Coronavirus e presunta immunità diplomatica dell’organizzazione mondiale della sanità

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Sommario: 1. Il contrasto normativo alla pandemia. 2. Cenni sul reato di epidemia colposa. 3. Le fattispecie al tempo del Covid-19. 4. L’inchiesta della Procura della Repubblica di Bergamo e il problema dell’immunità diplomatica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità 5. Conclusioni.

Abstract. Il coronavirus sta travolgendo i sistemi costituzionali di molti paesi, tra cui anche l’Italia. Nell’ambito dell’inchiesta della Procura della Repubblica di Bergamo sul presunto  reato di epidemia colposa da parte di autorità nazionali e regionali, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha opposto il proprio diniego alla convocazione da parte dell’Autorità giudiziaria dei propri componenti adducendo l’immunità diplomatica dell’Organizzazione.

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Il contrasto normativo alla pandemia

Il noto virus del Covid-19 in pochi mesi ha cambiato radicalmente lo scenario globale, con una ricaduta spaventosa e incontrollabile, oltre che sulla salute dei cittadini di tutti i continenti, anche sulla realtà economico-sociale degli stessi, determinando l’adozione di misure straordinarie in campo sanitario e giuridico.

In particolare, nel nostro ordinamento, in primo luogo, è stato messo a dura prova il principio sancito dall’art. 32 della Costituzione, in base al quale “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

In Italia, infatti,  il 31 gennaio 2020, il Consiglio dei Ministri ha ufficializzato, lo stato di emergenza, per sei mesi dalla data del provvedimento, al fine di consentire l’emanazione delle necessarie ordinanze di Protezione civile, in deroga ad ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico; ha deliberato, inoltre, lo stanziamento dei fondi necessari per dare attuazione alle misure precauzionali derivanti dalla dichiarazione di emergenza internazionale effettuata dall’O.M.S. Il provvedimento è stato prorogato sino al 31 gennaio 2021.

A disciplinare la materia nella prima fase di emergenza è intervenuto, a seguito dei decreti legge n.6/2020, n.11/2020, e dei D.P.C.M. in data 4 marzo 2020, 8 marzo 2020 e 11 marzo 2020, anche il decreto legge 17 marzo 2020, n.18 (c.d. decreto legge “Cura Italia”), convertito con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n.27, che ha introdotto una serie di disposizioni normative rivolte alle pubbliche amministrazioni, tra cui quelle contenute nell’art. 87 recante “Misure straordinarie in materia di lavoro agile e di esenzione dal servizio e di procedure concorsuali”.

Successivamente, a regolamentare la normativa emergenziale, è stato emesso il D.P.C.M. in data 22 marzo 2020, che ha previsto ulteriori norme attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6 ed ha impartito disposizioni innovative in ordine ai poteri del Prefetto, ampliandoli in maniera significativa.

Nel tentativo, poi, di semplificare la normativa emergenziale e cercare di dare una veste costituzionale ai precedenti provvedimenti normativi, è stato emanato il decreto legge n.19 del 25 marzo 2020, convertito nella legge 22 maggio 2020, n. 35.

In primo luogo, tale provvedimento ha precisato che possono essere adottate, una o più misure, per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni, reiterabili e modificabili più volte. Si è posto un limite, così, alla vortiginosa e discutibile legiferazione incontrollata da parte dell’esecutivo.

Con i D.P.C.M. in data 1°, 10 e 26 aprile 2020, poi, le misure emergenziali sono state prorogate sino al 17 maggio 2020, dando luogo alla c.d. fase due dell’emergenza.

In particolare il D.P.C.M. del 26 aprile 2020, nel definire le misure per il contenimento del contagio da covid-19, relativamente ai datori di lavoro pubblici, fa salvo quanto previsto dal richiamato art. 87 del decreto legge n.18/2020 che, tra l’altro, definisce il lavoro agile come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica, ovvero fino ad una data antecedente stabilita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione.

Successivamente, con il decreto legge n.28 in data 30 aprile 2020, convertito nella legge 25 giugno 2020, n. 70, sono state disposte “misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazione di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta covid-19”.

Con il decreto legge n.34 del 19 maggio 2020, convertito nella legge 17 luglio 2020, n. 77, poi, sono state emanate misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19.

Inoltre, in data 8 giugno 2020 è stato consegnato al Presidente del Consiglio dei ministri il “piano Colao”, ovvero una serie di iniziative per il rilancio 2020-2022 ideate da una task force guidata dall’ex manager Vodafone Vittorio Colao.[1]

Il documento, che rappresenta un primo passo verso la semplificazione, consta di 121 pagine, suddivise in sei capitoli per altrettante macroaree di intervento: Imprese e Lavoro – Infrastrutture e Ambiente – Turismo, Arte e Cultura – Pubblica Amministrazione – Istruzione, Ricerca e Competenze – Individui e Famiglie.

Il piano realizzato da un comitato di esperti in materia economica e sociale, ha assunto la forza di un documento programmatico suddiviso in sei macro-settori, dalle imprese alla cultura, dalla pubblica amministrazione alla famiglia, giudicati essenziali per far ripartire il paese, combinando temi sociali, ambientali, economici.

I sei settori sono stati accompagnati da un sottotitolo che ne riassume l’obiettivo. Ogni capitolo è suddiviso in vari sottocapitoli, in cui sono elencate poi le varie misure concrete e azioni specifiche.

Si sono susseguiti, spesso in modo frammentario e contradditorio, ancora i D.P.C.M. in data 11 giugno, 14 luglio, 7 agosto, 7 settembre, 7 ottobre, 13 ottobre, 18 ottobre, 24 ottobre, 3 novembre e 3 dicembre 2020, nonché vari decreti legge, tra cui da ultimo quello in data 2 dicembre 2020 che ha prorogato la validità dei DPCM da 30 a 50 giorni, concernenti ulteriori misure di contrasto al Covid-19.

