Consulta e misure di prevenzione: nessun vulnus sull’art. 37 c.p.p.

La Corte costituzionale dichiara infondate le censure sull’art. 37 c.p.p. in tema di ricusazione nel procedimento di prevenzione patrimoniale.

Scarica PDF Stampa Allegati

La Corte costituzionale dichiara infondate le censure sull’art. 37 c.p.p. in tema di ricusazione nel procedimento di prevenzione patrimoniale. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025“, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon, e il Codice Penale e norme complementari 2026 – Aggiornato a Legge AI e Conversione dei decreti giustizia e terra dei fuochi, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.

Corte costituzionale – sentenza n. 182 del 23-09-2025

sentenza-commentata-art.-4-2025-12-05T165507.901.pdf 325 KB

Iscriviti alla newsletter per poter scaricare gli allegati

Grazie per esserti iscritto alla newsletter. Ora puoi scaricare il tuo contenuto.

Indice

1. Il fatto: il caso fiorentino sulle misure di prevenzione patrimoniali


Il Tribunale di Firenze, chiamato a decidere su una richiesta di sequestro di beni del proposto depositata nell’ambito di un procedimento di prevenzione, oltre a disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, ritenendo che le indagini non fossero complete e indicando gli ulteriori accertamenti patrimoniali necessari, a seguito del deposito da parte del pubblico ministero dell’integrazione istruttoria sollecitata, inoltre: 1) disponeva, in via cautelare, il sequestro di prevenzione dei beni nella disponibilità, diretta o indiretta, del proposto; 2) fissava l’udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali; 3) rigettava due dichiarazioni di astensione; 4) prendeva atto di come la Corte di Appello di Firenze, con il provvedimento oggetto del ricorso per Cassazione introduttivo del giudizio in cui era chiamata a decidere, avesse rigettato un’istanza di ricusazione dei componenti del collegio del Tribunale presentata dal proposto. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025“, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon, e il Codice Penale e norme complementari 2026 – Aggiornato a Legge AI e Conversione dei decreti giustizia e terra dei fuochi, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.

