Coronavirus: il reato di epidemia. Considerazioni anche sull’eventuale concorso con l’omicidio

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L’attenzione dell’opinione pubblica, oltre che l’attività di Governo, è concentrata, probabilmente ora come non mai, sul rischio di contagio e precisamente del Covid-19, meglio conosciuto come Coronavirus. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.), il giorno 11 Marzo 2020, ha qualificato il fenomeno come “pandemia” – riconoscendo dunque al virus una capacità di diffusione molto rapida tra vastissimi territori o continenti, parlandosi altrimenti, nel caso contrario in cui il territorio colpito non sia esteso di focolare epidemico – e, già il 30 Gennaio 2020, sempre la stessa Organizzazione aveva dichiarato la rilevanza internazionale dell’emergenza di sanità pubblica. Tale attenzione alla contagiosità del virus è giustificata anche alla luce delle (potenziali ed in alcuni casi già concrete) conseguenze nefaste di questa sulla salute di ognuno nonché sul Servizio Sanitario Nazionale.

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Ebbene, potrebbe capitare che il soggetto, consapevole di essere portatore del virus, circoli lo stesso contagiando chi gli stia vicino.

Già da una sommaria ricerca è possibile notare come, per il minimo numero di volte che una fattispecie come quella rappresentata dalla norma si è concretizzato, i giudici di merito e di legittimità non hanno avuto modo di approfondire sull’argomento non fornendo così granitica giurisprudenza ma comunque molti spunti. Il caso più recente, e per diversi neanche tanto analogo al nostro, è stato quello che ha affrontato l’HIV trasmessa tramite rapporti di tipo sessuale da un soggetto a più persone.

Si badi, poi, che l’epidemia qui considerata riguarda le malattie umane e non le malattie infettive alle piante o agli animali (epizoozie), le quali possono eventualmente, in presenza di altri requisiti, configurare il delitto di cui all’art. 500 c.p. rubricato appunto “diffusione di una malattia delle piante o degli animali”. Se, tuttavia, la diffusione delle malattie alle piante o agli animali, per la propagazione dei germi patogeni, colpisce anche le persone, determinandosi così un pericolo per la salute di un indeterminato numero di individui, sussiste il reato di epidemia.

Ora, lasciando qui da parte le possibili violazioni contestabili in un periodo come quello attuale, quali quelle riferibili all’art. 650 c.p. piuttosto che (e, a parere di chi scrive, meno verosimili) della disposizione di cui all’art. 495 dello stesso Codice, decidiamo di trattare qui quanto previsto, proprio a tutela della incolumità o della salute pubblica, dall’art. 452, comma 1, n. 2, in relazione all’art. 438 c.p.: il delitto di epidemia colposa. Molte considerazioni varranno comunque anche per il delitto previsto semplicemente dall’art. 438 c.p., ipotesi dunque dolosa.

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Il concorso con l’omicidio

Precisamente, secondo l’art. 438 c.p.:“Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni[1] è punito con l’ergastolo”. Può considerarsi privo di rilevanza pratica il comma 2 il quale prevede come sanzione la pena di morte, considerato che oggi la pena capitale non è più parte del regime sanzionatorio previsto dal nostro Ordinamento e assorbita nell’ergastolo. Il comma 2 della norma in commento contempla una circostanza aggravante ma, come detto, l’abrogazione della pena di morte ha eliminato sostanzialmente la necessità di distinguere l’ipotesi semplice con quella aggravata e, dato che la sanzione deve essere la stessa anche nel caso di morte di una sola persona, nonché dunque per la natura di reato complesso (quello di epidemia) risulta così anche impossibile il concorso col reato di omicidio. A questa conclusione diviene chi scrive poiché, se la norma (mai abrogata dal legislatore) punisce con l’ergastolo l’agente laddove dall’epidemia derivi la morte di più persone, non si comprende come possa punirsi ex art. 72 c.p. chi venga ritenuto responsabile di epidemia e di (un) omicidio. Si finirebbe di punire più severamente (ergastolo con isolamento diurno) dunque chi provochi la morte di una persona, rispetto a chi provochi la morte di più persone (solo ergastolo). Si deve in conclusione ritenere quindi escluso il concorso di reati tra epidemia e omicidio. Qualche dubbio potrebbe porsi nel caso di epidemia colposa e omicidio colposo, ma l’accoglimento della tesi secondo cui la previsione dell’art. 452 c.p. si riferisce ad entrambe le ipotesi di cui all’art. 438 c.p. porta a dover considerare impossibile il concorso anche in questo caso[2]. Non potrebbe essere poi altrimenti anche alla luce dell’ultima parte del comma 1, n. 2, che include, appunto, tutti i casi in cui si stabilisce l’ergastolo.

Successivamente, l’art. 452 c.p., comma 1, n. 2, invece, prevede che “chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 438 e 439 è punito con la reclusione da uno a cinque anni, nei casi per i quali esse stabiliscono l’ergastolo”.

Trattasi evidentemente di reato comune, anche se soggetto attivo può essere solo colui che sia scientemente portatore di una malattia nel senso in cui si dirà appresso. Deve tenersi sempre presente la (in)compatibilità naturale tra l’elemento soggettivo considerato ed il tentativo, tenuto conto della effettiva (non) volontarietà dell’evento.

Il significato scientifico e giuridico

Ai nostri fini appare necessario preliminarmente dare una definizione a un determinato termine utilizzato dal legislatore, e quanto mai comunemente in uso oggi, quale “epidemia”. Questo assume rilevanza tanto da un punto di vista scientifico, intendendosi per questo e in questo campo ogni malattia infettiva o contagiosa suscettibile, per la propagazione dei suoi germi patogeni, di una rapida ed imponente manifestazione in un medesimo contesto e in un dato territorio colpendo un numero di persone tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato di individui. Il vocabolo “epidemia” significa lessicalmente malattia contagiosa che colpisce contemporaneamente gli abitanti di una città o di una regione. Infatti, la parola trae origine dal greco epi demos, che letteralmente significa “sul popolo”, e cioè “esteso sul popolo”, confermandosi così l’esattezza della definizione data sopra. È necessario poi non confondere l’epidemia con qualsiasi malattia semplicemente contagiosa ovvero infettiva, ma solo in quella che sia in grado di diffondersi tra la popolazione, in modo da colpire, in breve tempo, un numero considerevole di persone e che si estingue in un tempo più o meno lungo.

La nozione giuridica di epidemia è invece più ristretta e circoscritta rispetto a quella fornita in ambito scientifico – alla quale però è inevitabilmente legata – in quanto il legislatore, con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni” prevista nell’art. 438 c.p., ha inteso circoscrivere la punibilità alle condotte caratterizzate da determinati percorsi causali. Pertanto l’epidemia costituisce l’evento cagionato dall’azione incriminata la quale deve estrinsecarsi secondo una precisa modalità di realizzazione, ossia mediante la propagazione volontaria, o nel caso preso da noi in esame colpevole, di germi patogeni di cui l’agente sia in possesso. Resta che non è normativamente individuato in che modo debba avvenire detta diffusione: la norma incriminatrice non seleziona le condotte diffusive rilevanti e richiede, con espressione quanto mai ampia, che il soggetto agente procuri un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni, senza individuare in che modo debba avvenire questa diffusione; occorre, però, al contempo – e ciò è evidente – che sia una diffusione capace di causare un’epidemia.

Si tenga però presente che la norma non impone una relazione di alterità e non esclude che una diffusione possa aversi pur quando l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni.

