Cosa rischia chi lucra sull’emergenza?

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( Artt. 501 bis e 515 del Codice penale)

Chi, sfruttando un periodo emergenziale, procede alla vendita di prodotti a prezzi esageratamente alti o privi del marchio CE, al fine di realizzarne un ingiusto profitto, è sanzionato dal Codice penale italiano.

Lo sfruttamento di un’emergenza rischia seriamente di avere conseguenze penali in capo a chi, artatamente, pone in essere condotte illecite.

Ad esempio, vendere prodotti di prima necessità a prezzi spropositati oppure offrire articoli privi del marchio CE, sono condotte che costituiscono illecito.

Tutti coloro i quali si imbattono in simili evenienze o ne vengono a conoscenza devono, immediatamente, denunciarne gli abusi alle Autorità competenti.

Manovre speculative su merci art. 501-bis c.p.

A proposito dei prezzi esorbitanti, il Codice Penale, all’art. 501-bis, prevede il reato di “Manovre speculative su merci”.

Tale previsione normativa è stata introdotta con il decreto legge 704/1976 in seguito alla crisi energetica del ’73 come forma di contrasto alle manovre speculative a cui erano esposti gran parte di generi alimentari.

La ratio della norma trova fondamento nella necessità di tutelare il sistema economico nazionale da possibili fenomeni di accaparramento di beni di largo consumo, finalizzati all’accrescimento ingiustificato dei prezzi degli stessi con intento, prettamente, speculativo.

Non solo, tale fattispecie normativa opera, con più ampio raggio, in difesa degli operatori rispettosi delle esigenze economiche e sociali ed in difesa dei diritti dei consumatori.

Affinché possa realizzarsi il reato di “Manovre speculative su merci” occorre che l’aumento ingiustificato dei prezzi causato da un singolo commerciante determini una possibile influenza sui comportamenti degli altri operatori economici del mercato.

A tal proposito, la Corte di Cassazione ha stabilito che, affinché si integri il reato, è necessario l’aumento ingiustificato dei prezzi causato da un singolo commerciante che profitti di particolari contingenze del mercato e, conseguentemente, determini possibili influenze sui comportamenti degli altri operatori del settore, anche se poi il rincaro generale dei prezzi non dovesse avvenire.

“Ai fini della sussistenza del reato di manovre speculative su merci, può integrare in astratto una manovra speculativa anche l’aumento ingiustificato dei prezzi causato da un singolo commerciante, il quale profitti di particolari contingenze del mercato. Tuttavia, perché ciò si verifichi, è pur sempre necessario che tale condotta presenti la connotazione della pericolosità prevista dall’art. 501-bis c.p. nei confronti dell’andamento del mercato interno e, cioè, che essa, per le dimensioni dell’impresa, la notevole quantità delle merci e la possibile influenza sui comportamenti degli altri operatori del settore, possa tradursi in un rincaro dei prezzi generalizzato, o, comunque, diffuso. Invero, la consumazione del reato richiede la sussistenza di comportamenti di portata sufficientemente ampia da integrare un serio pericolo per la situazione economica generale, con il rilievo che la locuzione “mercato interno”, contenuta nella citata norma, rende certamente configurabile la fattispecie criminosa anche quando la manovra speculativa non si rifletta sul mercato nazionale, ma soltanto su di un mercato locale, però il pericolo della realizzazione degli eventi dannosi deve riguardare una zona abbastanza ampia del territorio dello Stato, in modo da poter nuocere alla pubblica economia “(Cassazione, sez. VI sentenza del 15 Maggio 1989).

 

Per dirla con un fenomeno attuale, affinché possa configurarsi il reato de quo, basta che anche un solo operatore commerciale, speculando sull’emergenza epidemiologica da COVID-19, ponga in essere una condotta, anche solo astrattamente, idonea a influenzare altri operatori.

E’ sufficiente che la condotta sia posta in essere all’interno di un mercato locale, purché riguardi una zona territoriale ampia.

La prova del reato, in una situazione emergenziale come quella citata, è agevole poiché può essere sufficiente la semplice dimostrazione della messa in vendita di un articolo di prima necessità a prezzi esorbitanti fatta da un singolo commerciante, specialmente se operante su larga scala.

Trattasi di reati di pericolo e non è punibile il tentativo.

Poiché si tratta di un reato tipico delle situazioni emergenziali, non ci sono molte altre pronunce in materia ma è evidente come non sia affatto facile bilanciare il diritto di iniziativa economica privata ed i vincoli di solidarietà sociale previsti dall’articolo 41, comma 2 della Costituzione; un compito estremamente arduo per chi si imbatterà nella risoluzione di inchieste simili.

Il comma 2 dell’articolo 501-bis punisce anche chi, in presenza di rarefazione o rincaro sul mercato interno dei beni indicati nel comma precedente e nell’esercizio delle medesime attività, “ne sottrae all’utilizzazione o al consumo rilevanti quantità”.

In questo caso, il legislatore ha inteso colpire condotte che possano aggravare le speculazioni sui prezzi.

A proposito della nozione di “rilevante quantità” è intervenuta la Cassazione, precisando che la sottrazione all’utilizzazione o al consumo concerna “rilevanti quantità” e cioè comportamenti di portata sufficientemente ampia e tale da costituire un serio pericolo per la situazione economica generale. E’ rimessa alla decisione del giudice la possibilità di coglierne la rilevanza in relazione alla normale presenza sul mercato (Cassazione penale sez. VI n. 2385 del 2 marzo 1983).

L’Autorità giudiziaria competente e, in caso di flagranza, anche gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, procedono al sequestro delle merci, osservando le norme sull’istruzione formale;

ove previsto, dispone la vendita coattiva immediata delle merci stesse nelle forme di cui all’art. 625 del codice di procedura penale.

La condanna per l’articolo 501-bis importa:

  • l’interdizione dall’esercizio di attività commerciali o industriali per le quali sia richiesto uno speciale permesso o una speciale abilitazione, autorizzazione o licenza da parte dell’autorità;
  • se commesso in danno o a vantaggio di una attività imprenditoriale, o comunque in relazione ad essa, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (art. 32-quater c.p.);
  • la pubblicazione della sentenza sul sito internet del ministero della Giustizia, nonché nei Comuni dove l’imputato è residente, è stato commesso il delitto e la sentenza è stata pronunciata.

Frode nell’esercizio del commercio art. 515 c.p.

A proposito della Frode in commercio, invece, ai sensi dell’art. 515 del Codice penale, è punito chi, “nell’esercizio di un’attività commerciale, o in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, o una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella pattuita.”

La ratio della norma si coglie nell’esigenza di tutelare la correttezza e la lealtà negli scambi commerciali, in difesa dell’esercizio del commercio nonché nella fiducia che in esso ripongono i consumatori.

 

La divergenza qualitativa è data anche dalla contraffazione o dall’assenza del marchio CE, assumendo che la sigla CE è marcatura ed è finalizzata ad attestare la conformità del prodotto a standard minimi di qualità. (Cassazione, sent. 17686 del 2019).

La marchiatura “CE”, prevista dalla direttiva 2006/42/CE, che disciplina una serie di prodotti destinati ai consumatori finali, garantisce al cittadino europeo la conformità dei dispositivi agli standard di qualità e sicurezza fissati dagli organi comunitari.

Possiede, dunque, la duplice funzione di tutelare gli interessi pubblici della salute e sicurezza dei consumatori e, pur non essendo un marchio di qualità o di origine, costituisce un «marchio amministrativo» che segnala la libera circolazione di quel prodotto nel mercato unico europeo.

Pertanto, se tale marchio dovesse risultare falso o ingannevole, il comportamento del colpevole sarebbe rilevante ai fini penali e costituirebbe reato di frode in commercio. Tale marchio infatti, pur non incidendo sulla provenienza del prodotto, incide sulla qualità e sicurezza dello stesso.

Il delitto di frode nell’esercizio del commercio è configurabile anche nel caso in cui l’acquirente non effettui alcun controllo sulla merce offerta in vendita, essendo irrilevanti sia l’atteggiamento, fraudolento o meno del venditore, sia la possibilità per l’acquirente di accorgersi della diversità della merce consegnatagli rispetto a quella richiesta (Cass. sent. 54207 del 21 dicembre 2016).

La prova del reato è abbastanza scontata poiché basta porre in stato di sequestro il prodotto venduto per compararne le caratteristiche con l’originale.

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In relazione alla commissione dei delitti contro l’industria e il commercio previsti dal codice penale si applicano anche le sanzioni pecuniarie nei confronti della persona giuridica, nel cui interesse o vantaggio è stato commesso il reato, in base all’articolo 25-bis.1. del decreto legislativo 231/2001.

In riferimento alle nuove sanzioni previste per i reati tributari, nei casi più gravi, l’azienda si ritroverà a dover pagare fino a 774.500 euro. La cifra risulta dalla moltiplicazione del valore massimo che può avere una quota, cioè 1549 euro (il minimo invece è 258 euro) per il totale delle quote sanzionabili dal reato, vale a dire 500.

Inoltre, se l’ente ha ottenuto un profitto di rilevante entità relativo al reato, la multa è incrementata di un terzo.

In tutti questi casi, si applicano delle sanzioni interdittive che prevedono:

  • il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione;
  • l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e la revoca di quelli già concessi, laddove ce ne siano;
  • il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

 

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Pasquale Palmieri

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