2. La questione di legittimità: ricusazione e imparzialità nel sequestro di prevenzione


Il Tribunale di Firenze, in relazione alla vicenda giudiziaria suesposta, sollevava d’ufficio, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, in relazione all’art. 36, comma 1, lettera g), del medesimo codice, nella parte in cui non prevede che le parti possano ricusare il giudice che, chiamato a decidere sull’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, abbia disposto nel medesimo procedimento, ai sensi dell’art. 20, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), la restituzione degli atti all’autorità proponente.
In particolare, in punto di rilevanza della questione, si osservava come la norma censurata dovesse essere applicata nel giudizio principale e che l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della stessa avrebbe consentito di accogliere il ricorso introduttivo del giudizio principale, ritenendosi oltre tutto come non sarebbe stata percorribile un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 37 cod. proc. pen., essendo i motivi di ricusazione del giudice tassativi e non estensibili in via analogica.
Ciò posto, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente stimava come la norma di cui all’art. 37, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. contrastasse con gli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 CEDU e 47 CDFUE.
Nel dettaglio, si faceva preliminarmente presente, al riguardo, che la restituzione degli atti, prevista dall’art. 20, comma 2, cod. antimafia, può implicare, come sarebbe accaduto nella fattispecie in discussione in tale giudizio, penetranti valutazioni di merito in relazione alla pericolosità del proposto e alla sproporzione delle risultanze reddituali e patrimoniali, ampiamente anticipatorie degli apprezzamenti che avrebbero dovuto essere espressi nella decisione sulla proposta di confisca (e preliminare sequestro) di prevenzione, che determinerebbero l’incompatibilità dei giudici a decidere in ordine al provvedimento ablatorio e ne legittimerebbero la ricusazione.
Premesso ciò, si notava per di più che, mentre la disciplina vigente non prevede espressamente cause di ricusazione nel procedimento di prevenzione, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto ivi applicabili le norme in tema di incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice dettate dagli artt. 34, comma 1, 35, 36, comma 1, lettere a), b), c), d), f) e h), e 37, comma 2, cod. proc. pen. (era richiamata all’uopo: Corte di Cassazione, Prima sezione penale, sentenza 27 maggio-12 ottobre 2016, n. 43081), cioè quelle concernenti tutte le ipotesi di «appannamento» dell’apparenza di imparzialità dovuto a ragioni extragiudiziarie o, comunque, esterne al procedimento, evidenziandosi al contempo come il contrasto, registratosi nella giurisprudenza di legittimità in relazione alla possibilità di ricusare il giudice chiamato ad applicare le misure di prevenzione per effetto delle valutazioni in precedenza espresse nei confronti di un medesimo soggetto in sede di cognizione penale o in un altro procedimento di prevenzione, sia stato invece risolto dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione, affermandosi il principio secondo cui è applicabile al procedimento di prevenzione il motivo di ricusazione contemplato dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. – come risultante a seguito dell’intervento additivo compiuto dalla Consulta con la sentenza n. 283 del 2000 – nel caso in cui il giudice, in precedenza, abbia espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti dello stesso soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale (Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 24 febbraio-6 luglio 2022, n. 25951), essendo stato in tal senso evidenziato da parte del rimettente come la sentenza n. 238 (recte: 283) del 2000 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto», abbia avuto una valenza “bidirezionale”, nel senso che in ordine al procedimento di prevenzione considera pregiudicanti non soltanto le valutazioni espresse nel processo di prevenzione sulla successiva decisione di merito, ma anche le valutazioni espresse nel giudizio di merito o in altro procedimento di prevenzione.
Pur tuttavia, a fronte di tale quadro ermeneutico, sempre ad avviso del giudice a quo, il principio, affermato dalla citata sentenza delle Sezioni unite penali n. 25951 del 2022, non sarebbe stato applicabile alla fattispecie al suo esame, in quanto riguardante ipotesi nelle quali la valutazione pregiudicante era stata espressa in un procedimento distinto da quello pregiudicato mentre, nel caso di specie, essa, conseguendo alla restituzione degli atti all’ufficio proponente, era intervenuta nel medesimo procedimento di prevenzione, a nulla rilevando il dato formale dell’iscrizione di un nuovo procedimento.
Tanto premesso, il giudice a quo osservava quindi che il pregiudizio per l’imparzialità-neutralità del giudice può essere determinato anche dalle valutazioni espresse nel provvedimento di restituzione degli atti all’ufficio proponente, disposto ai sensi dell’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, posto che si può formulare una valutazione positiva sul merito della proposta (non solo sulla pericolosità del proposto, ma anche sulla sproporzione delle risultanze patrimoniali o reddituali), che «solo per minimali carenze istruttorie, segnalate dal tribunale all’organo proponente» non conduce all’accoglimento della proposta di sequestro, considerandosi che l’apprezzamento di merito compiuto dal Tribunale nel restituire gli atti può essere così incisivo da risolversi in una sorta di provvedimento di accoglimento condizionato all’integrazione delle lacune probatorie o, comunque, in un’anticipazione del futuro accoglimento, una volta emendate le carenze riscontrate, richiamandosi a tal proposito la sentenza n. 24 del 2019 della Consulta, ove si è affermata l’esistenza di un vero e proprio «statuto di garanzia (costituzionale e convenzionale) delle misure di prevenzione, personali (…) e patrimoniali», che, pur non avendo carattere sanzionatorio o repressivo, incidono nei diritti di libertà di movimento, di proprietà e di iniziativa economica, e che, dunque, richiedono un procedimento rispettoso dei canoni generali del “giusto processo” garantito dalla legge (artt. 111, commi primo, secondo e sesto, Cost., e 6 CEDU, nel suo “volet civil”), e la sentenza n. 179 del 2024, ove si è affermato che il principio del giudice terzo e imparziale ha assunto autonoma rilevanza con la legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei princìpi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione).
La mancata previsione di una causa di ricusazione del giudice che abbia disposto la restituzione degli atti lederebbe dunque, ad avviso del Tribunale fiorentino, in ragione degli apprezzamenti di merito espressi, il diritto fondamentale del proposto a un giudice imparziale – esplicitamente riconosciuto anche dagli artt. 47 CDFUE, 6 CEDU e 14, paragrafo 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) adottato dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 –, vulnerando al contempo il suo diritto di difesa, in quanto non gli consentirebbe di «attivare i rimedi oppositivi volti a garantire la terzietà del giudice», tenuto conto altresì del fatto che si reputava tra l’altro non rilevante il principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, che non si configura alcuna incompatibilità a decidere il merito in capo all’unico giudice funzionalmente designato per il grado che abbia provveduto in via cautelare nella stessa fase (si richiama la sentenza n. 93 del 2024 della Corte costituzionale) in quanto la giurisprudenza costituzionale distingue, a tal fine, «i provvedimenti cautelari adottati dal giudice nel processo di merito, che hanno valenza meramente endofasica, dai provvedimenti del giudice di restituzione degli atti al pubblico ministero» dato che questi ultimi assumerebbero un’efficacia pregiudicante, in quanto la trasmissione degli atti al pubblico ministero determina la regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari (venivano richiamate all’uopo le sentenze della Consulta n. 16 del 2022, n. 400 del 2008 e n. 455 del 1994).
Ciò posto, sosteneva il rimettente, la restituzione degli atti disposta ai sensi dell’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, nel contesto del medesimo procedimento di prevenzione, definisce la fase di deliberazione del tribunale e determina la riespansione della fase delle indagini, con conseguente restituzione all’ufficio proponente dell’integralità delle sue attribuzioni e prerogative (compreso il potere di archiviare il procedimento di prevenzione), nel senso che il deposito della nuova proposta di applicazione della misura di prevenzione aprirebbe una nuova fase del medesimo giudizio di primo grado, distinta dalla precedente, nella quale «la valutazione “contenutistica” espressa nel provvedimento di rigetto della prima proposta esplica la propria efficacia pregiudicante».
Del resto, sempre per il giudice a quo, il potere di restituzione degli atti all’organo proponente ai sensi del più volte citato art. 20, comma 2, sarebbe soltanto apparentemente analogo al potere accordato dall’art. 421-bis, comma 1, cod. proc. pen. al giudice dell’udienza preliminare di indicare ulteriori indagini al pubblico ministero ove le precedenti fossero incomplete, in quanto, in tal caso, il processo penale rimane pendente nella fase dell’udienza preliminare mentre avrebbe, invece, effetti analoghi a quelli determinati dalla previsione delle “indagini coatte”, disposte ai sensi dell’art. 409, comma 4, cod. proc. pen., dal giudice per le indagini preliminari investito della richiesta di archiviazione, che non può trattenere gli atti presso il proprio ufficio, ma deve restituirli al pubblico ministero, il quale, all’esito dei nuovi accertamenti, può decidere se esercitare l’azione penale o richiedere nuovamente l’archiviazione.
Ebbene, sulla base di tali coordinate ermeneutiche, il giudice rimettente sosteneva che la restituzione degli atti disposta dal Tribunale, chiamato ad applicare il sequestro e la confisca di prevenzione, assumesse efficacia pregiudicante ai sensi dell’art. 34 cod. proc. pen. per le seguenti ragioni.
In primo luogo, si notava che le valutazioni espresse nel provvedimento di restituzione degli atti concernono la medesima res iudicanda oggetto della successiva proposta.
In secondo luogo, si evidenziava che il giudice che restituisce gli atti non solo conosce, ma valuta anche, gli elementi probatori e, dunque, decide nel merito della misura di prevenzione, sostanzialmente esprimendosi sulla fondatezza della relativa proposta.
In terzo luogo, infine, si osservava che il provvedimento di restituzione degli atti, determinando la regressione del procedimento di prevenzione alla fase iniziale, reintegra l’organo proponente nelle sue attribuzioni.

