La minaccia di azioni giudiziarie e il profitto illecito

Redazione 04/03/20
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La minaccia di azioni legali al fine di conseguire un profitto non iure datum ma contra ius: il delitto di estorsione

Nel Capitolo II si è cercato di richiamare l’attenzione su alcuni dei più frequenti vizi nel contratto di apertura di credito in conto corrente bancario. Si è pure potuto constatare che la più recente giurisprudenza, sia di merito che di legittimità – sebbene, nel passato, ci siano state alcune pronunce in senso difforme –, continua a riconoscere l’invalidità di numerose clausole presenti e diffuse nei contratti di apertura di credito in conto corrente bancario e, di conseguenza, l’infondatezza giuridica sia dei crediti, basati su dette clausole, vantati dagli istituti sia dei pagamenti effettuati di cui non si può negare la natura di indebito oggettivo con conseguente applicabilità della disciplina di cui all’art. 2033 cod. civ. Resta da vedere, ora, se e in quali casi richieste o percezioni di somme non dovute, da parte di banche, possano concorrere a costituire gli elementi di fattispecie penali. L’art. 629 cod. pen. punisce: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno (…)”.

È noto che scopo dell’incriminazione è la tutela del patrimonio nonché della libertà personale. Trascurando, in questa sede, di soffermarci sulla differenza tra violenza e minaccia, appare utile chiarire, innanzitutto, la portata di quest’ultimo termine e, poi, esaminare il significato riconosciuto, da dottrina e giurisprudenza, all’ingiustizia del profitto.

È chiaro che il nucleo centrale del reato di estorsione consiste nella coazione per mezzo della quale una persona viene costretta a “fare o ad omettere qualche cosa” con conseguente diminuzione del patrimonio della vittima e profitto per l’agente o per altri. In merito alla minaccia, è pacifico che, per l’integrazione della fattispecie, il male minacciato debba essere ingiusto. È stata discussa, sia in dottrina che in giurisprudenza, l’ipotesi in cui il male minacciato consista nell’esercizio di un diritto. È indubbio che non si può ritenere responsabile di estorsione il soggetto che minacci di adire l’autorità giudiziaria al fine di ottenere il soddisfacimento di una pretesa – direttamente o indirettamente – tutelata dall’ordinamento giuridico. Diversa è, invece, l’ipotesi in cui la minaccia dell’esercizio del diritto è strumentale a conseguire un vantaggio superiore rispetto a quello giuridicamente tutelato o, addirittura, è finalizzata ad ottenere un profitto non dovuto. La Corte di Cassazione, a tal riguardo, ha, da tempo, riconosciuto che la minaccia di esercizio di un diritto diventa ingiusta ogni qual volta è diretta ad ottenere un vantaggio superiore a quello che l’esercizio del diritto stesso comporterebbe all’agente. Ciò che va valutato, in tali casi, è se l’agente minacci di utilizzare i mezzi giuridici in conformità o meno agli scopi per cui essi sono stati predisposti dall’ordinamento. La dottrina e la giurisprudenza, in quest’ultimo caso, sono concordi nel ritenere l’illiceità della minaccia precisando che essa, “(…) sebbene non sia penalmente apprezzabile quando è legittima e tende a realizzare un diritto riconosciuto e tutelato dall’ordinamento giuridico, diviene contra ius quando, pur non essendo antigiuridico il male prospettato, si faccia uso di mezzi giuridici per scopi diversi da quelli per i quali sono stati apprestati dalla legge. Conseguentemente, in tema di estorsione la minaccia di un male legalmente giustificato assume il carattere di ingiustizia quando sia fatta non già per esercitare un diritto sibbene con lo scopo di coartare la volontà di altri per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia” (1).

Il presente contributo è tratto da

Anatocismo bancario e vizi nei contratti

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La minaccia costitutiva di tale delitto, peraltro, oltre che essere esplicita e determinata, può essere implicita, larvata, indiretta ed indeterminata, essendo solo necessaria l’idoneità ad incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima ed alle condizioni ambientali in cui questa opera (2). La costrizione può compiersi sia mediante un’azione che mediante un’omissione purché, in quest’ultimo caso, l’agente abbia un obbligo giuridico di compiere l’azione che, invece, resta inadempiuto (3).

