CORTE COSTITUZIONALE N. 77 ANNO 2007: dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e process

sentenza 15/03/07
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SENTENZA N. 77

ANNO 2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE
COSTITUZIONALE

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale
amministrativo regionale della Liguria dubita, in riferimento agli
artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, della legittimità
costituzionale dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034
(Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in
cui non consente al giudice amministrativo che declini la giurisdizione
di disporre la continuazione del processo con salvezza degli effetti
sostanziali e processuali della domanda.

2.– La questione è
fondata nei sensi di seguito precisati.

3.– Il Tribunale
rimettente pone, in termini di legittimità costituzionale, il problema
– in ordine al quale la dottrina ha da tempo e ripetutamente preso
posizione – dell’estensione al difetto di giurisdizione del principio
della conservazione degli effetti della domanda che, con il codice di
procedura civile del 1942, è stato introdotto limitatamente al caso del
difetto di competenza; estensione che, nei più organici progetti di
riforma del processo civile, era prevista in puntuali disposizioni dei
relativi disegni di legge delega.

3.1.– Sollevando la questione
in esame, il giudice rimettente si fa interprete del diffuso disagio,
per i gravi (e, non di rado, irreparabili) inconvenienti provocati da
una disciplina che, in sostanza, parte dal presupposto che l’atto
introduttivo del giudizio rivolto ad un giudice privo di giurisdizione
sia affetto da un vizio che lo rende radicalmente inidoneo a produrre
gli effetti, sia sostanziali che processuali, che la legge collega ad
un atto introduttivo che violi le regole sul riparto di competenza.

Tale disagio è accresciuto, in primo luogo, dalla circostanza che
una così rigorosa disciplina concerne un vizio dell’atto introduttivo
che scaturisce da una estremamente articolata e complessa
regolamentazione del riparto di giurisdizione: sicché non solo è
tutt’altro che agevole il compito della parte attrice, ma altrettanto
disagevole è quello del giudice il cui eventuale errore, tuttavia,
ricade interamente sulla parte (si pensi al caso del giudice che
erroneamente declini la propria giurisdizione con nuova proposizione
della domanda al giudice indicato come munito di giurisdizione, il
quale, a sua volta, la declini: la domanda riproposta al primo giudice
non potrebbe “ancorarsi” alla prima e far risalire ad essa gli effetti
sostanziali e processuali).

Questa Corte è consapevole che il
fenomeno appena illustrato ha assunto proporzioni ancor più vistose a
seguito di una propria recente pronuncia dichiarativa
dell’illegittimità costituzionale di talune norme che, secondo il
criterio dei «blocchi di materie», ripartivano la giurisdizione tra
autorità giudiziaria ordinaria e giudice amministrativo:
l’inapplicabilità, secondo la giurisprudenza assolutamente dominante,
all’ipotesi di sopravvenuta dichiarazione di illegittimità
costituzionale del principio della perpetuatio iurisdictionis
codificato nell’art. 5 cod. proc. civ. ha certamente acuito la diffusa
sensazione della sostanziale ingiustizia della disciplina vigente in
quanto, nonostante la domanda fosse stata rivolta al giudice munito di
giurisdizione secondo la legge vigente al momento della sua
proposizione, la sopravvenuta carenza di giurisdizione ne impediva o
pregiudicava la tutela giurisdizionale.

Peraltro, l’orientamento
del Consiglio di Stato, di gran lunga prevalente, fondato sul potere di
rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione anche quando, essendosi
su di essa esplicitamente pronunciato il TAR, contro tale capo della
pronuncia non sia stata proposta impugnazione, fa sì (ed ha fatto sì in
numerosi casi interessati dalla citata sentenza di questa Corte) che il
giudizio debba essere proposto ex novo davanti al giudice ordinario
perfino dopo che sulla sussistenza della giurisdizione del giudice
amministrativo si sia formato il giudicato.

3.2.– La dottrina, a
sua volta, è pressoché unanime nel sollecitare una riforma legislativa
che preveda meccanismi idonei – come accade per l’ipotesi di difetto di
competenza – ad assicurare, con la trasmigrazione del giudizio davanti
al giudice munito di giurisdizione, la conservazione degli effetti che
la legge collega alla proposizione della domanda giudiziale.

Una
parte della dottrina, poi, ha sostenuto che alle pronunzie emesse dalla
Corte di cassazione in tema di giurisdizione potrebbe conseguire – in
base al combinato disposto degli artt. 50, 367 e 382 cod. proc. civ. –
la translatio iudicii con conservazione degli effetti della domanda
giungendo, recentemente, a desumere da tale conclusione che – non
potendosi imporre alle parti, affinché operi il meccanismo della
translatio iudicii, di adire necessariamente la Suprema Corte a sezioni
unite – analogo risultato sarebbe conseguibile, de iure condito, nel
caso di declinatoria di giurisdizione da parte di un giudice di merito.