Potrebbero interessarti anche:

3. La decisione della Consulta: perché l’art. 37 c.p.p. resta intatto


La Corte costituzionale – dopo avere ripercorso le argomentazioni sostenute dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione – riteneva come la questione di legittimità costituzionale concernente l’asserita violazione dell’art. 47 CDFUE fosse inammissibile in quanto il giudice rimettente non indicava perché, e in che termini, la fattispecie sarebbe disciplinata dal diritto eurounitario posto che
l’art. 51, paragrafo 1, CDFUE stabilisce che le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione».
Orbene, alla luce di quanto stabilito in tale precetto normativo, la Consulta ne fa conseguire, a sostegno della declaratoria di inammissibilità le seguenti conseguenze: “Da un lato, «la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea può essere invocata, quale parametro interposto in un giudizio di legittimità costituzionale soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata anche dal diritto europeo (ex plurimis, sentenze n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021, n. 278 e n. 254 del 2020 e n. 194 del 2018)» (sentenza n. 213 del 2021). Da un altro, è onere del rimettente illustrare per quali ragioni la disciplina censurata ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, sicché l’eventuale carenza di motivazione impedisce di invocare i diritti riconosciuti dalla CDFUE «quali parametri interposti nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (ex multis, sentenze n. 213, n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021)» (sentenza n. 28 del 2022, nonché, nello stesso senso, più di recente, sentenze n. 5 del 2023 e n. 34 del 2022); «[i]l che naturalmente non esclude la possibilità che i diritti della Carta possano essere utilizzati come strumenti interpretativi nella lettura delle stesse disposizioni costituzionali corrispondenti (come, ad esempio, nelle sentenze n. 33 del 2021, n. 102 del 2020, n. 272 del 2017 e n. 236 del 2016)» (ancora, sentenza n. 28 del 2022)”.
Ciò posto, i giudici di legittimità costituzionale consideravano invece le questioni di legittimità costituzionale concernenti l’asserita violazione degli ulteriori parametri invocati dal rimettente, sebbene ammissibili, comunque infondate.
Nel dettaglio, il Giudice delle leggi – dopo avere fatto presente che la giurisprudenza costituzionale è ferma nel rilevare l’importanza della garanzia della terzietà e imparzialità del giudice, presidio non solo della funzionalità della giurisdizione, ma anche del diritto di difesa dei cittadini, essendo stato al riguardo sovente ribadito dalla medesima Consulta che «la disciplina sull’incompatibilità del giudice trova la sua ratio nella salvaguardia dei valori della terzietà e imparzialità del giudice – presidiati dagli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, in riferimento ai quali le questioni di legittimità costituzionale sono ammissibili –, mirando a escludere che questi possa pronunciarsi condizionato dalla “forza della prevenzione”, cioè dalla tendenza a confermare una decisione o a mantenere un atteggiamento già assunto, derivante da valutazioni che sia stato precedentemente chiamato a svolgere in ordine alla medesima res iudicanda, essendo necessario “che le funzioni del giudicare siano assegnate a un soggetto ‘terzo’, scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto e anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia su cui pronunciarsi” (sentenza n. 172 del 2023; nello stesso senso, sentenze n. 64, n. 16 e n. 7 del 2022 e precedenti ivi citati)» (da ultimo, sentenza n. 93 del 2024) – evidenziava al contempo come tali princìpi siano stati affermati anche con riferimento al procedimento di prevenzione personale, chiarendosi oltre tutto che “sia pure con alcune precisazioni legate alle sue peculiarità, rilevando che «[n]ell’ambito del principio del giusto processo di cui questa Corte, in numerose occasioni, ha definito i profili sulla base delle disposizioni costituzionali che attengono alla disciplina della giurisdizione, posto centrale occupa l’imparzialità-neutralità del giudice, in carenza della quale tutte le altre regole e garanzie processuali perderebbero di concreto significato”, oltre a rammentarsi che tale “principio in tutti i suoi aspetti, tra cui per l’appunto l’imparzialità del giudice, indubitabilmente vale anche in relazione al procedimento giurisdizionale di applicazione delle misure di prevenzione personali che incidono su diritti di libertà costituzionalmente garantiti per mezzo di una “riserva di giurisdizione””, considerato oltre tutto che, in “questi casi, la garanzia rappresentata da tale riserva non può essere menomata attraverso l’affievolimento dei caratteri che la giurisdizione qualificano come tale […] l’esigenza di preservare il giudice chiamato a pronunciarsi sulla proposta di applicazione delle misure di prevenzione da ogni pre-giudizio che possa comprometterne l’imparzialità si pone nella stessa misura in cui essa è stata affermata in relazione al giudice che è chiamato a pronunciarsi nel processo penale» (sentenza n. 306 del 1997)”.