1.       Cenni sul reato di epidemia colposa

Si osserva in via preliminare che, per quanto concerne l’epidemia in atto, sono in corso indagini riguardanti persone morte in talune residenze sanitarie assistenziali, addirittura nei confronti del Presidente del Consiglio ed alcuni ministri, nonché di Autorità regionali, anche se la Procura della Repubblica di Roma ha chiesto l’archiviazione di circa duecento denunce per quanto riguarda i membri del Governo. Fra i reati ipotizzati anche quello di epidemia colposa (artt. 452-438 c.p.), delitto di evento a forma vincolata.[2]

Chi commette “Delitti colposi contro la salute pubblica”, quindi diffonde germi o patogeni o avvelena acque e beni destinati all’alimentazione, è punito dall’ordinamento penale con sanzioni severe, commisurate alla gravità del fatto.[3] L’articolo di riferimento è il numero 452 del codice penale che prevede la reclusione da 3 a 12 anni per chi diffonde colposamente il virus o con la sua condotta negligente ne favorisce la propagazione causando la morte di persone innocenti. Sanzione che si tramuta in ergastolo se il fatto avviene con dolo, cioè con coscienza e volontà di provocare un’epidemia letale.[4]

L’epidemia è un delitto contro la salute pubblica ed è collocato nel titolo VI del libro II c.p. relativo ai delitti contro l’incolumità pubblica. Il legislatore anticipa così la tutela delle persone in modo da salvaguardare ancor prima che divengano concreto bersaglio delle condotte pericolose penalmente sanzionate.[5]

In particolare, l’epidemia è un reato di pericolo astratto, nel quale il legislatore, sulla base di leggi di esperienza è, nella generalità dei casi, fonte di pericolo per uno o più beni giuridici: il pericolo non è elemento del fatto di reato e la sua sussistenza nel caso concreto non deve essere accertata dal giudice. Ciò che il giudice deve verificare è soltanto il realizzarsi di quel comportamento che il legislatore ha ritenuto normalmente pericoloso.[6]

La materialità del delitto è costituita sia da un evento di danno rappresentato dalla concreta manifestazione, in un certo numero di persone, di una malattia eziologicamente ricollegabile a quei germi patogeni, che da un evento di pericolo, rappresentato dall’ulteriore propagazione della stessa malattia a causa della capacità di quei germi patogeni di trasmettersi ad altri individui anche senza l’intervento dell’autore dell’originaria diffusione.[7]

Nella stessa ottica si pone la giurisprudenza di merito secondo cui l’epidemia è la manifestazione collettiva di una malattia infettiva umana che si diffonde rapidamente in uno stesso contesto.[8]

Quando c’è la colpa significa che chi diffonde il virus non ne ha la volontà, ma provoca il fatto con atteggiamenti negligenti e/o imprudenti. Questi vengono valutati dal giudice di merito e, ove necessario, da consulenti tecnici esperti della materia, i quali devono verificare se l’indagato ha agito con la diligenza richiesta dall’incarico ricoperto e seguendo le norme comportamentali e i protocolli obbligatori. E’ questa la fattispecie all’attenzione della Procura della Repubblica di Bergamo.

La norma in questione abbraccia la sola condotta di chi per colpa diffonde germi patogeni, mentre non ricomprende la condotta di chi abbia agevolato colposamente l’attività di diffusione: solo in forza dell’art. 113, comma 1, c.p. quest’ultima condotta acquista rilevanza penale.[9]

Per epidemia si intende la diffusione di una malattia, generalmente infettiva, che colpisce una grande quantità di individui nello stesso periodo. Tale malattia deve avere la stessa origine e, per definirsi epidemia, deve avere una diffusione spazio-temporale e determinata, altrimenti assume il nome di pandemia, come nel caso del Covid-19, che ha colpito l’intero pianeta.

La norma tutela l’incolumità pubblica, intesa come complesso di condizioni che garantiscono la vita e l’integrità fisica dell’intera collettività.

La fattispecie è rimasta sostanzialmente invariata nel codice penale e non sono state rintracciate sentenze di condanna definitiva, nelle quali se ne fa l’applicazione. La giurisprudenza di legittimità si è espressa due volte in argomento, nel 2008 e nel 2019: con la prima sentenza,[10] le sezioni unite civili hanno delineato sinteticamente i tratti salienti della fattispecie, dichiarandola insussistente nel caso concreto in materia di emotrasfusioni; più recentemente,[11] la Suprema Corte, pur sempre escludendone la configurazione, ha fissato ulteriori caratteri del peculiare reato in tema di infezione da H.I.V.

Il reato di cui all’art. 438 c.p. è un reato comune, in quanto può essere commesso da chiunque cagiona un’epidemia, purchè mediante la diffusione di germi patogeni. L’ipotesi racchiude, al contempo, i tratti del reato di danno e quelli del reato di pericolo, in quanto, al danno rappresentato dalla malattia di un considerevole numero di persone, si aggiunge il pericolo dell’ulteriore diffusione della patologia e quello della compromissione della loro vita[12].

Nell’accezione scientifica “germi patogeni” sono tutti i microorganismi capaci di innescare malattie infettive. Il principio di tassatività della normativa penale impone di escludere altri agenti, al di fuori di quelli espressamente richiamati dalla norma, quali sostanze tossiche, radioattive o altrimenti nocive per la salute.

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (I.S.S.), una malattia infettiva è “una patologia causata da agenti microbici che entrano in contatto con un individuo, si riproducono e causano un’alterazione funzionale”. Gli effetti possono avere conseguenze variabili: “[…] in base alla suscettibilità della popolazione e alla circolazione del germe, una malattia infettiva può manifestarsi in una popolazione in forma epidemica, endemica o sporadica”.

Il concetto di diffusione richiama una nozione fisica che si presta a interpretazioni estensive e molteplici, sulla base della accezione comune e di quella scientifica. L’agente può diffondere i germi in qualsiasi modo, purchè ne derivi una propagazione rapida per un numero significativo di persone, in rapporto all’area colpita, o la possibilità che ciò possa avvenire. Recentemente la Cassazione ha affermato che “la norma incriminatrice non seleziona le condotte diffusive rilevanti e richiede, con espressione quanto mai ampia, che il soggetto agente procuri un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni, senza individuare in che modo debba avvenire questa diffusione; occorre, però, al contempo che sia una diffusione capace di causare un’epidemia”. I giudici precisano che una diffusione può aversi anche quando sia l’agente stesso il vettore consapevole dei germi patogeni, come nel caso del soggetto contagiato da H.I.V.[13]

Dunque, l’evento ha natura di danno rispetto a coloro che siano già stati contagiati, ma qualificato dal pericolo comune rispetto a coloro che potrebbero esserlo, ossia per la pubblica incolumità.[14]

In tal senso la Suprema Corte non esclude, quindi, che una diffusione possa aversi pur quando l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni. In maniera più esplicativa, però, aggiunge in un passaggio chiarificatore che “[…] vero è, però, che la modalità per contagio con contatto fisico, per rapporto sessuale, tra soggetto agente e vittima esprime una assai maggiore difficoltà ad innescare il decorso causale di tipo epidemico, alla luce del preciso significato penalistico di epidemia […].

L’indirizzo ermeneutico prospettato valorizza la causalità, nel caso concreto, tra le modalità di contagio, la diffusività del virus ed il fenomeno epidemico.

