Corte Costituzionale: l’art. 76 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 è illegittimo

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L’art. 76, comma 4-bis, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 è illegittimo nella parte in cui ricomprende anche la condanna per il reato di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990.

      Indice

  1. Il fatto
  2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
  3. La soluzione adottata dalla Corte costituzionale
  4. Conclusioni

(Riferimento normativo: d.P.R., 30 maggio 2002, n. 115, art. 76, co. 4-bis)

1. Il fatto

Una volta definito, con sentenza di assoluzione, un processo per il reato previsto e punito dagli artt. 2 e 76, comma 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), il difensore dell’imputato, ammesso a patrocinio a spese dello Stato, presentava istanza per la liquidazione del compenso.

Ciò posto, a fronte del deposito di tale richiesta, il giudice di merito rilevava come dal certificato penale dell’imputato risultasse a carico dello stesso una sentenza di condanna, irrevocabile dalla data del 3 settembre 2018, per due reati ex art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, aggravati ai sensi dell’art. 80, comma 1, lettere a) e g), del medesimo testo unico.

Orbene, poiché nella concreta fattispecie processuale l’imputato non aveva fornito, secondo le indicazioni della sentenza n. 139 del 2010 emessa dalla Consulta (che aveva, a sua volta, dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della norma censurata laddove poneva una presunzione assoluta a carico dei soggetti condannati in via definitiva per i reati ostativi di superamento dei limiti di reddito), la prova contraria, posta a proprio carico, rispetto alla presunzione relativa di superamento del reddito posta, a fronte della condanna definitiva per tali reati, dall’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, si sarebbe dovuto conseguentemente revocare, con effetti retroattivi, l’ammissione al patrocinio statale ai sensi dell’art. 112, lettera d), del d.P.R. n. 115 del 2002, per insussistenza, sin dal momento dell’ammissione, del presupposto di reddito per il conseguimento del beneficio ex art. 76, comma 1, dello stesso decreto.

2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

A fronte della situazione appena delineata, il giudice deputato a decidere siffatta questione, ossia il Tribunale di Firenze, sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 24, commi secondo e terzo, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, nella parte in cui ricomprende anche i soggetti condannati con sentenza definitiva per i reati di cui all’art. 73 t.u. stupefacenti, qualora ricorrano le ipotesi aggravate previste dall’art. 80, comma 1, lettere a) o g), del medesimo testo unico, tra quelli per i quali si presume che abbiano un reddito superiore ai limiti previsti per l’accesso al patrocinio a spese dello Stato.

In particolare, in punto di rilevanza, il giudice rimettente osservava che, se le questioni sollevate fossero state accolte, sarebbero venuti meno i presupposti per la revoca del beneficio, consentendo la liquidazione del richiesto compenso al difensore.

In punto di non manifesta infondatezza, invece, si assumeva, in primo luogo, il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost., in quanto – come può evincersi dalla stessa motivazione della citata sentenza n. 139 del 2010 – è dubbia la coerenza della disposizione censurata laddove include – tra i soggetti che non possono accedere senza limiti di tempo, per effetto di una presunzione, sebbene relativa, di conseguimento di un reddito superiore ai relativi limiti, al patrocinio a spese dello Stato – anche quelli condannati con pronuncia irrevocabile per la fattispecie di reato di cui all’art. 73 t.u. stupefacenti, ove ricorra, indistintamente, una delle circostanze aggravanti ex art. 80 del medesimo testo unico in quanto si tratta di circostanze molto differenti tra loro specie in ordine all’incidenza sul possibile conseguimento di ingenti redditi da parte del reo atteso che la ratio della norma censurata, che vuole evitare che soggetti in possesso di ingenti ricchezze, acquisite con le proprie attività delittuose, possano fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato ai non abbienti dall’art. 24, terzo comma, Cost., non sussisterebbe almeno rispetto ad alcune fattispecie aggravate del reato previsto e punito dall’art. 73 t.u. stupefacenti, comprese quelle per le quali era stato condannato l’imputato nel processo a quo, ossia quella contemplata dal comma 5 dell’art. 73, per fatti di «lieve entità», aggravata dalle lettere a) e g) del comma 1 dell’art. 80 t.u. stupefacenti (cessione di dette sostanze a soggetti minori di età in prossimità delle scuole).