Precisato ciò, si sottolineava per di più – una volta notato che l’istituto che direttamente assicura la terzietà e l’imparzialità del giudice nel corso del giudizio è l’incompatibilità (artt. 34 e 35 cod. proc. pen.), cui si riconnettono il dovere di astensione del giudice medesimo (art. 36 cod. proc. pen.) e il diritto delle parti di chiederne la ricusazione (art. 37 cod. proc. pen.) – che, sebbene la giurisprudenza costituzionale, numerosissime volte pronunciatasi sulla disciplina dell’incompatibilità di cui all’art. 34 cod. proc. pen., abbia fornito, in particolare con le sentenze n. 306, n. 307 e n. 308 del 1997, depositate lo stesso giorno (dunque non a caso oggetto di congiunta considerazione in dottrina), un quadro interpretativo dei rapporti tra gli istituti dell’incompatibilità, da un lato, e dell’astensione e ricusazione, dall’altro, tutti posti a salvaguardia dell’imparzialità del giudice, nel senso che l’incompatibilità endoprocessuale (cosiddetta orizzontale), di cui all’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., presuppone l’identità del procedimento e opera in astratto; le cause di astensione e ricusazione operano invece in concreto e riguardano situazioni al di fuori del giudizio in cui si è chiamati a decidere, siano esse attività non giudiziarie o attività giudiziarie svolte in altro giudizio (sentenza n. 306 del 1997, punto 2.2. del Considerato in diritto), posto che il rigore del regime delle incompatibilità non può tuttavia determinare un malfunzionamento della giurisdizione, sicché le relative norme vanno applicate solo quando sussista una reale ed effettiva esigenza di prevenzione della deviazione dell’amministrazione della giustizia dal tracciato della terzietà e dell’imparzialità, è per questa ragione che l’incompatibilità (in una con i connessi istituti della doverosa astensione e della ricusazione) non trova applicazione quando le precedenti valutazioni astrattamente “pregiudicanti” si collochino nella medesima fase del procedimento (ex plurimis, sentenze n. 209, n. 179 e n. 93 del 2024, n. 172 e n. 91 del 2023, n. 64 del 2022).
Di conseguenza, pur prendendosi atto che l’istituto dell’incompatibilità ha la funzione di evitare il rischio che sul convincimento del giudice gravi un pre-giudizio, che invero può verificarsi anche nell’ipotesi dell’adozione di atti che l’ordinamento considera, appunto, pre-giudicanti, nel senso che il solo fatto dell’adozione stessa è valutato quale indice qualificato del difetto di un effettivo libero convincimento quanto all’adozione di atti successivi, nondimeno, per la Corte di legittimità, è comunque evidente che, in qualunque processo decisionale, in quanto attività intellettuale dinamica, e non statica, il titolare dell’organo competente matura in itinere il proprio convincimento, che può dunque ben dirsi “a formazione progressiva”, dal momento che, se di questo dato di comune esperienza non si tenesse conto, si potrebbe giungere ad applicare gli istituti dell’incompatibilità, dell’astensione e della ricusazione per il sol fatto che il convincimento del giudice si formi progressivamente, il che comporterebbe l’assoluta impossibilità di funzionamento della giurisdizione. Dunque, proprio alla luce di quanto sin qui esposto, proseguiva la Consulta nel suo ragionamento decisorio, è per questo motivo che la giurisprudenza costituzionale è ferma nell’escludere che l’incompatibilità valga quando il giudice ha adottato più atti all’interno della medesima fase processuale, esattamente perché questa costituisce una frazione dell’iter decisorio nella quale il fenomeno della formazione progressiva del convincimento del giudicante si compie con peculiare concentrazione, facendosene conseguire da ciò come, nel nostro ordinamento, il diritto processuale debba sì assicurare il massimo rispetto dei princìpi di terzietà e imparzialità del giudice, ma è pur sempre tenuto a farlo in osservanza, sia delle esigenze di funzionalità della giurisdizione, sia della logica stessa di tali princìpi, applicati entro itinera processuali nei quali il convincimento del giudice, di necessità, si forma progressivamente, il che spiega il perché la terzietà e l’imparzialità sono compromesse quando è chiamato a novellamente pronunciarsi un giudice che abbia già manifestato in altra occasione un già sufficientemente strutturato convincimento sul merito dei medesimi fatti, e ciò proprio in ragione del fatto che proprio il verificarsi di una simile evenienza rappresenta un qualcosa che la Costituzione intende impedire.
D’altronde, proprio in ossequio a tali esigenze, logiche e sistematiche, la Consulta osservava come la giurisprudenza costituzionale abbia chiarito come «un’incompatibilità costituzionalmente necessaria, in forza dei princìpi menzionati, sussiste a) allorché il medesimo giudice abbia già svolto, in relazione alla medesima res iudicanda, un’“attività pregiudicante”, e b) sia nuovamente chiamato a svolgere un compito decisorio in una “sede pregiudicata” dalla propria precedente attività fermo restando che, quanto anzitutto all’“attività pregiudicante”, secondo la citata giurisprudenza, essa sussiste in presenza di quattro condizioni essenziali».
In particolare, secondo quanto prospettato nella sentenza n. 209 del 2024, le valutazioni devono cadere prima sulla medesima res iudicanda mentre, in secondo luogo, il giudice deve essere stato chiamato a effettuare una valutazione di atti anteriormente compiuti, in maniera strumentale all’assunzione di una decisione (e non semplicemente aver avuto conoscenza di essi) fermo restando che, in un terzo momento, tale valutazione deve attenere al merito dell’ipotesi accusatoria (e non già al mero svolgimento del processo), per poi, infine, collocare le precedenti valutazioni in una diversa fase del procedimento.