Ancor prima, invero, i giudici di legittimità in composizione nomofilattica hanno delineato, incidentalmente, i caratteri del reato di epidemia, ancorchè colposa, sulla scorta della sua essenza, per argomentare sulla prescrizione in tema di danno. In un caso è stata esclusa la sussistenza del reato di epidemia “[…] in quanto quest’ultima fattispecie presuppone la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell’eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminati di soggetti, non appare conciliarsi con l’addebito di responsabilità a carico del ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati[…].[15]

A ciò si deve aggiungere che elementi caratterizzanti il reato di epidemia sono:

  1. la sua diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell’HCV e dell’HBV non si è al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti;
  2. l’assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto;
  3. il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poiché altrimenti si verserebbe in endemia).

L’inquadramento della norma rende sufficientemente chiaro che le malattie infettive devono colpire gli esseri umani. L’eventuale diffusione su scala rilevante di una malattia delle piante o degli animali è punita, infatti, dall’art. 500 c.p. nell’ambito dei delitti contro l’economia pubblica, l’industria o il commercio. Ad esempio, nel caso della xilella fastidiosa, si potrebbe applicare tale norma ove si accertassero responsabilità governative, regionali o comunali, come risulta anche da un procedimento penale in corso, ancora nella fase delle indagini preliminari.

Il reato è punibile a titolo di dolo, ma per la rilevanza del bene giuridico tutelato, il legislatore ne ha previsto espressamente la punibilità a titolo di colpa con il citato art. 452 c.p.

Come detto, si tratta di un reato di evento a forma vincolata e, quindi, per essere punibile l’epidemia deve essere cagionata esclusivamente “mediante diffusione di germi patogeni”. L’agente deve agire con la coscienza e volontà dell’azione di diffusione e del conseguente evento. Si presuppone, inoltre, la consapevolezza della natura patogena dei germi e del nesso che vi è tra la diffusione di essi e l’evento epidemia[16].

Nel reato di epidemia l’evento “morte di più persone” deve essere non voluto dall’agente, anche se eziologicamente connesso alla sua volontà. Il colpevole che agisca con il dolo di uccidere, infatti, risponderebbe del reato di strage. La condotta del reato di epidemia verrebbe assorbita da quegli “atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità” compiuti al fine di uccidere, di cui all’art. 422 del codice penale. Invero, quest’ultima ipotesi sarebbe applicabile anche per la morte di una persona, ai sensi del secondo comma della stessa disposizione.

L’evento morte di più persone richiamato nell’art. 438 c.p., ancorchè punibile con la medesima pena dell’ipotesi base, non può essere addebitato all’agente a titolo di responsabilità oggettiva, ma sulla base di un coefficiente di prevedibilità, nel rispetto di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost.[17] L’evento-morte può, infatti, far discendere in capo al colpevole ulteriori conseguenze giuridiche. Pertanto, in ordine logico, è necessario ricostruire il nesso eziologico tra la condotta dell’agente e l’evento epidemia e fra quest’ultimo e la morte di più persone, valutando la rimproverabilità soggettiva del medesimo collegamento.

La morte di una sola persona, quale evento non voluto, resta al di fuori della previsione normativa del capoverso dell’art. 438 c.p., nel rispetto del principio di tassatività della legge penale. E’ indubbio, però, che tale evento, qualora causalmente e soggettivamente addebitabile all’agente, conserva la sua rilevanza. L’agente, infatti, risponde dell’evento non voluto ai sensi dell’art. 586 del codice penale per il quale “Quando da un fatto preveduto come delitto colposo deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’art. 83, ma le pene stabilite negli artt. 589 e 590 sono aumentate”.

La rilevanza del bene giuridico tutelato dall’art. 438 del codice penale ha indotto il legislatore alla previsione espressa della punibilità per colpa del fatto ivi sanzionato.

Infatti, l’art. 452 del codice penale, nell’ambito della disciplina dei delitti colposi di comune pericolo (Capo III del Titolo VI del codice), prevede che “Chiunque commette, per colpa, alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 438 e 439 è punito:

1) con la reclusione da tre a dodici anni, nei casi per i quali le dette disposizioni stabiliscano la pena [di morte];

2) con la reclusione da uno a cinque anni, nei casi per i quali esse stabiliscano l’ergastolo […]”.

L’epidemia colposa è punita con la pena da uno a cinque anni (n. 2, comma 1, dell’art. 452); qualora dall’epidemia deriva la morte di più persone (n. 1 dell’art. 452) l’agente risponderebbe con una pena da tre a dodici anni.

In realtà, l’art. 1, comma 2, del D.lgs. 10 agosto 1944, n.224, ha soppresso e sostituito la pena di morte con l’ergastolo, con un intervento diretto sulle norme in cui essa era comminata; sarebbero, quindi, escluse le disposizioni che non assolvono tale funzione, come l’art. 452, comma 1, del codice penale che adotta un mero rinvio.

Le ipotesi colpose sono espressamente previste dal legislatore, ai sensi dell’art. 42, comma 2, del codice penale e sono finalizzate a contenere i rischi connessi al continuo progresso tecnologico e all’evoluzione dello stile di vita individuale e collettivo.

Il delitto è colposo (o contro l’intenzione), secondo l’alinea 3 dell’art. 43 del codice penale, “Quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

La colpa si fonda su tre elementi essenziali: l’involontarietà dell’evento tipico, l’inosservanza di regole cautelari generiche o specifiche, l’attribuibilità soggettiva della violazione delle predette regole e l’esigibiltà in concreto del comportamento corretto idoneo a impedire il fatto.

L’articolata definizione normativa non dà indicazioni sulla individuazione della regola cautelare che, però, sostanzialmente, funge da precetto penale, secondo la concezione normativa della colpa. Le fattispecie colpose, a differenza di quelle dolose, infatti, non sono autosufficienti e hanno necessità assoluta di essere eterointegrate mediante una regola esterna. In sostanza, non c’è soggettività, ma oggettività nella colpa, con riferimento alla condotta cautelare dell’agente.

Individuate le regole cautelari violate nel caso concreto, è necessario accertare un giudizio di rimproverabilità del soggetto basato sui criteri di prevedibilità ed evitabilità dell’evento (terzo elemento della colpa).

Infine, il reato colposo non si può configurare in termini di tentativo, per incompatibilità logico-strutturale del peculiare addebito con l’art. 56 del codice penale. Il tentativo implica infatti l’intenzione, assente nell’elemento soggettivo della colpa.

L’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni, quindi, deve essere causata dalla violazione, soggettivamente imputabile, di norme di condotta, generiche e specifiche, formulate ed imposte proprio per prevenirla o arginarla. Il soggetto agisce in un contesto lecito nel quale entra in relazione con germi patogeni di cui ne conosce la natura o la ignora per colpa inescusabile[18].