Oltre a ciò, si sottolineava altresì che, se è vero che l’integrazione di siffatte circostanze incide indubbiamente sul disvalore del fatto, tuttavia essa non determina una maggiore redditività dell’attività delittuosa, con conseguente incoerenza della ricomprensione di tali fattispecie aggravate nell’ambito di quelle a fronte della condanna definitiva per quella che, in virtù di una condanna definitiva, fanno scattare la presunzione del possesso di un reddito superiore ai limiti contemplati dallo stesso art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

Né, sempre secondo il Tribunale di Firenze, tali dubbi di legittimità costituzionale sarebbero stati superati a seguito della “trasformazione”, per effetto dell’intervento additivo della citata sentenza n. 139 del 2010, della presunzione da assoluta in relativa, poiché a fronte di quest’ultima sarebbe comunque più gravoso l’onere probatorio posto a carico del condannato in via definitiva per i relativi reati, rispetto a chi sia incensurato o sia stato condannato in via definitiva per reati diversi, per essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato.


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3. La soluzione adottata dalla Corte costituzionale

Una volta fatto presente che, a fronte delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, era demandato, quindi, al giudice delle leggi di verificare se il reato base fosse, o no, già di per sé, quand’anche aggravato ex art. 80, in contraddizione con la ragione posta dal legislatore a fondamento della presunzione di superamento della soglia reddituale per l’accesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato e, pertanto, sempre ad avviso della Consulta, le questioni di legittimità costituzionale, a loro avviso, investivano la fattispecie del reato di cui al comma 5 dell’art. 73 (e non già di tutti i reati da tale disposizione contemplati), aggravata dal successivo art. 80 tout court, secondo la testuale previsione della disposizione censurata, e non già solo quella aggravata dalle specifiche circostanze di cui alle lettere a) e g) del comma 1 dello stesso art. 80, e dopo avere compiuto una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento nel quale si colloca la disposizione censurata, oltre che la giurisprudenza costituzionale e nomofilattica elaborate in subiecta materia, la Corte costituzionale riteneva come, nel merito, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Firenze fossero fondate in riferimento a entrambi i parametri di cui agli artt. 3 e 24, commi secondo e terzo, Cost..

Nel dettaglio, era prima di tutto osservato come, sotto un primo profilo, occorresse rilevare che la disposizione censurata, nel prevedere una presunzione di superamento dei limiti di reddito per ottenere il patrocinio a spese dello Stato ove il soggetto richiedente sia stato, in precedenza, condannato in via definitiva per i fatti di reato puniti dall’art. 73 t.u. stupefacenti, in presenza di una delle circostanze aggravanti di cui all’art. 80 del medesimo testo unico, ad avviso della Corte, si poneva in primo luogo in contrasto, per incoerenza rispetto allo scopo perseguito, con l’art. 3 Cost., nella parte in cui ricomprende nel proprio ambito di applicazione anche i fatti «di lieve entità», di cui al comma 5 dello stesso art. 73, rilevandosi al contempo che la finalità della disposizione censurata è quella di evitare che soggetti in possesso di ingenti ricchezze, acquisite con attività delittuose, possano paradossalmente fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato, per dettato costituzionale (art. 24, terzo comma), ai non abbienti (sentenza n. 139 del 2010).

Invece, per il giudice delle leggi, i fatti di “piccolo spaccio” (quelli «di lieve entità») si caratterizzano per un’offensività contenuta per essere modesto il quantitativo di sostanze stupefacenti oggetto di cessione (ex multis, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 15 novembre 2018-24 gennaio 2019, n. 3616) e, di qui, a suo avviso, non è ragionevole presumere che la “redditività” dell’attività delittuosa sia stata tale da determinare il superamento da parte del reo dei limiti di reddito contemplati dall’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 per ottenere l’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, senza che a diversa conclusione si possa pervenire in considerazione del fatto che la presunzione opera solo per le condanne aggravate ai sensi dell’art. 80 t.u. stupefacenti dato che le circostanze aggravanti elencate dal comma 1 di tale disposizione – se si connotano, come quelle in rilievo nel giudizio a quo, per la spiccata riprovevolezza della condotta del soggetto agente – non sono ex se suscettibili di incidere sul profitto tratto dall’attività delittuosa.

Oltre a ciò, era altresì rilevato che il proprium della presunzione relativa in esame, che dal fatto noto consente di dedurre quello presupposto secondo l’id quod plerumque accidit, risulta dalla matrice comune del catalogo di reati introdotti nell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002 dal richiamato art. 12-ter del d.l. n. 92 del 2008, come convertito, trattandosi di reati relativi alla criminalità organizzata, ossia dei reati di cui agli artt. 416-bis (Associazioni di tipo mafioso anche straniere) del codice penale, 291-quater (Associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri) del testo unico di cui al d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), 74, comma 1 (Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), t.u. stupefacenti, nonché dei reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo e, dunque, in questo contesto omogeneo di reati di criminalità organizzata, sempre come trapela dalla pronuncia qui in commento, il “piccolo spaccio” – quello del comma 5 dell’art. 73 citato – appare spurio e, quand’anche aggravato ai sensi dell’art. 80, è privo dell’idoneità ex se a far presumere un livello di reddito superiore alla (peraltro non esigua) soglia minima dell’art. 76, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 (id est un reddito IRPEF di circa mille euro al mese), in ragione dei proventi derivanti dall’attività criminosa. È anzi vero il contrario: si tratta spesso di manovalanza utilizzata dalla criminalità organizzata e proveniente dalle fasce marginali dei «non abbienti», ossia di quelli che sono sprovvisti dei «mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» (art. 24, terzo comma, Cost.).