3.3.– Recentemente, nel tentativo di risolvere con strumenti
ermeneutici l’annoso e grave problema, la Corte di cassazione (Sezioni
unite 22 febbraio 2007, n. 4109) ha affermato – nel rinviare al
Consiglio di Stato, per violazione del giudicato interno,una
controversia definita dal medesimo Consiglio con una pronuncia
declinatoria della giurisdizione – che tale rinvio costituiva modifica
del proprio «precedente, risalente orientamento, secondo cui la
decisione del giudice ordinario o del giudice speciale, con la quale
viene dichiarato il difetto di giurisdizione, non consente che il
processo possa continuare dinanzi al giudice fornito di giurisdizione».

Ricordato che tale tralaticio orientamento si fondava sulla
circostanza che l’art. 50 cod. proc. civ. prevede la riassunzione del
processo solo nel caso di difetto di competenza, e non anche di
giurisdizione, e che l’art. 367 prevede la riassunzione, a seguito di
regolamento di giurisdizione, solo davanti al giudice ordinario, e
fatto proprio il «principio fondamentale dei nostri Autori classici
secondo cui il processo deve tendere ad una sentenza di merito», le
Sezioni unite «ritengono che, in base ad una lettura costituzionalmente
orientata della disciplina della materia, che tenga conto delle
argomentazioni emergenti dalle intervenute modifiche legislative e
delle prospettazioni in parte nuove svolte di recente dalla dottrina
sul tema, sussistono le condizioni per potere affermare che è stato
dato ingresso nell’ordinamento processuale al principio della
translatio iudicii dal giudice ordinario al giudice speciale, e
viceversa, in caso di pronuncia sulla giurisdizione».

«Premessa
indispensabile è la considerazione di carattere generale» che, se è
assente per la giurisdizione la disciplina prevista per la competenza,
«neppure sussiste la previsione di un espresso divieto della translatio
iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale».
Rilevato, poi, che la cassazione senza rinvio è possibile, a norma
dell’art. 382, comma terzo, cod. proc. civ., in caso di difetto
assoluto di giurisdizione, dovendosi in ogni altro caso cassare con
rinvio al giudice munito di giurisdizione, la Corte di cassazione
osserva, da un lato, che la norma che esclude l’incidenza sul merito
della pronuncia sulla giurisdizione (art. 386) è indice della
“proseguibilità” del giudizio e, dall’altro lato, che l’estensione
legislativa del regolamento di giurisdizione al processo amministrativo
e a quello tributario impone di interpretare estensivamente l’art. 367,
comma secondo, cod. proc. civ., ammettendo la riassunzione anche
davanti al giudice speciale.

Ne consegue che, a seguito sia di
ricorso ordinario ex art. 360, n. 1, cod. proc. civ., sia di
regolamento di giurisdizione, sarebbe sempre ammessa la riassunzione
del processo davanti al giudice (ordinario o speciale) munito di
giurisdizione e tale riassunzione sarebbe possibile – aggiunge la Corte
«per ragioni di completezza sistematica» – «anche nel caso di sentenza
del giudice di merito, che abbia declinato la giurisdizione».

Respinta la tesi secondo la quale tale risultato richiederebbe
l’intervento della Corte costituzionale (sollecitato, ricorda la Corte
di cassazione, dall’ordinanza di rimessione qui in esame), le Sezioni
unite osservano che il giudice indicato, come munito di giurisdizione,
dalla pronuncia declinatoria può, «a sua volta, dichiarare il proprio
difetto di giurisdizione» ma che in tal caso, «nel rispetto del
principio che ogni giudice è giudice della propria giurisdizione», il
ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362, secondo comma, cod.
proc. civ. risolve, con il conflitto negativo, la «situazione di
stallo»; anche se – conclude la Corte – «il problema giuridico che
esula dalla presente controversia merita di essere ulteriormente
approfondito».

4.– La circostanza che la Corte di cassazione
abbia diffusamente trattato la questione – più volte ricordandola –
oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale impone a
questa Corte, per l’autorevolezza delle Sezioni unite, di dedicare
attenta considerazione alle argomentazioni che si sono appena riferite
benché le Sezioni unite – decidendo su un error in procedendo, sia pure
avente ad oggetto la giurisdizione – abbiano affrontato la questione
risolvendo un caso di conferma della giurisdizione del giudice a quo e
si siano occupate della declinatoria di giurisdizione da parte del
giudice di merito solo «per ragioni di completezza sistematica».