La norma non impone una “relazione di alterità e non esclude che una diffusione possa aversi pur quando l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni”, come si verifica spesso nella pandemia in atto.[19]

Il giudizio della responsabilità colposa deve passare, però, attraverso una rigida sequenza logica che inizia con l’analisi dell’accadimento lesivo. La prima fase consiste in un giudizio esplicativo nel corso del quale si accerta il processo causale materiale dell’evento. Il c.d. giudizio di “realtà” sarà seguito dalla valutazione della natura della condotta che si ritiene causale, attiva od omissiva; in tale ultimo caso sarà necessario verificare se sull’agente versi in una posizione di garanzia con il conseguente obbligo giuridico di evitare l’evento[20].

E’ essenziale, poi, individuare la regola cautelare che si presume violata correlandola con l’evento secondo il criterio di concretizzazione del rischio. In sostanza, è necessario accertare se l’evento che si è verificato rientra tra quelli che la norma di condotta mirava ad evitare nel rispetto della c.d. causalità della colpa.

Infine e solo dopo aver accertato la causalità della colpa si procede con un giudizio controfattuale (giudizio c.d. di irrealtà) per provare la causalità in concreto dell’evento con la regola violata. Applicando il criterio del c.d. comportamento alternativo lecito si deve verificare se l’osservanza della regola cautelare violata avrebbe effettivamente impedito la verificazione dell’evento nel caso concreto.

Inoltre, le eventuali cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento, ai sensi del comma 2 dell’art. 41 del codice penale, escludono il rapporto eziologico tra la condotta e l’evento. Il concorso di cause preesistenti o simultanee (in quanto conosciute o conoscibili dall’agente), anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole o consistenti nel fatto illecito altrui, non esclude il nesso di causalità.[21]

Per quanto riguarda l’aspetto procedurale, il delitto di epidemia colposa è di competenza del Tribunale in composizione monocratica, salvo che ricorra la circostanza aggravante speciale dell’aver cagionato la morte di più persone, nel qual caso sarà deciso dal Collegio (salvo l’accesso a riti alternativi nel corso dell’udienza preliminare).

Più complesso è individuare la competenza per territorio, poichè occorre determinare in quale contesto il singolo agente abbia infettato un numero di individui così rilevante da integrare l’evento e così consumare il delitto. Per una parte della dottrina,[22] se l’epidemia si propaga in circoscrizioni di giudici diversi, sarebbe competente quello del luogo in cui si è verificata una parte dell’azione o dell’omissione. Nel caso in cui sia integrata la menzionata aggravante, però, la competenza si radicherebbe nel luogo in cui è avvenuta l’azione che ha portato alla diffusione del contagio, ai sensi dell’art. 8, comma 2, c.p.p. Per quanto attiene alla prova dell’evento-epidemia, se si accogliesse l’impostazione sanitaria, si dovrebbe fare riferimento ad un sapere scientifico largamente accreditato dagli studiosi.[23]

Dalle considerazioni esposte si evince chiaramente che la teorica applicabilità dell’arresto in flagranza va esclusa in concreto, considerata l’impossibilità da parte della Polizia Giudiziaria di valutare sul momento se la condotta del soggetto agente abbia cagionato un evento di dimensioni tali da integrare un’epidemia penalmente rilevante.

  1. Le fattispecie al tempo del Covid-19

Si osserva preliminarmente che l’art. 4, comma 6, del decreto legge n.19/2020 convertito nella legge 22 maggio 2020, n. 35 contiene un’espressa clausola di riforma e, come notato in dottrina, si pone in un rapporto di gravità progressiva rispetto al delitto di cui all’art. 452 c.p. sotto il profilo dell’entità del pericolo per la salute pubblica.[24] Pertanto, l’epidemia colposa sarà configurabile quando si accerti che la condotta dell’agente ha cagionato il contagio di una o più persone e la possibilità di un’ulteriore propagazione della malattia rispetto ad un numero indeterminato di individui.[25]

Tuttavia, non sembra sufficiente il fatto che l’O.M.S. abbia formalmente classificato il fenomeno come “pandemia”, perché tale definizione postula soltanto che una nuova malattia si sia propagata in almeno due continenti ed è del tutto slegata dai presupposti enucleati dalla giurisprudenza di legittimità.

Altrettanto inutile appare un criterio basato sulla percentuale della popolazione contagiata, da un lato perché ontologicamente tale da far passare in secondo piano cifre di per sé ingenti se considerate in termini assoluti e, dall’altro, perché dipendente dal numero di test effettuati o delle diagnosi formulate, in una situazione peraltro condizionata dal carattere emergenziale che ha imposto di circoscrivere gli accertamenti solo ad alcuni dei soggetti che presentino sintomi compatibili con quelli originati dal Covid-19.[26]

Pertanto, per evitare un deficit di tassatività, potrebbe essere utile rifarsi alla nozione tecnico-scientifica di epidemia, per la quale si tratta di evento diverso dalla condizione di normalità attesa rispetto ad una coorte (c.d. cluster), in particolare connotato da una crescita esponenziale che moltiplica il numero di contagi oltre il livello previsto, che non sempre è costituito dall’assenza di casi.[27]

In altri termini, occorrerebbe rifarsi a studi epidemiologici che abbiano verificato, rispetto ad una determinata fascia di popolazione, insistente su un circoscritto ambito territoriale, che in un contenuto lasso di tempo si è verificata l’anomalia statistica per la quale la nozione giuridica di epidemia è autonoma da quella medica. Ciò, però, contrasta con l’impostazione tradizionale e assolutamente predominante, per la quale la nozione giuridica di epidemia è autonoma da quella medica.

Perciò, in alternativa, si potrebbe fare affidamento ad atti formali adottati dalle competenti Autorità sanitarie che conclamino l’esistenza di un’epidemia nel proprio ambito di competenza, che coinciderebbe con il medesimo contesto spaziale e traccerebbe altresì un limite temporale, poiché da quel momento in poi eventuali aumenti nel numero dei contagi rileverebbero soltanto come aggravanti dell’evento dannoso e come conferme della sua intrinseca diffusibilità. Il provvedimento amministrativo, in altre parole, sancisce il passaggio da una molteplicità di contagi – evento naturalistico – ad un sostrato di fatto indice di offesa rispetto all’interesse tutelato.[28]

In questa chiave di lettura, il criterio fondato sull’emissione di provvedimenti normativi o amministrativi ad hoc potrebbe essere utilizzato per una semplificazione sul piano probatorio, nel senso che, qualora sia stato adottato un atto formale, non dovrebbe essere più consentito dibattere sull’esistenza di una epidemia anche penalmente rilevante.