Ciò posto, era per di più notato come non sia privo di rilievo, poi, che tra le circostanze aggravanti di cui all’art. 80 t.u. stupefacenti, vi sia anche quella del comma 2, che ricorre quando il fatto riguarda «quantità ingenti» di sostanze stupefacenti e questo, per la Corte di legittimità costituzionale, è ontologicamente incompatibile con il fatto «di lieve entità» che consente l’integrazione della fattispecie autonoma di reato “minore” di cui al comma 5 dell’art. 73 del medesimo testo unico.

Pertanto, se, in una scelta nella quale pure, trattandosi di materia processuale, il legislatore gode di ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti, è stata raggiunta la soglia della manifesta irragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 203, n. 143 e n. 13 del 2022, n. 213, n. 148 e n. 87 del 2021 e n. 80 del 2020), secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il principio di ragionevolezza è leso «quando si accerti l’esistenza di una irrazionalità intra legem, intesa come contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata» (sentenze n. 195 e n. 6 del 2019; nello stesso senso, più di recente sentenza n. 125 del 2022).

Orbene, quanto appena esposto, ad avviso della Consulta, poteva riscontrarsi nella norma censurata laddove presume che coloro i quali sono stati condannati in via definitiva per fatti di spaccio «di lieve entità», quand’anche aggravati ai sensi dell’art. 80 t.u. stupefacenti, superino i limiti di reddito per accedere al patrocinio a spese dello Stato e, in tal senso, per la Corte costituzionale, la disposizione vìola(va) in parte qua l’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’intrinseca irrazionalità.

Per motivazioni analoghe, poi, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze era stimata fondata anche in riferimento all’art. 24, commi secondo e terzo, Cost., essendo costante, nella giurisprudenza della Consulta, l’affermazione del principio secondo il quale il diritto dei non abbienti al patrocinio a spese dello Stato è inviolabile nel suo nucleo intangibile quale strumento fondamentale per assicurare l’effettività del diritto di azione e di difesa in giudizio (di recente, sentenze n. 10 del 2022, n. 157 del 2021 e n. 80 del 2020).

Ebbene, per i giudici di legittimità costituzionale, la presunzione posta dal comma 4-bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 viola tale fondamentale diritto rendendo più gravoso l’onere probatorio posto a carico del richiedente per essere ammesso (o per conservare) il beneficio, anche per i soggetti come quelli condannati per il reato di cui al comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, sebbene aggravato ai sensi dell’art. 80 del medesimo testo unico nel senso che quest’onere ulteriore e maggiore, differenziato rispetto al regime ordinario, costituisce un ostacolo ingiustificato all’accesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, per chi è stato condannato per il reato di cessione di sostanze stupefacenti «di lieve entità» (o condotta equiparata), quand’anche aggravato dall’art. 80 citato, e ridonda, pertanto, in violazione dell’art. 24, commi secondo e terzo, Cost..

Il giudice delle leggi, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)», nella parte in cui ricomprendeva anche la condanna per il reato di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

4. Conclusioni 

La decisione in esame desta un certo essendo stata ivi postulata l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115/2002 – che, come è noto, prevede che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli articoli 416-bis del codice penale, 291-quater del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, e 74, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, e per i reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai soli fini del presente decreto, il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti – nella parte in cui ricomprende(va) anche la condanna per il reato di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

Pertanto, per effetto di questa pronuncia, tale fictio iuris, che impedisce di potere accedere al gratuito patrocinio ove siano stati accertati, con sentenza passata in giudicato, uno di questi illeciti penali, non ricorre ove l’imputato sia stato ritenuto colpevole per il reato preveduto dall’art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309/1990; in altri termini, nel caso in cui sia accertato tale fattispecie delittuosa in via definitiva, l’autore di siffatto reato, ricorrendone le condizioni di legge, potrà usufruire del gratuito patrocinio.

La sentenza in esame, quindi, consente all’imputato, reo di avere commesso codesto reato, di non dovere sostenere i costi legali per potersi difendere sempreché, si ripete, ricorrano le condizioni di legge per potere accedere al gratuito patrocinio.

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