Reato di evento o di pericolo

Il reato si deve ritenere avere natura tanto di evento o danno quanto di pericolo. La materialità del delitto è costituita sia da un evento di danno rappresentato dalla concreta manifestazione, in un considerevole numero di persone, di una malattia causalmente ricollegabile a quei germi patogeni, sia da un evento di pericolo, rappresentato dalla ulteriore propagazione della stessa malattia a causa della capacità di quei germi patogeni di trasmettersi ad altri individui anche senza l’intervento dell’autore della originaria diffusione. Da ciò discende che deve necessariamente essersi in presenza di una condotta commissiva a forma vincolata di per sé incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma 2, c.p., riferibile alle condotte omissive ed esclusivamente alle fattispecie a forma libera, ovvero a quelle la cui realizzazione prescinde dalla necessità che la condotta presenti determinati requisiti modali[3]. Infatti la responsabilità omissiva oggetto di quest’ultima norma, è incompatibile con la natura giuridica del reato ex art. 438 c.p. il quale non è generico ma tassativo circa i requisiti modali.

Un’altra impostazione ermeneutica, del tutto minoritaria e non condivisa recentemente dalla Suprema Corte di cassazione[4], sostiene che il legislatore, con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, avrebbe inteso solo demarcare il tipo di evento rilevante, ovvero le malattie infettive, e non già indicare una puntuale tipologia di condotta. Secondo una pronuncia di merito del Tribunale di Trento risalente al 2004[5] aderente all’orientamento maggioritario e che tiene conto dei due momenti necessari e rilevanti (danno e pericolo), ai fini della configurabilità del reato di epidemia non basta un evento c.d. superindividuale, generico e completamente astratto, ossia avulso dalla verifica di casi concreti casualmente ricollegabili alla condotta del soggetto agente, in quanto ciò porterebbe a confondere il concetto di evento con quello di pericolo. Viceversa, il pericolo per la pubblica incolumità che la condotta di epidemia deve determinare e che è dato dalla potenzialità espansiva della malattia contagiosa, è sì un pericolo per un bene “superindividuale”, ma è un pericolo susseguente, il cui accertamento presuppone, perché la fattispecie possa dirsi integrata, la preventiva verifica circa la causazione di un evento dannoso per un certo numero di persone, per giunta ricollegabile, sotto il profilo eziologico, alla condotta tenuta dal soggetto agente.

Si comprende dunque che, per potersi configurare il delitto è sempre necessario che la malattia provocata dalla diffusione dei germi patogeni abbia una grande capacità di diffondersi e quindi di colpire un numero indeterminato di persone, altrimenti mancando l’offensività. Se manca tale rischio di contagio il reato de quo non può consumarsi: sul punto è stata esplicita una Sentenza del Tribunale di Savona del 2008[6] che ha escluso il delitto in questione in un caso di salmonella in cui l’insorgere della malattia si erano esauriti nell’ambito di un ristretto numero di persone. Non può difettare proprio l’evento tipico dell’epidemia, che si connota, come già precisato dalla giurisprudenza di legittimità, nella diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido sviluppo ed autonomo entro un numero indeterminato di soggetti e per una durata cronologicamente limitata[7]. Si può configurare il reato di epidemia di cui all’articolo 438 c.p. solo se il numero delle persone contagiate è ingente[8]. Affinché possa configurarsi il reato occorre che l’autore abbia il possesso fisico di germi patogeni e che si renda responsabile non di singole condotte di trasmissione di agenti patogeni ma dello spargimento di detti germi in un’azione finalizzata a colpire, nel modo più rapido e incontrollabile, una pluralità indeterminata di soggetti.

Si tenga infine conto che potrebbe bastare infettare un’unica persona.

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Note

[1] Microrganismi, come batteri e virus, che sono in grado di provocare l’insorgenza di malattie infettive.

[2] Trattato di diritto penale, parte speciale, Vol. IX,  A. Gargani, Giuffré editore.

[3] Cass. Pen., Sez. IV, Sentenza del 12 Dicembre 2017 (depositata il 28 Febbraio 2018), n. 9133.

[4] Ibidem.

[5] Trib. Trento, 16 Luglio 2004.

[6] Trib. Savona del 6 Febbraio 2008.

[7] Cass. Civ., SS. UU., Sentenza dell’11 Gennaio 2008, n. 576.

[8] Cass. Pen., Sezione I, Sentenza del 30 ottobre 2019 (depositata il 26 novembre 2019), n. 48014.

Dott. Cavaliere Armando

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