L’atto di disposizione patrimoniale compiuto dalla vittima, in conseguenza alla violenza o minaccia, deve procurare all’agente (o a terzi) un “ingiusto profitto con altrui danno”. anche in tal caso si è discusso, in dottrina (4) e in giurisprudenza, sul carattere ingiusto del profitto. La prevalente dottrina (5) e giurisprudenza sostengono che il profitto è sempre ingiusto quando l’utilità, nella quale si concreta il profitto, non è e non può ritenersi dovuta. altra pur autorevole dottrina ritiene che debba essere considerato il “rapporto esistente fra il mezzo coattivo usato e il vantaggio patrimoniale avuto di mira” per cui, se il mezzo è di per sé antigiuridico, il profitto si considererà sempre ingiusto. Se, invece, il male minacciato non è di per sé antigiuridico, come nel caso che si minacci un’azione giudiziaria o una denuncia alle autorità, occorrerebbe stabilire, secondo tale teoria, se, di questi mezzi, si faccia o no un uso conforme agli scopi per cui sono consentiti dalla legge. Da quanto si è detto prima in merito all’illiceità della minaccia, si può evincere, pertanto, che quest’ultima tesi àncora l’ingiustizia del profitto – nel caso che il male non sia di per sé antigiuridico – al male minacciato di cui ritiene la natura illecita, come si è visto, allorquando viene utilizzato un mezzo giuridico per scopi diversi da quello per cui è stato previsto dall’ordinamento. Dovrebbe, pertanto, risultare evidente la configurabilità, in astratto, del delitto di estorsione nel caso in cui il responsabile dell’istituto di credito, pur sapendo di conseguire un profitto ingiusto e non tutelato dall’ordinamento, minacci un’azione giudiziaria; in tal caso, infatti, l’agente minaccia di utilizzare uno strumento legale per scopi diversi da quelli per i quali è stato previsto dal legislatore che, giammai, può essere il soddisfacimento di un profitto non dovuto e, come tale, “ingiusto”. appare utile ricordare, infatti, il principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui: “costituisce intimidazione illegittima, idonea, come tale, ad integrare il delitto di estorsione ex art. 629 cod. pen., anche una minaccia dalla parvenza esteriore di legalità allorquando sia fatta, non già con l’intenzione di esercitare un diritto, ma allo scopo di coartare l’altrui volontà e di ottenere risultati non consentiti attraverso prestazioni non dovute nell’an o nel quantum” (6).

Non si comprenderebbe, pertanto, come possa, l’intenzione di ottenere somme non dovute “nell’an o nel quantum”, non costituire un ingiusto profitto. Si consideri, oltretutto, che la giurisprudenza nega validità a giustificazioni fondate sul fatto che la persona offesa potrebbe pur sempre difendersi dalla (minacciata) azione legale facendo valere in giudizio l’infondatezza della pretesa avanzata nei suoi confronti. Merita di essere ricordato, a tal proposito, quanto con ancora maggiore chiarezza ribadito dalla Corte di Cassazione (sent. 17 dicembre 2012, n. 48733) (7) nel rigettare la tesi difensiva dell’imputato secondo cui la prospettazione di un “procedimento secondo legge o la richiesta di emissione di un decreto ingiuntivo non costituirebbero una minaccia tale da integrare gli estremi dei reati di estorsione o di tentata estorsione (…) ben potendo” il soggetto passivo “resistere nell’eventuale giudizio civile nel quale avrebbe potuto dimostrare l’illegittimità della pretesa creditoria”. pur chiarito, infatti, che l’esercizio di un diritto o la minaccia di esercitarlo “non presentano, di per sé, i caratteri della minaccia necessaria per l’astratta configurabilità del delitto di estorsione” i giudici di legittimità hanno ricordato, però, che laddove sono finalizzati ad ottenere un “vantaggio ulteriore e diverso da quello spettante, il pregiudizio che, attraverso l’iniziativa giudiziaria formalmente legittima, si prospetta al soggetto passivo non si pone in un rapporto di funzionalità rispetto al soddisfacimento del proprio legittimo interesse ma mira ad ottenere una pretesa ulteriore ed estranea al rapporto sottostante. Quest’ultima, poiché non trova alcuna giuridica giustificazione in quello specifico rapporto, deve considerarsi illegittimamente perseguita attraverso quel particolare strumento giudiziale utilizzato o che si minaccia di utilizzare”

L’instaurazione di un’azione esecutiva o la prospettazione di convenire in giudizio il soggetto passivo, pertanto, costituiscono una minaccia ingiusta “(…) e, dunque, una illegittima intimidazione idonea ad integrare il delitto di estorsione alle due seguenti condizioni: a) la minaccia dev’essere finalizzata al conseguimento di un profitto al quale non si abbia diritto; b) l’agente dev’essere consapevole dell’illegittimità o della pretestuosità della propria condotta, anche se l’illegittima pretesa venga fatta valere in modo apparentemente legale” (9).