Malgrado ciò, questa Corte non può non considerare attentamente quanto
sostengono le Sezioni unite nel pervenire alla conclusione che, essendo
la questione oggetto del presente giudizio risolvibile de iure condito,
«non è necessario sollecitare sul punto l’intervento del Giudice delle
leggi». E’ evidente, infatti, che, ove fossero condivisibili gli
argomenti che hanno indotto le Sezioni unite ad esprimere tale
opinione, questa Corte dovrebbe dichiarare inammissibile la questione
in esame per non avere il giudice a quo nemmeno tentato di dare una
lettura costituzionalmente orientata della norma censurata.

4.1.
– Pur nella consapevolezza dell’intento ispiratore della sentenza n.
4109 del 2007, si deve anzitutto escludere che – come le Sezioni unite
affermano a «premessa indispensabile» del loro argomentare – manchi
nell’ordinamento «un espresso divieto della translatio iudicii nei
rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale».

E’
sufficiente rilevare, in proposito, che l’espressa previsione della
translatio con esplicito ed esclusivo riferimento alla «competenza» –
ciò che costituiva una novità del codice del 1942, auspicata (ma
limitatamente alla incompetenza) fin dal cosiddetto progetto *********,
non a caso resa possibile da una articolata disciplina (artt. 42-50)
totalmente assente per la «giurisdizione» – non altro può significare
se non divieto di applicare alla giurisdizione quanto previsto,
esplicitamente ed esclusivamente, per la competenza; il che avrebbe
reso superfluo, nell’asciutta essenzialità delle norme codicistiche,
l’«espresso divieto» di applicare alla giurisdizione le molte norme
esplicitamente dedicate (sia nelle rubriche che nel testo) alla sola
competenza.

In secondo luogo, riguardo all’argomento che le
Sezioni unite desumono dal ricorso per cassazione ex art. 362, comma
secondo, cod. proc. civ., occorre considerare che – a differenza di
quanto l’art. 362, comma primo, prevede (richiamando il termine di cui
all’art. 325, comma secondo) per l’impugnazione di sentenze di giudici
speciali «per motivi attinenti alla giurisdizione» – la «denuncia» di
conflitti negativi di giurisdizione è possibile «in ogni tempo»: ed ai
fini qui rilevanti è sufficiente osservare che la funzione di «rendere
praticabile la translatio», con la conservazione degli effetti della
domanda proposta al giudice (che risulta essere) privo di
giurisdizione, non può ritenersi affidata ad un ricorso proponibile «in
ogni tempo» (e, quindi, anche anni dopo il manifestarsi del conflitto).

4.2.– Ciò detto dei due argomenti in base ai quali le Sezioni
unite ritengono risolvibile de iure condito la questione pendente
dinanzi a questa Corte – questione della quale non può,
conseguentemente, dichiararsi l’inammissibilità per non aver il giudice
rimettente valutato la praticabilità di una interpretazione
costituzionalmente corretta – va rilevato che il giudice a quo
sollecita l’intervento di questa Corte non già lamentando l’assenza di
un meccanismo processuale che consenta la trasmigrazione del processo
ad altro giudice fornito di giurisdizione, bensì l’impossibilità che, a
seguito della declinatoria della giurisdizione, siano conservati gli
effetti prodotti dalla domanda proposta davanti ad un giudice privo di
giurisdizione.

Tale modo di impostare la questione è corretto,
essendo evidente che l’esistenza nel codice di procedura civile di una
norma che disciplina in generale l’istituto della riassunzione della
causa (art. 125 disp. att.) non risolve affatto il problema sollevato
dal giudice a quo: la possibilità – esplicitamente prevista dalla legge
ovvero desumibile attraverso una sistematica «ricucitura» delle norme –
di riassumere il processo non implica di per sé che la domanda proposta
in riassunzione conservi gli effetti prodotti da quella originaria.

La trasmigrabilità del processo è strumento necessario, ma non
sufficiente perché il giudice ad quem possa giudicare della domanda
dinanzi a lui riassunta come se essa fosse stata proposta davanti a lui
nel momento in cui lo fu al giudice privo di giurisdizione.

5.–
Il principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini
diversi – comprensibile in altri momenti storici quale retaggio della
concezione cosiddetta patrimoniale del potere giurisdizionale e quale
frutto della progressiva vanificazione dell’aspirazione del neo-
costituito Stato unitario (legge sull’abolizione del contenzioso
amministrativo) all’unità della giurisdizione, determinata
dall’emergere di organi che si conquistavano competenze giurisdizionali
– è certamente incompatibile, nel momento attuale, con fondamentali
valori costituzionali.

Se è vero, infatti, che la Carta
costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la
situazione all’epoca esistente, è anche vero che la medesima Carta ha,
fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111)
all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela,
attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi
legittimi.

Questa essendo la essenziale ragion d’essere dei
giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può risolversi in
una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela
giurisdizionale: ciò che indubbiamente avviene quando la disciplina dei
loro rapporti – per giunta innervantesi su un riparto delle loro
competenze complesso ed articolato – è tale per cui l’erronea
individuazione del giudice munito di giurisdizione (o l’errore del
giudice in tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio
irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della
domanda di tutela giurisdizionale.