In primo luogo, vanno considerati i vari D.P.C.M., adottati sulla scorta delle valutazioni del Ministero della salute (sempre annoverato tra i soggetti proponenti), che hanno enunciato anche regole cautelari volte ad evitare il propagarsi dell’infezione e, quindi, l’originarsi di altri focolai di epidemia o l’aggravarsi di quelli già esistenti.

Sulla base delle attuali conoscenze scientifiche e delle conseguenze riscontrate finora è possibile qualificare il SARS-CoV-2 fra i germi patogeni, richiamati dall’art. 438 c.p. che, qualora diffusi, dolosamente o colposamente, possono cagionare un’epidemia, quale “manifestazione collettiva d’una malattia che rapidamente si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto in dipendenza da vari fattori, si sviluppa con andamento variabile e si estingue dopo una durata anche variabile”.

Secondo le informazioni mediche pubblicate dall’I.S.S. “I coronavirus umani si trasmettono da una persona infetta ad un’altra attraverso:

1) la saliva, tossendo e starnutendo (c.d. droplet respiratorio), cioè attraverso le particelle acquose contenenti il virus emesse dagli infetti;

2) contatti diretti personali;

3) le mani, ad esempio toccando con le mani contaminate (non ancora lavate) bocca, naso o occhi;

4) una contaminazione per via oro-fecale (raramente);

5) da madre a figlio neonato”.

Per questo motivo le misure sinora adottate dalle Autorità sono state finalizzate a realizzare il cosiddetto distanziamento sociale, cioè a interporre uno spazio di sicurezza tra i consociati, compreso tra un metro e due metri, e a ridurre il più possibile le occasioni in cui possono verificarsi i contatti sociali.

Il principale portatore di questo germe è l’uomo stesso, che può sviluppare, per la malattia che ne deriva, una sintomatologia parainfluenzale, accompagnata o meno da polmonite o da altre gravi patologie.

Per ricostruire la causalità nelle fattispecie criminose di cui agli artt. 438 e 452 c.p. in presenza della diffusione di questo virus è necessario fare riferimento alla scienza medico-epidemiologica.

Per quanto concerne la diffusione dolosa e il tentativo, un soggetto, consapevole della natura del SARS-CoV2, potrebbe deliberarne la diffusione per cagionare ulteriori focolai. Per fare ciò potrebbe veicolarlo, se portatore, nei modi di trasmissione note alla letteratura medica e sopra descritte, servirsi di oggetti o secrezioni contaminati da mettere in circolazione o, comunque, utilizzare qualsiasi altra modalità. L’agente risponderà a titolo di dolo del delitto di cui all’art. 438 c.p. qualora, a seguito della diffusione, cagioni un’epidemia.

L’elemento soggettivo della fattispecie è il dolo generico e l’agente può rispondere del reato anche a titolo di dolo eventuale. In tale ultima ipotesi, egli agisce per altro, ma è consapevole che, con la sua condotta, può cagionare un’epidemia mediante la diffusione dei germi e, nonostante ciò, accetta il rischio del verificarsi dell’evento.

Allo stato, l’epidemia è già in corso da vari mesi, con focolai sparsi nelle varie regioni geografiche. Pertanto, l’evento addebitabile all’agente sarà il focolaio epidemico cagionato direttamente e causalmente dalla sua condotta. E’ ammesso il tentativo, configurabile se l’evento epidemico non si verifica, nonostante la diffusione dei germi.

L’ulteriore evento “morte di più persone” di cui al capoverso dell’art. 438 c.p., nel caso di diffusione di germi SARS-CoV-2, non è certamente un’ipotesi imprevedibile, della quale l’agente sarà, quindi, chiamato a rispondere, anche con la medesima pena dell’ergastolo. Deve quindi essere provata la concatenazione causale fra i decessi e lo specifico focolaio della malattia infettiva innescato dal responsabile.

Al di là dell’ipotesi dolosa, è più probabile che, nell’attuale contesto storico e con riferimento all’ipotesi oggetto del presente lavoro, si possano verificare fatti riconducibili al reato di epidemia colposa, come quelli all’esame della Procura di Bergamo.

Appurata l’incompatibilità del tentativo con i reati colposi, il delitto di cui all’art. 452 c.p. si consuma soltanto con la verificazione dell’evento epidemico (non voluto) mediante la diffusione del virus causata da condotte che violano i doveri di diligenza, prudenza e perizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, imposti proprio per evitare il verificarsi dell’evento. E’ necessario, però, ricostruire eziologicamente il nesso tra la condotta e lo specifico focolaio epidemico, con il supporto della scienza medica e l’inosservanza delle regoli cautelari deve essere rimproverabile all’agente.

Per contrastare e contenere la diffusione del virus sono in atto molteplici misure di natura legislativa e regolamentari cui si deve conformare la popolazione per evitare che l’evento epidemia possa verificarsi a causa del suo comportamento. Un soggetto è punibile quando la condotta che viola una delle misure emergenziali si pone come antecedente causale di uno specifico focolaio epidemico, evento che rientra fra quelli che le regoli cautelari miravano proprio ad evitare. Quindi, un soggetto infetto che, violando i provvedimenti normativi, gli ordini dell’autorità sanitaria o le regole cautelari generiche, diffonde con qualsiasi modalità il virus e cagiona l’epidemia, non volendola, è chiamato a rispondere dell’ipotesi di cui all’art. 452, comma 1, n.2, c.p., con la pena della reclusione da uno a cinque anni.

Nel 2017 la Corte di cassazione ha affermato che “Non è configurabile il delitto di epidemia colposa a titolo di omissione, posto che l’art. 438 c.p., con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, secondo comma, c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera”.[29]

Tale principio non appare del tutto condivisibile perché si ritiene che la diffusione dell’epidemia possa avvenire in qualsiasi modo. Infatti, l’art. 40, comma 2, c.p. recita “Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.