Impossibilità di imputare il male ingiusto alla vittima che non abbia ritenuto di far valere le proprie ragioni dinanzi al giudice civile

Di particolare importanza, poi, quanto ulteriormente chiarito in merito all’impossibilità di imputare il male ingiusto alla vittima che non abbia ritenuto di far valere le proprie ragioni dinanzi al giudice civile. È stato ricordato, infatti, dai medesimi giudici di legittimità con la pronuncia sopra menzionata (10), che una tale tesi, allo stesso modo della pretesa giustificazione secondo cui la prospettazione di un’azione giudiziaria o il suo esercizio non potrebbero considerarsi un male ingiusto, presupporrebbe “che il processo sia la sede in cui le ragioni della parte trovino necessariamente una tutela, sicché la persona offesa non avrebbe nulla da temere dal contradditorio processuale”.

Tale concezione, tuttavia, è stato ricordato dalla Suprema Corte“confligge con le concrete dinamiche processuali che possono rendere qualsiasi vicenda giudiziaria aleatoria – secondo il vecchio brocardo habent sua sidera lites – oltre al fatto, di comune esperienza, che il processo, di per sé, come intuì un grande giurista, costituisce una pena (e, quindi, un danno) sia in termini economici che di stress emotivo. (11) (…) Deve, pertanto, ritenersi che l’ingiustificato coinvolgimento in un’azione legale, già avviata o anche solo prospettata, costituisce – per chiunque sia consapevole dell’ingiustizia della pretesa – una minaccia” (12).

Tali principi appaiono particolarmente importanti anche se si considera che non sono pochi i casi di decreti ingiuntivi ottenuti inaudita altera parte e avverso i quali non è stata proposta opposizione (vd. Cap. IV) con il conseguente giudicato e definitività del provvedimento monitorio. Fermo restando, in tali casi, il cosiddetto “giudicato formale” è evidente che, laddove oggetto della pretesa sia il soddisfacimento di un credito infondato o superiore a quello lecito, l’azione giudiziaria è pur sempre esercitata al fine di ottenere un profitto contra ius senza che, per escludere la sussistenza del delitto di estorsione, possa ritenersi valida, come riconosciuto dalla giurisprudenza sopra menzionata, la giustificazione secondo cui la persona offesa avrebbe potuto proporre opposizione nei 40 giorni e, nel relativo giudizio, far valere l’infondatezza del credito ingiunto.

È stato precisato, infatti, ancora, dalla Corte di Cassazione che “d’altra parte, è fuorviante ritenere che la vittima della illegittima richiesta di pagamento abbia l’onere di coltivare un’azione giudiziaria o di opporsi ad essa o ad un’azione esecutiva, al fine di far accertare l’illegittimità e la pretestuosità dell’iniziativa avversaria: così ragionando – e cioè imputando alla volontà della persona offesa l’eventuale verificarsi del male ingiusto dalla stessa patito – si compirebbe un’indebita inversione di prospettiva, essendo essa vittima di intimidazione e di coartazione della volontà, e non già la ‘causa dei propri mali’” (13).

Va considerato, poi, quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai sensi dell’art. 5 del cod. pen. e della sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988, l’agente non potrà utilmente invocare l’ignoranza della legge penale quando, svolgendo una determinata attività professionale (e, a maggior ragione nel caso di un responsabile di una società finanziaria o di un istituto di credito) non si informi sulla normativa che disciplina quella determinata attività e che può essere agevolmente acquisita alla conoscenza del soggetto (14) (15). Il delitto di estorsione si consuma nel momento in cui l’autore del reato consegue l’ingiusto profitto con altrui danno anche se non è necessario che l’agente consegua i vantaggi sperati essendo sufficiente il miglioramento della sua situazione patrimoniale (16). Si ha tentativo nel caso in cui, alla violenza o minaccia, non segua l’evento desiderato dall’agente, e, cioè, manchi il profitto e il danno. Si precisa, poi, che la sussistenza, nella condotta posta in essere, dell’elemento della minaccia di azioni legali o giudiziarie, in aggiunta alla richiesta del pagamento di una somma non dovuta (della cui infondatezza o illiceità l’agente sia consapevole o, comunque, posto a conoscenza), vale a distinguere, in tal caso, il più grave reato di estorsione da quello di truffa, previsto dall’art. 640 cod. pen., che potrebbe configurarsi se l’agente si sia limitato a richiedere il pagamento non dovuto (17). In merito all’elemento soggettivo del reato di estorsione, la dottrina non è uniforme essendovi un contrasto tra alcuni autori (18) che ritengono sufficiente l’esistenza del dolo generico ed altri (19) che, invece, ravvisano la necessarietà, per la sussistenza del reato in esame, del dolo specifico.

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