Ciò posto, si notava inoltre che, quanto alla ricusazione, che rilevava nel caso di specie essendo stato espressamente preso in considerazione nell’ordinanza di rimessione, si rammentava come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 283 del 2000, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. nella parte in cui non riconosce alle parti la facoltà di ricusare il giudice che in un diverso procedimento, anche non penale, abbia espresso una valutazione di merito sul medesimo fatto e nei confronti del medesimo soggetto, evidenziandosi al contempo come la pronuncia assumi particolare rilievo ai fini del presente giudizio, in quanto riguarda proprio il rapporto pregiudicante tra processo penale e procedimento di prevenzione, essendo stato così statuito: «questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il pregiudizio per l’imparzialità-neutralità del giudicante può verificarsi anche nei rapporti tra il procedimento penale e quello di prevenzione, sia quando la valutazione pregiudicante sia stata espressa nel primo in sede di accertamento dei gravi indizi di colpevolezza, quale condizione di applicabilità delle misure cautelari (sentenza n. 306 del 1997), sia quando il rapporto di successione temporale tra attività pregiudicante e funzione pregiudicata sia invertito, per avere il giudice, chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità penale di un imputato del delitto di associazione di stampo mafioso, già espresso nell’ambito del procedimento di prevenzione una valutazione sull’esistenza dell’associazione e sull’appartenenza ad essa della persona imputata nel successivo processo penale (ordinanza n. 178 del 1999)».
Al riguardo, si rimarcava oltre tutto il fatto che il contrasto interpretativo, registratosi nella giurisprudenza di legittimità in merito all’applicabilità delle cause di incompatibilità e di ricusazione nel procedimento di prevenzione, sia stato risolto dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione con la sentenza n. 25951 del 2022, ove si è affermato il principio che è applicabile al procedimento di prevenzione il motivo di ricusazione previsto dall’art. 37, comma 1, cod. proc. pen. – come risultante a seguito dell’intervento additivo effettuato da questa Corte con la citata sentenza n. 283 del 2000 – nel caso in cui il giudice abbia, appunto, espresso valutazioni di merito sul medesimo fatto nei confronti del medesimo soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale.
Delineati il quadro normativo e quello ermeneutico di riferimento in questi termini, i giudici di legittimità costituzionale, dopo avere illustrato una seconda volta i passi salienti che connotavano l’ordinanza di rimessione suesposta sotto il profilo argomentativo, ritenevano come codesto quadro fosse tale da orientare nel senso che sia da escludere una compromissione dell’imparzialità del giudice della prevenzione il quale abbia disposto la restituzione degli atti all’autorità proponente, valendo ciò, sia per il profilo della sussistenza di una causa di incompatibilità, sia per il profilo della sussistenza di una causa di ricusazione, ancorché si reputasse comunque necessario precisare che, nel caso all’esame della Consulta, la questione sia stata sollevata con riferimento all’art. 37 cod. proc. pen., benché la situazione individuata come pregiudicante sussistesse nel medesimo procedimento di prevenzione.
Pur tuttavia, per il Giudice delle leggi, l’identità del procedimento, per quanto già rilevato, necessariamente orientava il sindacato di legittimità costituzionale, in via prioritaria e assorbente, nei confronti della disciplina dell’incompatibilità.
Pertanto, per la Corte, la problematica agitata dal rimettente si incentrava sull’istituto dell’incompatibilità.
Precisato ciò, quanto al profilo, (stimato) prioritario e assorbente, della eventuale rilevanza di un’ipotesi di incompatibilità, era preliminarmente osservato che, sia per il modello normativo del procedimento di prevenzione, sia quello del procedimento camerale partecipato previsto, in via generale, dall’art. 666 cod. proc. pen. (inserito nel Libro X, che disciplina la fase dell’esecuzione), deponeva in tal senso l’art. 7, comma 9, del d.lgs. n. 159 del 2011, ove testualmente si dispone che: «[p]er quanto non espressamente previsto dal presente decreto, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni contenute nell’articolo 666 del codice di procedura penale».
A tale considerazione di carattere generale, inoltre, la Consulta ne aggiungeva un’altra, consistente nel fatto che il procedimento di prevenzione non è scandito da distinte fasi “processuali”, come accade invece nel procedimento penale (indagini preliminari, udienza preliminare, giudizio dibattimentale, riti alternativi, eccetera), e che esso diventa vero e proprio giudizio di prevenzione nel momento in cui si attua il contraddittorio, dopo l’adozione della misura cautelare del sequestro (o di altra misura, non ablatoria) e la fissazione della trattazione in camera di consiglio per la decisione sulla confisca.
Di conseguenza, pur dovendosi auspicare un intervento del legislatore idoneo a strutturare con più accurata precisione il procedimento di prevenzione, soprattutto nella dimensione cautelare, che tanto rilievo ha assunto nella prassi, si rilevava come ch’esso abbia una fisionomia evidentemente monofasica, non venendo in rilievo le scansioni tendenzialmente impermeabili che, anche in quanto è ispirato al modello accusatorio, connotano il processo penale di cognizione, facendosene conseguire da ciò che anche la restituzione degli atti all’autorità proponente non determina una regressione di fase, ma identifica una mera sottofase all’interno di un procedimento che resta unitario.
