivo, il rispetto dei diritti umani e l’autodeterminazione dei popoli.
 
10. Conclusioni
La prassi esaminata consente di svolgere alcune osservazioni conclusive: In primo luogo, appare chiara l’esistenza di norme il cui rispetto è stato in più occasioni considerato “fondamentale”. Tuttavia il secondo aspetto da osservare è l’utilizzo che i giudici fanno delle norme cogenti. Si è osservato in questo senso che la maggior parte delle volte è stato fatto ricorso alla nozione di jus cogens per rafforzare effetti sul piano giuridico deducibili dalle norme internazionali vigenti e a prescindere dalla loro qualificazione come norme cogenti. In altri termini, il fatto di qualificare imperativa una norma internazionale, nella prassi analizzata, non ha mai rappresentato un presupposto fondamentale per dedurre effetti giuridici che non sarebbero stati altrimenti applicabili sulla base delle norme internazionali “ordinarie”. Ci riferiamo in questo senso agli effetti ricondotti nella prassi e in dottrina alla qualificazione delle norme che vietano i crimini internazionali come norme cogenti e in particolare al principio dell’universalità della giurisdizione penale o dell’imprescrittibilità dei crimini. In altri ambiti tuttavia, laddove al contrario era necessario individuare un elemento nuovo e determinante per giustificare un effetto che non sarebbe stato possibile applicare sulla base del diritto internazionale “ordinario”, come nel caso dell’immunità degli Stati, si è registrata la tendenza prevalente della prassi a non riconoscere l’effetto del venir meno di tale immunità come conseguenza della violazione di norme cogenti. Il che ci porta a osservare che il contenuto delle norme di jus cogens è stato nettamente distinto dalla questione degli effetti ad esse riconducibili. In altri termini, il fatto di considerare cogente una norma internazionale non ha comportato automaticamente il verificarsi di una serie di effetti giuridici. Piuttosto, la prassi sembra confermare che allo stato attuale del diritto internazionale il termine jus cogens viene utilizzato prevalentemente come strumento per identificare valori ritenuti o che si dovrebbero ritenere fondamentali nella comunità internazionale. Laddove una simile prassi risulti diffusa cioè seguita dalla gran parte degli Stati, la nozione di jus cogens potrebbe contribuire alla determinazione dei valori condivisi della comunità internazionale restando peraltro da determinare, sempre in base alla prassi, quali siano gli effetti giuridici delle norme che incorporano tali valori da distinguersi in base ai diversi ambiti di applicazione.
 
Dott. Marco Vita
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
11.Bibliografia
 
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CICIRIELLO, Appunti delle lezioni di diritto internazionale, Editoriale Scientifica, 2006.
CONFORTI, Diritto Internazionale, Edizione Scientifica, 2006.
DE STEFANI, Il diritto internazionale dei diritti umani, il diritto nella Comunità internazionale, ed. Cedam, 1994.
DE STEFANI, LEITA, La tutela giuridica internazionale dei diritti umani. Casi e materiali, Cedam,1996.
LIAKOPOULOS, L’ingerenza umanitaria nel diritto internazionale e comunitario, Cedam, 2007.
MARELLI, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, in Due Convegni su Giuseppe Caporossi, Giuffrè, pp. 537 ss.
MORELLI, A proposito di norme internazionali cogenti, in Rivista di diritto internazionale, 1968.
SAULLE, Lezioni di organizzazione internazionale, ESI, pp.110 ss.
SCOVAZZI, Corso di diritto internazionale, parte II, Giuffrè, 2006.
STROZZI, Il diritto dei Trattati, Giappichelli, ultima edizione.
TORRENTE-SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano 1994, pagg.18-19.
VEDOVATO, L’estinzione dei trattati nella storia e nella prassi internazionale, Firenze, ultima edizione.


[1]         M.C.CICIRIELLO, Appunti delle lezioni di diritto internazionale, Editoriale Scientifica 2006.
 
[2]        G.STROZZI, Il diritto dei trattati, Giappichelli, ultima edizione.
[3]        www.Studiamo.it
[4]        M.C. CICIRIELLO, Appunti delle lezioni di diritto internazionale, op. cit.
 
[5]              B. CONFORTI, Diritto internazionale, ultima edizione, ed. Editoriale scientifica.
[6]        B. CONFORTI, Diritto Internazionale, op. cit.
[7]        G. VEDOVATO, L’estinzione dei trattati nella storia e nella prassi internazionale
[8]        Torrente-Schlesinger, Manuale di Diritto Privato, Milano 1994, pagg. 18-19
[9]        D. LIAKOPOULOS, L’ingerenza umanitaria nel diritto internazionale e comunitario, ed. Cedam 2007
[10]       Cfr. MORELLI, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, in Due Convegni su Giuseppe Caporossi, Giuffrè, pp. 537 ss. BARTOLOMEI, La protezione dei diritti umani nell’ordinamento internazionale, Società ed. foro italiano, Roma,1958. DE STEFANI, Il diritto internazionale dei diritti umani, il diritto nella Comunità internazionale, ed. Cedam, 1994. DE STEFANI, LEITA, La tutela giuridica internazionale dei diritti umani. Casi e materiali, Cedam,1996. SAULLE, Lezioni di organizzazione internazionale, ESI, ultima edizione, pp. 110 ss.
[11]       MORELLI, A proposito di norme internazionali cogenti, in Rivista di diritto internazionale, 1968. BERNARDINI, Qualche riflessione su norme internazionali di jus cogens e giurisdizione della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, in Il processo internazionale, Studi in onore di G. Morelli, in Rivista Comunicazioni e Studi, 1975.
[12]       D. LIAKOPOULOS, L’ingerenza umanitaria nel diritto internazionale e comunitario, Cedam 2007
 
[13]       CICIRIELLO, Appunti delle lezioni di diritto internazionale, op. cit.,
[14]       SCOVAZZI, Corso di diritto internazionale, parte II, Giuffrè, 2006.
[15]       CASSESE, Diritto internazionale, op. cit.,

Vita Marco

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