Una disciplina siffatta, in
quanto potenzialmente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale e
comunque tale da incidere sulla sua effettività, è incompatibile con un
principio fondamentale dell’ordinamento, il quale riconosce bensì la
esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce affinché venga
assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata
risposta alla domanda di giustizia, e non già affinché sia compromessa
la possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta.

Al
principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a se
stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito,
si ispira pressoché costantemente – nel regolare questioni di rito – il
vigente codice di procedura civile, ed in particolare vi si ispira la
disciplina che all’individuazione del giudice competente – volta ad
assicurare, da un lato, il rispetto della garanzia costituzionale del
giudice naturale e, dall’altro lato, l’idoneità (nella valutazione del
legislatore) a rendere la migliore decisione di merito – non sacrifica
il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o
negativa, in ordine al “bene della vita” oggetto della loro contesa.

Al medesimo principio gli artt. 24 e 111 Cost. impongono che si
ispiri la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini
diversi allorché una causa, instaurata presso un giudice, debba essere
decisa, a seguito di declinatoria della giurisdizione, da altro
giudice.

6.– Il rispetto dei confini del proprio ruolo
nell’ordinamento impone a questa Corte di limitarsi a dichiarare
l’illegittimità costituzionale della norma censurata nella parte in cui
non prevede la conservazione degli effetti della domanda nel processo
proseguito, a seguito di declinatoria di giurisdizione, davanti al
giudice munito di giurisdizione, ispirandosi essa, viceversa, al
principio per cui la declinatoria della giurisdizione comporta
l’esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti
sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente
proposta si conservino nel nuovo giudizio; principio questo che, non
formulato espressamente in una o più disposizioni di legge ma
presupposto dall’intero sistema dei rapporti tra giudice ordinario e
giudici speciali e tra i giudici speciali, deve essere espunto, come
tale, dall’ordinamento.

7.– La disciplina legislativa che, con
l’urgenza richiesta dall’esigenza di colmare una lacuna
dell’ordinamento processuale, verrà emanata, sarà vincolata solo nel
senso che essa dovrà dare attuazione al principio della conservazione
degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda
proposta a giudice privo di giurisdizione nel giudizio ritualmente
riattivato – a seguito di declinatoria di giurisdizione – davanti al
giudice che ne è munito.

Ciò posto, è evidente che –
contrariamente a quanto sembra sostenere l’ordinanza di rimessione – la
conservazione degli effetti prodotti dalla domanda originaria discende
non già da una dichiarazione del giudice che declina la propria
giurisdizione, ma direttamente dall’ordinamento, interpretato alla luce
della Costituzione; ed anzi deve escludersi che la decisione sulla
giurisdizione, da qualsiasi giudice emessa, possa interferire con il
merito (al quale appartengono anche gli effetti della domanda)
demandato al giudice munito di giurisdizione.

La conferma di ciò
è nella circostanza che perfino il supremo organo regolatore della
giurisdizione, la Corte di cassazione, con la sua pronuncia può
soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., vincolare il
Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a
decidere la controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun
profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione; e
ad analogo principio, conforme a Costituzione, si ispira l’art. 386
cod. proc. civ. (applicabile anche ai ricorsi proposti a norma
dell’art. 362, comma primo, cod. proc. civ.) disponendo che «la
decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda
e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla
pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda».

8.–
Nel rispetto di tali limiti costituzionali, il legislatore ordinario –
ferma l’esigenza di disporre che ogni giudice, nel declinare la propria
giurisdizione, deve indicare quello che, a suo avviso, ne è munito – è
libero di disciplinare nel modo ritenuto più opportuno il meccanismo
della riassunzione (forma dell’atto, termine di decadenza, modalità di
notifica e/o di deposito, eventuale integrazione del contributo
unificato, ecc.) sulla base di una scelta di fondo a lui soltanto
demandata: stabilire, cioè, se mantenere in vita il principio per cui
ogni giudice è giudice della propria giurisdizione ovvero adottare
l’opposto principio seguito dal codice di procedura civile (art. 44)
per la competenza.

9.– E’ superfluo sottolineare che, laddove
possibile utilizzando gli strumenti ermeneutici (come, nel caso oggetto
del giudizio a quo, dopo la declinatoria di giurisdizione), i giudici
ben potranno dare attuazione al principio della conservazione degli
effetti della domanda nel processo riassunto.

per questi motivi

LA
CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei
tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non prevede che
gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta
a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di
declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al
giudice munito di giurisdizione.

Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 marzo 2007.

F.
to:

Franco BILE, Presidente

Romano VACCARELLA, Redattore

Maria
*****************, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 marzo
2007.

Il Cancelliere

F.to: *********

sentenza

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