In realtà, tra l’altro, nel 2013, proprio la Suprema Corte ha affermato che “E’ configurabile il concorso per omissione, ex art. 40, secondo comma c.p., rispetto anche ai reati di mera condotta, a forma libera o vincolata”;[30] e, ancor più recentemente, nel 2016, che “E’ configurabile il concorso per omissione ex art. 40, secondo comma, c.p. nel reato di frode nelle pubbliche forniture, posto che la responsabilità da causalità omissiva è ipotizzabile anche nei riguardi dei reati di mera condotta, a forma libera o vincolata, e che, nell’ambito della fattispecie concorsuale, la condotta commissiva può costituire sul piano eziologico il termine di riferimento che l’intervento omesso del concorrente avrebbe dovuto scongiurare”.[31]

La caotica e diffusa evoluzione dell’emergenza epidemica richiede l’accertamento dell’interferenza di altre cause concorrenti alla verifica dell’evento. Ai sensi dei commi 1 e 3 dell’art. 41 c.p. “Il concorso di cause preesistenti o simultanee sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione o omissione del colpevole” o consistenti nel fatto illecito altrui, “non esclude il nesso di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”. Il legislatore non fa alcuna eccezione per le cause preesistenti e simultanee, poiché, per il loro carattere possono entrare nella sfera rappresentativa dell’agente. Una deroga è dettata per le circostanze sopravvenute che, non essendo conoscibili in quanto future, “escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”, ai sensi del comma 2 della medesima disposizione.

La diffusione di germi patogeni a seguito di una condotta, commissiva od omissiva, di natura colposa, può non cagionare un episodio epidemico, ma non per questo essere penalmente irrilevante. Le regole cautelari dettate in materia presidiano il bene giuridico rappresentato dall’incolumità pubblica, così come quello della salute e della vita dei singoli. Pertanto, l’agente che, violando le disposizioni normative e regolamentari, gli ordini dell’autorità, le linee guida del settore sanitario o regole cautelari, provoca il contagio di una o più persone, senza causare comunque un focolaio epidemico in senso scientifico, può rispondere di lesioni colpose ai sensi dell’art. 590 c.p. La condotta, infatti, sarebbe causa di una lesione personale. L’infezione, dalla quale deriva da una malattia nel corpo, con un decorso più o meno grave, che può portare anche alla morte del soggetto contagiato. Il decesso dell’agente è, infatti, un evento assolutamente prevedibile per l’agente, sulla base della notevole mole di informazioni che da mesi circolano in ambito nazionale e internazionale. Ciò comporta che il responsabile può essere chiamato a rispondere di omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p.

Tenuto conto della sua complessità, il giudizio colposo ha necessità di valorizzare il principio secondo il quale il soggetto che comunque agisce nell’ambito di attività lecite, dovrà essere ritenuto “colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, ai sensi dell’art. 533 c.p.p., così come modificato dalla legge n. 46/2006.

 

 

 

  1. L’inchiesta della Procura della Repubblica di Bergamo e il problema dell’immunità diplomatica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

Nei giorni scorsi la Procura della Repubblica di Bergamo ha chiesto al Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale di chiarire se i ricercatori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, chiamati a testimoniare nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione della pandemia nella provincia più colpita dal contagio, godano di un’immunità diplomatica.[32]

Infatti, come riportato da numerosi organi di stampa, l’OMS ha inviato da Copenaghen, sede europea dell’Organizzazione, una nota alla Procura della Repubblica, ai ministeri degli Esteri e della Cooperazione Internazionale e della Salute, in cui afferma che i suoi ricercatori non sono tenuti a rispondere alle domande dei magistrati per via del loro speciale status. Nel contempo, l’Organizzazione ha anche invitato i suoi ricercatori a non presentarsi davanti ai pubblici ministeri, cosa che però alcuni di loro non hanno fatto recandosi in Procura e rispondendo alle domande dei PM.

E’ quanto sostenuto in due note formali inviate il 3 e il 24 novembre 2020: “L’organizzazione chiede rispettosamente che il ministro adotti ogni misura necessaria per assicurare che l’immunità dell’OMS e dei suoi ufficiali sia pienamente rispettata”, scrive l’ufficio regionale per l’Europa, lamentando di non aver ricevuto “alcuna comunicazione attraverso i canali ufficiali appropriati che coinvolgono il Ministro degli Affari Esteri”.[33]

Un’immunità che l’OMS ha ritenuto di non far valere per il vicedirettore europeo, Ranieri Guerra, convocato e sentito il 5 novembre scorso come persona informata sui fatti, anche su un rapporto di un centinaio di pagine redatto dalla sezione OMS di Venezia in cui si criticava il governo italiano per la gestione della prima fase dell’emergenza. Questo dossier, che faceva riferimento anche al mancato aggiornamento del piano pandemico del 2006, era rimasto online per poche ore e poi cancellato. Infatti, Ranieri Guerra, prima di diventare il numero due dell’OMS, è stato dal 2013 al 2017 a capo della prevenzione sanitaria del Ministero della Salute italiano, la direzione generale che avrebbe dovuto aggiornare il piano pandemico nazionale.

Si tratterebbe di un rapporto intitolato “Una sfida senza precedenti: la prima risposta dell’Italia al Covid-19”, il quale pur riconoscendo che l’Italia è dotata di uno dei più efficienti sistemi sanitari, attestava l’inadeguatezza del piano pandemico italiano, vecchio di più di dieci anni, ideato nel 2006 dopo l’epidemia di Sars e riconfermato nel 2017, e puntava il dito contro una “pianificazione più teorica che pratica dell’Italia” e sulla “scarsa traduzione delle intenzioni in misure concrete”.

La procura, da cui trapela un certo disagio per la vicenda, ha deciso di non rispondere alle note ricevute dall’OMS, ma di avviare un’interlocuzione con il Ministero deli esteri per capire se effettivamente esista questa presunta immunità che viene fatta risalire alla Convenzione del 1947 sui privilegi e le guarentigie di chi fa parte delle agenzie dell’ONU.

Il Ministero degli esteri dovrà sciogliere alcuni nodi: se effettivamente esista un’immunità

come quella invocata dall’OMS che arriva a configurare un “divieto di testimoniare”, se questa immunità possa riguardare anche dei ricercatori contrattisti, quindi non funzionari come Guerra, per il quale invece non è stata reclamata.

Si deve anche comprendere se eventualmente ai ricercatori possa essere imposto un silenzio tout court oppure se essi possano opporre solo un segreto su attività circostanziate svolte nell’ambito dell’OMS, analogo a quello previsto per categorie come i giornalisti o i pubblici ufficiali.

L’indagine della Procura di Bergamo, che ipotizza il reato di epidemia colposa, riguarda la mancata istituzione della zona rossa in Val Seriana e la chiusura e poi quasi immediata riapertura dell’ospedale di Alzano Lombardo. I magistrati hanno anche sentito nei mesi scorsi, come persone informate sui fatti, tra gli altri, il Presidente del Consiglio, i ministri degli Affari Esteri, dell’Interno, della Salute, il presidente e l’assessore al welfare della regione Lombardia. Per i PM di Bergamo lo status di diplomatico non dispenserebbe dall’obbligo di presentarsi davanti ai magistrati per rendere testimonianza e l’immunità dovrebbe essere sollevata eventualmente nel corso dell’interrogatorio. L’intenzione è quella di procedere nonostante il rischio di incidenti diplomatici.

