Delitto preterintenzionale, reati circostanziati e morte o lesioni come conseguenza di altro delitto: l’elemento psicologico dell’evento più grave

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Principio di colpevolezza e imputazione obiettiva: il parametro dell’art.27 Cost. nell’interpretazione delle fattispecie dubbie

Qualunque evento naturale è normalmente riconducibile a un fatto che l’ha cagionato.

Questo legame derivativo caratterizza gli eventi scaturiti dalle condotte umane, i quali, per essere riconducibili ad un soggetto determinato, impongono la presenza di un nesso eziologico di carattere materiale, che trovi riscontro in una legge scientifica di regolarità causale.

Se tale presupposto è necessario in termini naturalistici, non è altrettanto sufficiente da punto di vista penale, secondo cui l’imputazione di un evento criminoso necessita di essere sorretta anche dall’elemento psicologico, comunemente definito elemento soggettivo.

La causalità, che viene dunque ad intendersi come psicologica, ha trovato affermazione attraverso il broccardo nullum crimen sine culpa, che consacra il principio secondo cui nessuno può essere accusato di un crimine che non abbia commesso con colpa, rectius colpevolezza, ovvero per il sol fatto del nesso causale.

Se è vero che tale principio manca di affermazione espressa nell’ordinamento, è però altrettanto pacifico che esso costituisce l’essenza dell’art.27 Cost, ove sono sanciti: il principio della responsabilità penale personale, la funzione rieducativa della pena e la non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna.

In particolare, assume carattere significativo l’assunto secondo cui l’effetto rieducativo della sanzione trova la sua massima funzionalità nella misura in cui il reo è pienamente consapevole del proprio grado di colpevolezza; diversamente, l’assenza del fattore psicologico precluderebbe questa consapevolezza e con essa l’effetto utile della punizione.

Si può ulteriormente ritenere che la colpevolezza sia diversamente deducibile da un altro principio espresso nell’art.25 comma 2 Cost., il quale sancisce il divieto di retroattività della norma penale sfavorevole sopravvenuta al fatto e ciò in virtù di un ragionamento deduttivo.

L’irretroattività, invero, è posta a presidio della colpevolezza in quanto colui che ha commesso il fatto, quando il precetto sopravvenuto non era ancora operante, non poteva prevedere le conseguenze sostanziali e sanzionatorie del proprio agire.

Di conseguenza non potrebbe ritenersi in colpa colui che commette un fatto che, al tempo in cui fu commesso, non era previsto dalla legge come reato, poiché non poteva prevederlo e autodeterminarsi liberamente.

La ricostruzione sistematica del principio trova conferma negli artt.6-7 CEDU e 48-49 della Carta di Nizza, da cui è ormai agevolmente possibile affermare l’illegittimità all’interno del nostro sistema penale di forme di responsabilità oggettiva che, lungi dall’indagare sull’elemento psicologico, vanno ad imputare al soggetto gli elementi essenziali di una fattispecie criminosa.

Assodato che l’ordinamento bandisce tale forma di imputazione, quanto meno per ciò che riguarda gli elementi essenziali del reato, il problema che si è sempre posto nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale è semmai legato all’anteriorità temporale, rispetto alla Costituzione, di un codice penale che rappresenta l’espressione della codificazione totalitaria.

Un sistema penale che nel 1930 avrebbe dovuto rappresentare il braccio forte del regime, non poteva esser esente da forme, anche velate, di responsabilità oggettiva, le quali sarebbero venute a scontrarsi inevitabilmente con l’interpretazione costituzionale successiva.

Non a caso, il principale riferimento su cui si innestano le varie fattispecie dubbie lo si trova nell’art.42 comma 3 c.p., il quale statuisce che è la legge a determinare i casi in cui l’evento “è altrimenti posto a carico dell’agente come conseguenza della sua azione o omissione”.

Cosicché delle due l’una: o le fattispecie dubbie si sarebbero dovute rileggere in chiave costituzionale, oppure avrebbero dovuto essere espunte dall’ordinamento.

Tra le ipotesi in questione, quali ad esempio l’aberractio ictus e l’aberratio delicti, o gli artt.116-117 c.p., vengono in evidenza tre forme di imputazione apparentemente analoghe, ma profondamente differenti dal punto di vista della ricostruzione dell’elemento psicologico: il delitto preterintezionale ex art.584 c.p., i delitti aggravati dall’evento e la morte come conseguenza di altro delitto ex art.586 c.p.