Ebbene, in relazione a quanto appena esposto, la Consulta sottolineava come la giurisprudenza costituzionale, in coerenza con le già segnalate esigenze di funzionalità della giurisdizione, abbia sovente ribadito che «[a]ll’interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva – va, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (sentenza n. 64 del 2022 e precedenti ivi citati)» (sentenza n. 93 del 2024; ex plurimis, anche sentenze n. 7 del 2022, n. 66 del 2019, n. 18 del 2017, n. 153 del 2012, n. 177 e n. 131 del 1996; ordinanze n. 76 del 2007, n. 123 e n. 90 del 2004, n. 370 del 2000 e n. 232 del 1999).
Tal che se ne faceva discendere che la situazione procedimentale, che si determina con la restituzione degli atti all’autorità proponente, appare maggiormente assimilabile all’ipotesi in cui, nel corso della fase dibattimentale, una misura cautelare sia richiesta al giudice che procede e sia rigettata per ritenuta carenza dei gravi indizi di colpevolezza, nel senso che, pur proseguendo il processo per l’accertamento nel merito della responsabilità dell’imputato, il giudice, nei limiti della competenza accessoria sulla decisione delle misure cautelari (art. 279 cod. proc. pen.), rigetta la richiesta di misura e restituisce gli atti del procedimento cautelare incidentale senza svolgere alcuna “attività pregiudicante” che rilevi ai fini della compromissione dell’imparzialità, vale a dire: senza diventare incompatibile.
Del resto, sempre per la Corte, non appariva essere nemmeno altrettanto assimilabile l’ipotesi, richiamata dall’ordinanza di rimessione, del provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari investito della richiesta di archiviazione dispone «ulteriori indagini» ai sensi dell’art. 409, comma 4, cod. proc. pen. dato che tale richiesta di integrazione istruttoria si colloca nell’ambito del controllo sull’inazione del pubblico ministero in una fase di spiccata fluidità dell’ipotesi accusatoria mentre, nel caso all’esame, il controllo “probatorio” ha per oggetto l’esercizio dell’azione di prevenzione.
Al contrario, per il Giudice delle leggi, maggiormente affine a quella in esame appariva essere l’ipotesi disciplinata dall’art. 421-bis, comma 1, cod. proc. pen., che conferisce al giudice dell’udienza preliminare il potere di indicare ulteriori indagini al pubblico ministero quando ritenga incomplete quelle già effettuate dal momento che, benché l’ordinanza di rimessione consideri solo apparente l’analogia, in quanto il processo penale resta pur sempre pendente nella fase dell’udienza preliminare, si osservava come la restituzione degli atti sia qui impedita dal principio di irretrattabilità dell’azione penale, sicché il giudice dell’udienza preliminare avrebbe, quale unica alternativa all’indicazione di «ulteriori indagini», quella di emettere una sentenza di non luogo a procedere.
Invero, proprio come nel caso del giudice della prevenzione, il quale, in assenza della norma che ora consente di disporre la restituzione degli atti per le ulteriori indagini, dovrebbe rigettare la richiesta di sequestro e, successivamente, di confisca, per il Giudice delle leggi, l’analogia si coglie proprio in ciò che in entrambi i casi il giudice “valuta” la sufficienza della piattaforma probatoria dopo l’inizio dell’azione penale (nel caso dell’udienza preliminare) o di prevenzione (nel caso della decisione di restituzione degli atti da parte del tribunale), ferma restando la non replicabilità, nel procedimento di prevenzione, delle scansioni di fase che connotano esclusivamente la struttura del processo penale.
Per di più, per la Consulta, oltre alla dimensione monofasica del procedimento di prevenzione, rileva ai fini del presente giudizio anche il fatto che, sulla premessa che i princìpi del giusto processo applicabili nel procedimento di prevenzione sono quelli affermati dai primi due commi dell’art. 111 Cost., la giurisprudenza costituzionale ha modulato il riconoscimento delle garanzie anche in relazione alla diversità del modello procedimentale rispetto al prototipo del giudizio penale, essendo stato osservato, per esempio, che «[i]l rispetto del principio del contraddittorio […] “non impone che esso si esplichi con le medesime modalità in ogni tipo di procedimento e neppure sempre e necessariamente nella fase iniziale dello stesso, onde non sono in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost. i modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito» (così, testualmente, la sentenza n. 172 del 2023; tra le molte, sentenza n. 115 del 2001 e ordinanze n. 255 del 2009, n. 291 del 2005, n. 352, n. 172 e n. 8 del 2003; più recentemente, sentenza n. 91 del 2023; analogamente, con riferimento al diritto di difesa, sentenza n. 106 del 2015).
Del resto, anche la giurisprudenza costituzionale, che si è pronunciata sulle misure di prevenzione, ha costantemente evidenziato le peculiarità del procedimento di prevenzione rispetto al processo penale di cognizione.
Con la sentenza n. 106 del 2015, in particolare, si è rilevato che «Il procedimento di prevenzione e il procedimento penale, nella cui cornice viene applicata la confisca dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, sono dotati di proprie peculiarità, sia per l’aspetto processuale, sia per quello dei presupposti sostanziali […], così come nell’ordinanza n. 275 del 1996, si è già avuto occasione di sottolineare “le profonde differenze, di procedimento e di sostanza, tra le due sedi, penale e di prevenzione: la prima ricollegata a un determinato fatto-reato oggetto di verifica nel processo, a seguito dell’esercizio dell’azione penale; la seconda riferita a una complessiva notazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato” […]. Il sistema delle misure di prevenzione ha dunque una sua autonomia e una sua coerenza interna, mirando ad accertare una fattispecie di pericolosità, che ha rilievo sia per le misure di prevenzione personali, sia per la confisca di prevenzione».