Si osserva in primo luogo che l’Organizzazione Mondiale della sanità (in inglese World Health Organitation, WHO) è un istituto specializzato dell’ONU per la salute, fondata il 22 luglio 1946 ed entrata in vigore il 7 aprile 1948 con sede a Ginevra.

L’obiettivo dell’OMS, così come precisato nella relativa costituzione, è il raggiungimento, da parte di tutte le popolazioni del livello più alto possibile di salute definita nella medesima costituzione come condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non soltanto come assenza di malattia o di infermità. E’ membro del Gruppo per lo sviluppo delle Nazioni Unite.

L’organizzazione è governata da 194 stati membri attraverso l’Assemblea mondiale della sanità (World Health Assembly), convocata annualmente in sessioni ordinarie nel mese di maggio. Questa è composta da rappresentanti degli Stati membri, scelti tra i rappresentanti dell’amministrazione sanitaria di ciascun Paese (ministeri della Sanità). Le principali funzioni dell’Assemblea consistono nell’approvazione del programma dell’organizzazione e del bilancio preventivo per il biennio successivo, e nelle decisioni riguardanti le principali questioni politiche.

E’ un soggetto di diritto internazionale, vincolato come tale da tutti gli obblighi imposti nei suoi confronti da norme generali consuetudinarie, dal suo atto istitutivo o dagli accordi internazionali di cui è parte.

L’immunità degli Stati dalla giurisdizione di un altro Stato sovrano è un principio che si è ormai consolidato nel tempo.[34] Per le organizzazioni internazionali, invece, è una materia sulla quale il dibattito si è aperto in tempi relativamente recenti. Immunità e privilegi delle organizzazioni internazionali sono manifestazioni della personalità giuridica internazionale, un corollario di quest’ultima.

Le tesi sul fondamento giuridico delle immunità sono diverse. Secondo un primo orientamento immunità e privilegi sarebbero previsti da una norma di diritto consuetudinario.

Un altro orientamento, maggiormente condivisibile, rinverrebbe invece tale fondamento esclusivamente nelle norme di diritto pattizio: accordi istitutivi delle organizzazioni, accordi di sede fra l’organizzazione e lo Stato ospitante, convenzioni generali sulle immunità e disposizioni nazionali. Un esempio di norme sull’immunità contenute negli atti istitutivi delle organizzazioni internazionali è l’art. 105 della Carta delle Nazioni Unite che prevede l’immunità e privilegi per l’ONU nel territorio dei suoi membri. Queste convenzioni generali sono divenute un modello di riferimento e sono state applicate anche al di fuori del sistema delle Nazioni Unite.

Il fondamento delle immunità può rinvenirsi, inoltre, nell’obbligo di cooperazione tra soggetti membri e l’organizzazione, obbligo che si trova in molti accordi istitutivi e che è anche ritenuto un principio generale del diritto delle organizzazioni. Tale obbligo si concretizza in una serie di comportamenti che devono assumere gli Stati nei confronti delle organizzazioni internazionali, con lo scopo di garantirne l’indipendenza ed eliminare qualsivoglia ostacolo all’esercizio delle loro funzioni. I comportamenti che gli Stati pongono in essere per tener fede all’obbligo di cooperazione si concretizzano anche nell’immunità e nei privilegi assicurati, in modo da consentirgli di raggiungere gli scopi previsti nei trattati istitutivi senza alcuna ingerenza esterna.

La tesi più accreditata sul fondamento delle immunità degli enti internazionali è quella che fa riferimento al diritto pattizio. Non sembra infatti che si sia formata una norma di diritto generale in materia. Inoltre, non vi è un riscontro uniforme nella prassi giudiziaria; infatti i giudici degli Stati non fanno riferimento a norme consuetudinarie internazionali, ma a norme nazionali e obblighi convenzionali.

L’immunità dalla giurisdizione contenziosa comporta, secondo la prevalente dottrina, l’obbligo di non avviare procedimenti giudiziari dinanzi alle autorità giudiziarie dello Stato ospitante o di altri Stati vincolati dalle norme internazionali rilevanti in materia. E si ritiene che tale divieto in Italia si estenda anche agli atti istruttori di un procedimento penale nell’ipotesi di citazione di persone informate sui fatti (art. 377 c.p.p.) e accompagnamento coattivo di altre persone (art. 133 c.p.p.).

In materia di immunità delle organizzazioni internazionali dalla giurisdizione degli Stati vi sono ormai molti accordi internazionali. Ma tali norme presenti negli accordi internazionali non sono uniformi e non si applicherebbero a Stati terzi.

E’, anche, da rilevare che le organizzazioni internazionali hanno la facoltà di rinunciare all’immunità dalla giurisdizione contenziosa attraverso una rinuncia esplicita (proveniente dall’organo che rappresenta l’organizzazione (nel nostro caso l’OMS) o implicita (ad esempio, l’organizzazione si difende in giudizio senza sollevare una questione preliminare sull’immunità).

Si riscontra nella disciplina pattizia una tutela più ampia dei beni delle organizzazioni internazionali e una maggiore uniformità rispetto alle disposizioni concernenti l’immunità dalla giurisdizione contenziosa.

L’orientamento prevalente ricomprende gli Enti che fanno parte delle Nazioni Unite, come nel caso in argomento, ed è preso ormai a modello dalla maggior parte delle organizzazioni internazionali.

Tale orientamento maggioritario fa riferimento alla Convenzione generale e i privilegi dell’ONU del 13 febbraio 1946, e viene sancito dall’art. III, sez. 3.

In conclusione, si può dunque affermare che l’orientamento riferito alla famiglia delle Nazioni Unite e successivamente preso a modello da gran parte degli enti internazionali, prevede un’immunità dalla giurisdizione esecutiva e cautelare assoluta.

In Italia, per quanto concerne il presente lavoro, in data 30 agosto 1985, a seguito di autorizzazione disposta dalla legge 24 luglio 1951, n. 1740, è stato depositato a New York, presso il Segretario Generale delle Nazioni Unite, lo strumento di adesione del nostro Paese alla convenzione sui privilegi e le immunità delle Istituzioni specializzate delle Nazioni unite, approvato dall’ Assemblea Generale delle N.U, il 21 novembre 1947.

Sulla base di tali incontrovertibili dati testuali di diritto internazionale, si ritiene che il rifiuto opposto dall’OMS alla citazione da parte della Procura della Repubblica di Bergamo di suoi funzionari o contrattisti, sia pienamente legittimo.

La fondatezza di tale tesi è confermata dalla circostanza che lo scorso 11 dicembre, su richiesta del Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, la rappresentanza italiana presso le Nazioni Unite ha inviato una lettera all’OMS chiedendo di fare in modo che i ricercatori possano non avvalersi dell’immunità al fine di contribuire al pieno svolgimento delle indagini in corso. Nella missiva si legge che “Alla luce dell’ottima collaborazione tra Italia e Organizzazione Mondiale della Sanità, ulteriormente rafforzata durante il periodo della pandemia Covid-19, chiedo di considerare, nello spirito della sezione 22 della Convenzione in argomento, la possibilità di permettere a funzionari ed esperti di acconsentire alla richiesta del Procuratore di essere sentiti come persone informate sui fatti”.
Il Ministero degli Esteri, come già evidenziato, non ha infatti competenze in merito all’immunità funzionale invocata da funzionari internazionali, anche se questi sono di cittadinanza italiana. E’ solo l’OMS che può decidere di rinunciare all’immunità dei propri funzionari ed esperti e permettere che questi vengano sentiti dall’Autorità giudiziaria.

  1. Conclusioni

In Italia, certamente la pandemia si inserisce in maniera ingombrante nel sistema Paese e della pubblica amministrazione, già atavicamente in una situazione di difficoltà strutturale e funzionale.

Le conclusioni cui giunge il presente lavoro dal punto di vista tecnico-giuridico, non escludono tuttavia che, sulla base del rispetto del prioritario principio di trasparenza, soprattutto nell’ambito di una pandemia di portata epocale quale quella in atto, che l’OMS eserciti la facoltà di rinunciare all’immunità dalla giurisdizione contenziosa attraverso una rinuncia esplicita.

Siffatto comportamento aiuterebbe la magistratura italiana ad accertare la liceità delle fattispecie esaminate, accertamento che, si badi bene, contribuirebbe in via indiretta anche al contrasto del contagio per le conseguenti indicazioni di carattere sanitarie che ne deriverebbero.

Con tale auspicio si ritiene che forse è arrivato il momento di realizzare compiutamente una leale collaborazione tra tutti gli enti interessati, anche internazionali, per l’attuazione del principio sancito solennemente dalla nostra Carta costituzionale nel citato art. 32, secondo comma, principio fortemente perseguito anche dalla stessa OMS.

Volume consigliato


Note

[1] P. Centilucci, Il piano Colao per la pubblica amministrazione: un primo passo verso la semplificazione?, in Diritto.it, 2020.

[2] P. Gentilucci, La possibile rilevanza penale del cosiddetto negazionismo del Covid-19, in Giurisprudenza Penale web, 2020.

[3]  I. Policarpio, Reato di epidemia colposa e dolosa: disciplina e pene, in Money.it, 2020.

[4] F. Simone, Coronavirus: la riscoperta del delitto di epidemia e la (scarsa) giurisprudenza sul tema, in Quotidiano Giuridico, 2020.

[5] Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, I, quinta edizione, Bologna, 2012, p.505.

[6] Marinucci-Dolcini, Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, Quinta edizione, Milano, 2012, p.208.

[7] Si veda Cassazione penale, sent. del 26 gennaio 2011, n. 2597.

[8]  Si veda Tribunale di Savona sent. del 26 febbraio 2008

[9] Marinucci-Dolcini, Manuale di Diritto Penale. Cit. p.440.

[10] Si veda Cassazione Civile, Sezioni Unite, sent. del 22 maggio 2008, n. 576.

[11] Si veda Cassazione penale. sez. I, sent. del 30 ottobre 2019, n. 48014.

[12] Garofoli, Manuale di diritto penale-Parte generale, in Il Diritto Editore, 2014, pp.1020-1030.

[13] Si veda Cassazione penale, sez. I, 30 ottobre 2019, n. 48014, cit.

[14] R. Fresa, sub art. 438, in Codice Penale Commentato, Torino, 2018.

[15] Si veda Cassazione sezioni Unite, 11 gennaio 2008, n.576.

[16] Si veda Cassazione penale, sez. IV sent. del 12 dicembre 2017, n.9133.

[17] Si veda Cassazione, Sezioni Unite, sent. del 22 maggio 2009, n.22676.

[18] Si veda Cassazione penale, sez. I, sent. del 23 settembre 2013, n.43273.

[19] Si veda Cassazione penale, sez. I, sent. del 30 ottobre 2019, n.48014, cit.

[20] Si veda Cassazione penale, sez. IV, sent. dell’ 8 aprile 2016, n. 28301.

[21] L. Agostini, Pandemia e “Penademia”: sull’applicabilità della fattispecie di epidemia colposa alla diffusione del Covid-19 da parte degli infetti, in Sistema Penale, 4/2020.

[22] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VI, 1983, p.402.

[23] Si vedano, ex plurimis, Cassazione penale, sez. IV, 15 maggio, n.46392; sez. IV, 10 novembre 2017, n. 55005.

[24] L. Agostini, Pandemia e “Penademia”: sull’applicabilità della fattispecie di epidemia colposa alla diffusione del Covid-19 da parte degli infetti, cit.

[25] G.L. Gatta, Coronavirus limitazione di diritti e libertà fondamentali e diritto penale: un deficit di libertà da rimediare, in Sistema Penale, 2020. M. Bozzaotre, Il diritto ai tempi del coronavirus, come cambia la nostra vita, in Giustizia Insieme, 2020.

[26] G. Arbia – V. Nardelli, I dati non parlano da soli: l’epoca del Coronavirus smaschera l’inganno dell’algoritmo-onnipotente e rivaluta il metodo statistico, in giustiziainsieme, 2020, p.4

[27] V.N. Stolfi, Brevi note sul reato di epidemia, Voce Epidemia, in Dig. Pen. IV, § 2, p.3995.

[28] N. Stolfi, Brevi note sul reato di epidemia, cit., pp.3948-3949.

[29] Si veda Cassazione penale, sez. IV, sent. del 12 dicembre 2017, n.9133.

[30] Si veda Cassazione penale, sez. I, sent. del 23 settembre 2013, n.43273.

[31] Si veda Cassazione penale, sez. IV, sent. dell’ 8 aprile 2016, n.28301.

[32] M. D’Alessandro, L’OMS può rifiutarsi di collaborare con la procura di Bergamo?, in AGI, 2020.

[33] A. Tornago, Inchiesta a Bergamo sui morti Covid, scontro tra procura e OMS sull’immunità dei funzionari, in Repubblica, 2020.

[34] Tasfagabir, The State of Functional Immunity of International Organitations and their Officials and why it should be streamlined, in Chinese Journal of International Law, 2011, pp. 96 ss.

Prof. Paolo Gentilucci

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