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Il delitto preterintenzionale: l’imputazione soggettiva dell’evento morte nella fattispecie tipica dell’art.584 c.p

Come per le altre ipotesi dubbie, anche le tre fattispecie sopracitate necessitavano di una reinterpretazione conforme ai parametri dell’art.27 Cost. che potesse intervenire sull’elemento soggettivo del c.d. “evento non voluto” dall’autore del reato.

Ebbene, per poter pervenire alla qualificazione dell’elemento soggettivo è però necessario descrivere la struttura delle fattispecie.

Il delitto preterintenzionale, o oltre l’intenzione, trova disciplina nell’art.42 comma 2 c.p., quale forma eccezionale, insieme alla colpa, con cui il legislatore può espressamente imputare le fattispecie delittuose.

Invero, attualmente il codice positivizza solo due forme di reato preterintenzionale: l’omicidio preterintenzionale ex art.584 c.p. e l’aborto preterintenzionale, oggetto tra l’altro di recente riforma con l’introduzione dell’art.593 ter c.p.

Assumendo l’art.584 c.p. come paradigma dell’indagine sull’elemento soggettivo, è possibile evidenziare come l’omicidio preterintenzionale, al pari dei delitti aggravati dall’evento e dall’art.586 c.p., si componga di una struttura bifasica costituita da un evento meno grave, voluto dall’agente, e un evento più grave non voluto.

È pacifico che l’evento meno grave, identificato dal legislatore nelle fattispecie tipiche di percosse e lesioni di cui agli artt.581-582 c.p., debba essere sorretto dall’elemento del dolo quantomeno intenzionale.

Si può ritenere altresì che gli “atti diretti” a commettere le fattispecie tipiche debbano almeno raggiungere lo stadio del tentativo.

Questa conclusione non è altrettanto scontata per ciò che riguarda l’evento più grave, la morte della vittima, del quale si è reso opportuno ricercare un nesso psicologico che eviti forme di imputazione di carattere obiettivo.

Dalla lettura dell’art.584 c.p., di certo, si può avallare con facilità la tesi della responsabilità oggettiva dell’evento più grave per una serie di ragioni.

In primo luogo, la ratio della norma espressa anche nella Relazione ministeriale è del tutto incentrata sulla tutela dell’integrità fisica della persona, che sarebbe vulnerata dalla possibile degenerazione della condotta base di percosse e lesioni.

In tale senso, la norma si deve ritener strutturata secondo una normale progressione causale dell’azione o dell’omissione di chi già versa in re illicita e, tanto basterebbe, per giustificare l’imputazione oggettiva dell’evento più grave.

È dunque possibile ritenere che il c.d. “dolo misto a responsabilità oggettiva” si fonda sul principio secondo cui chi versa in re illicita è tenuto anche alle conseguenze causali che ne derivano, in virtù di quella ratio ultra garantista insita nella fattispecie.

Del resto, le norme di riferimento sembrano non lasciare spazio a soluzioni differenti, stante quel particolare inciso presente nel comma 3 dell’art.42 c.p., ove si stabilisce che è la legge a determinare i casi in cui l’evento è altrimenti posto a carico dell’agente come conseguenza della sua azione o omissione.

Nonostante gli argomenti a favore, è però indubbio che siffatta soluzione confligga con il principio di colpevolezza, anche qualora la si voglia concepire sotto altre vesti, che all’apparenza evocano l’imputazione dell’evento maggiore a titolo di colpa ma velando una responsabilità oggettiva.

Si sono sviluppate delle tesi che, per l’appunto, qualificano l’elemento soggettivo preterintenzionale come una forma di dolo misto a colpa specifica e presunta, secondo cui l’evento morte è sorretto da una colpa in re ipsa, dovuta per il sol fatto di aver violato una norma penale, nel caso di specie il reato di lesioni o percosse.

La colpa è presunta poiché la morte si atteggerebbe come una conseguenza in astratto prevedibile della condotta base, secondo l’id quod plerumque accidit: ciò non rende necessaria un’indagine concreta sulla prevedibilità e evitabilità dell’evento.

Anche in questo caso appare evidente che un’imputazione “presunta” e astratta prescinde erroneamente dall’analisi dello stato soggettivo e, in secondo luogo, non è concepibile discutere di colpa specifica per violazione di norma penale, stante il fatto che i delitti richiamati nell’art.584 c.p. non sono affatto regole cautelari preordinate a impedire la concretizzazione del rischio, bensì norme a carattere repressivo.

Una soluzione recente, adottata dalla giurisprudenza di legittimità, ricostruisce il delitto preterintenzionale asserendo l’unitarietà dell’elemento psicologico, il dolo appunto, che sorregge l’evento minore di percosse e lesioni.

Si ritiene infatti che il dolo del reato base si propaghi all’evento maggiore, o più precisamente attragga l’evento più grave, che deve ritenersi una conseguenza verosimile dell’evento minore, non necessitando un’indagine ad hoc sulla natura soggettiva dell’evento morte.

Questa soluzione, ancora una volta di dubbia conformità con il principio di colpevolezza, sembra addirittura richiamare il c.d. dolo generale, ovvero quella figura ottocentesca, secondo la quale il dolo della condotta iniziale attrae e sé tutte le conseguenze ulteriori.

Se così fosse, si avrebbe la stessa inaccettabile situazione che taluno ha prospettato con riferimento alla differente ipotesi del dolo colpito a mezza via da errore, ove il soggetto risponde a titolo di dolo generale anche per l’evento successivo diverso da quello voluto: tipica è l’ipotesi di chi seppellisce una persona viva credendo di averla uccisa.

Tuttavia, alla luce delle coordinate attuali, l’idea di un dolo iniziale che si propaghi a tutti gli eventi successivi non voluti è però palesemente in contrasto e con l’art.27 Cost., ma anche con lo stesso art.43 comma 1 c.p., laddove stabilisce che il dolo si ha quando l’evento è “secondo l’intenzione”, ovvero forte dell’elemento volitivo.

Deve quindi sussistere una volontà hic et nunc dell’evento per poter configurare il dolo.

La tesi che riscuote maggior adesione è però quella del dolo misto a colpa generica, ancorché sul punto devono esser fatte le opportune precisazioni.

Secondo una prima sub-ricostruzione l’evento più grave deve essere quantomeno previsto dall’agente a titolo di colpa, esso verificandosi come conseguenza della violazione di regole cautelari mirate a evitare la concretizzazione del rischio.

In questo caso si verificherebbe tuttavia una situazione paradossale: è come se l’ordinamento stabilisse che, fermo il divieto di ledere o percuotere, qualora un soggetto lo faccia deve attenersi al rispetto di quelle regole cautelari mirate ad evitare la degenerazione dei fatti nella morte della vittima. In altri termini, si ammette un dovere di conformità al modello dell’homo eiusdem conditionis ac protessionis da parte del soggetto che versa in re illicita.

Una differente opinione, maggiormente conforme sia al principio di colpevolezza che al principio di omogeneità rispetto alle fattispecie aggravate dall’evento, è quella che concepisce la preterintenzione come una forma di dolo misto a colpa oggettivizzata.

Secondo questa ricostruzione la commissione del reato base ha lo scopo di tipizzare un’area di rischio in cui sia oggettivamente prevedibile la conseguenza più grave.

Il delitto base delimita un pericolo astratto verso un bene giuridico, che sarebbe leso dall’evento più grave e che, allo stesso tempo, è omogeneo rispetto all’evento meno grave; l’omogeneità dei beni protetti, rappresenta invero, l’elemento caratterizzante la fattispecie di cui all’art.584 c.p. in ciò differenziandosi, come vedremo dall’art.586 c.p. e dai delitti aggravati dall’evento.

Anche in questo caso però, tratteggiandosi un’area di rischio, sovviene una problematica affine a quella poc’anzi prospettata, ovvero il rispetto di regole cautelari da parte di colui che delinque.

Non di meno, lo sforzo ricostruttivo dell’evento morte in termini di colpa concreta è quello maggiormente confacente ai criteri ermeneutici della Costituzione e del codice penale.

Questo vantaggio è evidente in fase di accertamento della colpa concreta dell’evento più grave: l’evento, invero, non solo deve essere la conseguenza causale della violazione di una regola cautelare, ma è altresì necessario accertare ex ante che quell’evento era concretamente evitabile e prevedibile dall’agente modello, per quanto paradossale possa ritenersi che l’agente modello sia un soggetto che versi in re illicita.

Questa conclusione è, in primo luogo, confortata dalla rilettura in chiave di colpevolezza dei residui di responsabilità oggettiva pura, avutasi anche per i delitti aggravati dall’evento e per la morte come conseguenza di altro reato, in omaggio a una ragione di coerenza e logicità di sistema.

In secondo luogo rileva l’aspetto semantico, secondo cui il legislatore, non a caso, colloca il delitto preterintenzionale tra il dolo e la colpa, come evidente nell’art.42 comma 2 c.p.

Tale scelta, lungi dall’essere intesa, come sostenuto da un alcuni, un tertium genus di imputazione, consolida l’idea dell’esistenza di un elemento soggettivo ibrido che, con riguardo all’evento maggiore, non può prescindere dalla colpevolezza.

Imputazione soggettiva nei reati circostanziati e nell’art.586 c.p

Come accennato, l’analisi delle altre fattispecie, ovvero i delitti aggravati dall’evento e la morte come conseguenza altro reato ex art.586 c.p., ha posto, in sede di conformità costituzionale, i medesimi dubbi; le stesse, caratterizzandosi per un regime di imputazione dell’evento che sembra non aprirsi all’elemento psicologico.

Nei reati aggravati dall’evento, definiti anche reati circostanziati, si ha di nuovo un evento aggravatore non voluto dall’agente e incidente sul regime sanzionatorio.

Per fare alcuni esempi, si guardi ai delitti contro la pubblica incolumità di cui agli artt.424 ss. ove l’evento nefasto consegue al danneggiamento o all’incendio doloso, ovvero alla fattispecie di maltrattamenti in famiglia o all’abuso dei mezzi di correzione, per i quali la morte può conseguire alla condotta, o ancora all’omissione di soccorso ex art.593 comma 3 c.p.

Ebbene, in tutte queste ipotesi è stata evidenziata da taluni un’analogia strutturale rispetto al delitto preterintenzionale, con il quale i delitti aggravati dall’evento condividerebbero l’assetto bifasico e l’imputazione a titolo di dolo per l’evento minore e a titolo di colpa per l’evento maggiore.

Per vero, questa analogia deve essere smentita dal fatto che, a differenza dell’art.584 c.p., le altre fattispecie spesso non si realizzano secondo una progressione lesiva volta a incidere su beni giuridici omogenei, ma determinano il verificarsi di eventi diversi in pregiudizio di beni giuridici altrettanto disomogenei.

La diversa struttura che impedisce di qualificare i reati aggravati dall’evento come tante ipotesi tipizzate di delitti preterintenzionali, ad oggi pare non più incidere sull’imputazione dell’evento ulteriore. Quest’ultimo, invero, con l’avvento della L.19/1990, sia che si tratti di una circostanza, sia che si tratti di un evento autonomo, deve sempre essere coperto quantomeno dalla colpa.

La terza fattispecie è quella dell’art.586 c.p., la quale può ritenersi fattispecie residuale, a chiusura di un assetto sistematico posto a presidio della tutela dell’incolumità fisica.

Essa è stata concepita dall’opinione prevalente come un’ipotesi speciale dell’art.83 c.p., concernente la c.d. aberratio delicti, poiché, mentre quest’ultimo imputa a titolo di colpa un evento delittuoso non voluto provocato da un errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, l’art.586 c.p. imputa invece all’agente tutti quei reati che degenerano solo nella morte della vittima.

Anche in questo caso, rispetto all’art.584 c.p., viene a mancare l’omogeneità dei beni giuridici, violati per mezzo di un delitto che è tutto fuorché di percosse o lesioni.

Con riguardo all’imputazione dell’evento morte, come per l’omicidio preterintenzionale, si sono sviluppate le medesime teorie che vanno da una lettura in chiave di responsabilità oggettiva, di colpa speciale, di colpa presunta e, in via maggioritaria, di colpa generica concreta.

L’evento morte che costituisce la conseguenza causale-materiale del delitto, quale può essere lo spaccio di stupefacenti, dovrà distinguersi per la violazione di una regola cautelare, di cui il giudice accerterà la prevedibilità e prevenibilità in concreto, secondo il parametro dell’agente modello. Siffatta soluzione “costituzionalmente orientata” del resto si pone in linea di continuità con la fattispecie madre di cui all’art.83 c.p., che richiede espressamente la colpa ai fini dell’imputazione dell’evento diverso.

In definitiva, soprattutto dopo la lapidaria sentenza della Consulta del 1988, si può ritenere che dal punto di vista dell’imputazione soggettiva, le tre fattispecie analizzate si sono allineate in maniera logica e coerente al processo di soggettivizzazione dell’illecito penale, instauratosi grazie all’opera ermeneutica della giurisprudenza costituzionale.

 

La casistica giurisprudenziale

Dal punto di vista casistico sembra opportuno verificare taluni aspetti posti all’attenzione del Giudice di legittimità in quanto, nell’individuare la fattispecie applicabile al caso concreto, le pronunce hanno toccato proprio la problematica dell’imputazione soggettiva.

Per ciò che concerne il delitto preterintenzionale, particolarmente significativa è la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale aberrante, nell’ipotesi in cui un soggetto, allo scopo di commettere un reato diverso dalle percosse e lesioni, ad esempio la rapina, provochi la morte di un terzo diverso dalla vittima predestinata.

Nel caso di specie, oltre ad aversi un errore obiettivo, l’evento diverso, avremmo anche una difformità soggettiva, giacché ad essere colpita non è la vittima della rapina ma un terzo, ucciso dalla folla in preda al panico a causa del bruciore provocato dallo spray urticante usato dai rapinatori.

La configurabilità di un delitto preterintenzionale, piuttosto che di un 586 c.p. o di una semplice aberractio delicti ex art.83 c.p., è una ricostruzione tanto interessante quanto non esente da critiche.

La giurisprudenza, invero, ha inteso dapprima individuare il reato di lesione nella struttura “complessa” della rapina, nella cui condotta è ricompresa anche la violenza sulla vittima: nel caso di specie, gli effetti provocati dallo spray urticante.

Quest’ultimo, infatti, in quanto mezzo d’esecuzione del reato, ha raggiunto il proprio scopo di arrecare panico tra la folla al fine di agevolare la sottrazione dei beni patrimoniali delle vittime.

In secondo luogo la Cassazione, applicando l’art.82 c.p., ha traslato il dolo di lesioni dalle vittime predestinate al soggetto diverso ucciso a causa del pestaggio, in quanto ciò sarebbe confacente al meccanismo della norma, ove stabilisce che l’agente risponde del reato come se lo avesse commesso nei confronti della vittima prescelta.

In definitiva, non viene in rilievo né un art.586 c.p. per il fatto che, pur trattandosi di rapina, si prende in considerazione la sola componente della lesione cagionata dallo spray e, a fortiori, non si configura nemmeno la fattispecie generale dell’aberratio delicti ex art.83 c.p.

Avremo invece un aberratio ictus in virtù della quale il dolo della lesione si trasferisce alla vittima diversa, la cui morte, verrebbe così ad integrare un reato preterintenzionale aberrante.

Siffatta ricostruzione non è esente da dubbi, tanto più se si considera la già nota incertezza circa la legittimità costituzionale dell’art.82 c.p., rispetto a quel principio di colpevolezza che imporrebbe un’imputazione a titolo di colpa per l’evento cagionato a un soggetto diverso dalla vittima del reato.

Un ultimo aspetto attiene invece alla qualificazione in termini di omicidio preterintenzionale, ovvero morte come conseguenza di altro delitto, della morte del tossicodipendente a causa di una dose letale.

In questa circostanza si rende necessario distinguere due differenti condotte dello spacciatore.

La prima vede il caso in cui lo spacciatore si sia solo limitato a cedere la dose letale, integrando così il reato di cui all’art.73 DPR n.309/90 e quindi un’ipotesi di morte come conseguenza di altro delitto, ove l’evento morte è assistito dall’elemento della colpa in concreto, a nulla rilevando tra l’altro le cessioni successive non interruttive del nesso causale.

Altro invece è parlare della condotta con cui lo spacciatore inserisce nel braccio della vittima l’ago della siringa contenente la dose letale.

In questo caso deve ritenersi integrato il reato base di lesioni dolose il cui evento morte, al pari del c.d. gioco sessuale finalizzato a provocare dolore al partner, integra perfettamente gli estremi dell’omicidio preterintenzionale, tanto in fatto di dolo del reato base, quanto in fatto di colpa concreta dell’evento più grave.

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Dott.ssa Angela Marinangeli

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