Anche la sentenza n. 24 del 2019, d’altronde, nel delineare uno statuto di garanzie, sostanziali e processuali, delle misure di prevenzione, ha sottolineato «la necessità che la sua applicazione sia disposta in esito a un procedimento che – pur non dovendo necessariamente conformarsi ai princìpi che la Costituzione e il diritto convenzionale dettano specificamente per il processo penale – deve tuttavia rispettare i canoni generali di ogni “giusto” processo garantito dalla legge (artt. 111, primo, secondo e sesto comma, Cost., e 6 CEDU, nel suo “volet civil”), assicurando in particolare la piena tutela al diritto di difesa (art. 24 Cost.) di colui nei cui confronti la misura sia richiesta».
Tanto precisato, era tuttavia indispensabile segnalare per la Corte costituzionale, a questo punto della disamina, che gli indicati profili di peculiarità del procedimento di prevenzione non sono, comunque, idonei a fondare un ridimensionamento del principio dell’imparzialità, considerando che l’art. 111, secondo comma, Cost. delinea i caratteri di qualsiasi «giusto processo», e quindi anche di quello di prevenzione; in altri termini: l’esigenza di imparzialità del giudice della prevenzione è assistita dai princìpi costituzionali che impongono l’assenza di attività pregiudicanti pur a fronte della peculiarità di tale procedimento.
Sono dunque, per la Corte di legittimità, l’identità di fase nella quale viene disposta la restituzione degli atti all’autorità proponente e la non qualificabilità della relativa decisione come “attività pregiudicante” che risultano decisive al fine dello scioglimento – per la negativa – del dubbio di illegittimità costituzionale prospettato dal rimettente.
D’altro canto, si notava oltre tutto che l’art. 20, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011 non ha eliminato i poteri d’indagine riconosciuti al tribunale dal precedente art. 19, comma 5, con la cui disciplina va dunque coordinato, nel senso che i poteri istruttori integrativi del Tribunale dovrebbero dunque essere riservati alle ipotesi di incompletezze marginali suscettibili di essere colmate dallo stesso organo giudicante, mentre la restituzione degli atti all’autorità proponente dovrebbe essere disposta soltanto in caso di grave incompletezza delle indagini, suscettibile di essere colmata soltanto dall’autorità proponente (dotata degli idonei strumenti di investigazione e di indagine), tenuto conto altresì del fatto che, non solo prima della fissazione dell’udienza, ma anche prima dell’adozione della misura del sequestro ovvero di quelle non ablatorie, il potere di restituzione in capo al Tribunale è collocato in una scansione procedimentale la cui struttura suggerisce non già l’ipotesi dell’accoglimento della richiesta di misura, bensì quella del suo rigetto.
Da quanto sin qui esposto si giungeva dunque alla conclusione secondo la quale non appariva essere ipotizzabile una situazione pregiudicante nella valutazione posta a fondamento del provvedimento di restituzione degli atti, provvedimento che, implicando in realtà un rigetto allo stato per insussistenza dei presupposti della misura cautelare, non assume valenza pregiudicante rispetto alla successiva adozione del sequestro (o di altra misura, non ablatoria), tanto più se si considera che lo stesso citato art. 20, comma 2, stabilendo che gli «ulteriori accertamenti patrimoniali» possono disporsi quando sono «indispensabili per valutare la sussistenza dei presupposti» del sequestro o delle altre misure, non ablatorie, appare escludere una valutazione della sussistenza dei presupposti in difetto delle ulteriori indagini.
Di conseguenza, anziché valutare la sussistenza dei presupposti, il Tribunale che restituisca gli atti valuta la sola sufficienza degli atti, il che altro non significa che, con tale operazione, non si viene a integrare una “attività pregiudicante”.
Infine, era altresì fatto presente, quale ulteriore considerazione di carattere sistematico, che il giudizio sulla cautela reale non è mai stato ritenuto “pregiudicante” nel processo ordinario, avendo la giurisprudenza di legittimità costantemente affermato che l’identità (fisica) tra il giudice della cautela e quello della valutazione del merito, nell’ambito dell’unica funzione attribuita nel grado, non fa nascere alcuna situazione di incompatibilità derivante dagli atti compiuti nel procedimento (in tal senso, da ultimo, Cass., sez. un., n. 25951 del 2022).
I giudici di legittimità costituzionale, di conseguenza, alla stregua delle argomentazioni sin qui esposte, dichiaravano, per un verso, inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, in relazione all’art. 36, comma 1, lettera g), del medesimo codice, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dalla Corte di cassazione, sesta sezione penale, per altro verso, infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, in relazione all’art. 36, comma 1, lettera g), del medesimo codice, sollevate, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Corte di cassazione, sesta sezione penale, nei termini prospettati nell’ordinanza di rimessione succitata.

4. Ricadute sistematiche: cosa cambia (e cosa no) dopo la sentenza n. 182/2025


Fermo restando che l’art. 37, co. 1, lett. a), cod. proc. pen., com’è noto, stabilisce che il “giudice può essere ricusato dalle parti (…) nei casi previsti dall’articolo 36 comma 1 lettere a), b), c), d), e), f), g)” cod. proc. pen., con la pronuncia qui in esame, la Consulta ha ritenuto siffatto precetto normativo immune dalle censure di illegittimità costituzionale prospettate nell’ordinanza di rimessione summenzionata, vale a dire nella parte in cui non prevede che le parti possano ricusare il giudice che, chiamato a decidere sull’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, abbia disposto nel medesimo procedimento, ai sensi dell’art. 20, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), la restituzione degli atti all’autorità proponente.
Di conseguenza, alla luce di tale decisione, non è possibile chiedere la ricusazione del giudice ove si verifichi una situazione di questo genere.
Questa è dunque in sostanza la novità che connota la sentenza trattata in siffatto scritto.

Ti interessano questi contenuti?


Salva questa pagina nella tua Area riservata di Diritto.it e riceverai le notifiche per tutte le pubblicazioni in materia. Inoltre, con le nostre Newsletter riceverai settimanalmente tutte le novità normative e giurisprudenziali!
Iscriviti!

Iscriviti alla newsletter
Iscrizione completata

Grazie per esserti iscritto alla newsletter.

Seguici sui social


Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Avvocato e giornalista pubblicista. Cultore della materia per l’insegnamento di procedura penale presso il Corso di studi in Giurisprudenza dell’Università telematica Pegaso, per il triennio, a decorrere dall’Anno accademico 2023-2024. Autore di diverse pubblicazioni redatte per…Continua a leggere

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento