Considerazioni sulla legge n. 96 del 2006 “disciplina dell’agriturismo” e sui suoi effetti sulle legislazioni regionali in materia.

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La Legge statale n. 96 del 2006 detta una nuova disciplina nazionale dell’agriturismo, materia di competenza esclusiva regionale ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione riformato nel 2001, che non è stata concordata con le Regioni, come sarebbe stato logico ed opportuno e come è previsto anche dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 13 Settembre 2002 che recepisce l’accordo fra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome sui “principi per l’armonizzazione, la valorizzazione e lo sviluppo del sistema turistico”, in base al quale norme di questo tipo vanno, appunto, definite d’intesa fra lo Stato e le Regioni.
            Se questa intesa non c’è, la legge nazionale può essere applicata, in una materia di competenza esclusiva regionale, solo qualora manchi la legge regionale, ma, se quest’ultima è presente, sarà essa a dover essere applicata, come hanno chiarito a più riprese la dottrina e la giurisprudenza costituzionali successive alla riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione.
 
            La Legge 96/2006, comunque, non tiene quasi per nulla conto delle leggi con cui tutte le Regioni, esclusa, finora, la Puglia (che, comunque, sta correndo ai ripari, perché rischia di essere l’unica regione in cui la Legge 96/2006 sarà applicata) hanno regolato l’agriturismo, partendo da una base normativa comune rappresentata dalla Legge statale n. 730 del 1985, che dettò la prima disciplina organica dell’agriturismo e finendo con l’assomigliarsi fortemente almeno sugli aspetti fondamentali (definizione e caratteri dell’agriturismo, promozione dei prodotti tipici e delle altre tipicità dei territori, disciplina amministrativa dell’attività basata sull’albo regionale degli operatori agrituristici e sull’autorizzazione del Sindaco per l’avvio dell’attività), tanto da poter affermare che esso presenta una disciplina abbastanza uniforme su tutto il territorio nazionale.
 
            Invece di porsi in questo tracciato di esperienze legislative ormai consolidate e magari provare a coordinarle meglio, la Legge 96/2006 ha pensato bene, all’articolo 14, di abrogare la Legge n. 730 del 1985 contenente la prima disciplina legislativa nazionale sull’agriturismo (e questo è legittimo) e di dare un termine di sei mesi alle regioni perché uniformino le loro normative in tema di agriturismo ai principi fondamentali contenuti nella stessa Legge 96/2006 (che, in realtà e francamente, sembra contenere quasi tutte norme di dettaglio piuttosto che norme di principio). Il problema è che questa seconda prescrizione, come abbiamo visto, non ha nessun valore, essendo il turismo e, di conseguenza, l’agriturismo, una materia di esclusiva competenza regionale. Infatti, finora, nessuna Regione ha pensato di cambiare la sua normativa per adattarla ai pochi punti di effettiva novità della Legge 96/2006.
 
            La nuova legge, infatti, non cambia nulla, rispetto alle leggi nazionali[1] e regionali fino ad oggi od oggi in vigore, sulla definizione di attività agrituristica[2] (art. 2), in cui si limita a coordinare le definizioni presenti nell’art. 2 della Legge 730/1985 e nell’art. 3 del Decreto Legislativo n. 228 del 2001, sui criteri ed i limiti di tale attività (art. 4), sui locali utilizzabili per essa (art. 3) e sulle norme igienico – sanitarie (art. 5), sulle persone a cui non è consentito l’esercizio dell’attività agrituristica (art. 6, 1° comma), sulla trasformazione e vendita dei prodotti propri (art. 10) e sulla riserva di denominazione “agriturismo” alle strutture agrituristiche (art. 9). Proprio l’art. 9 prevede che (bontà sua!) il Ministero delle Politiche Agricole debba concordare con le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano i “criteri di classificazione omogenei per l’intero territorio nazionale” delle strutture agrituristiche. Infine, gli artt. 11 e 13 definiscono attività di programmazione e di studio del fenomeno e l’art. 12 assimila all’agriturismo le attività svolte dai pescatori (c.d. “ittiturismo” e “pesca – turismo”), previste dall’art. 3 del Decreto Legislativo n. 226 del 2001 (ma già tutti ritenevano che esse fossero assimilabili all’agriturismo).
 
            Le poche novità di questa legge sono, in primo luogo, la possibilità di iniziare l’attività agrituristica con la sola comunicazione di inizio attività al Comune (la c.d. D.I.A. – Dichiarazione di Inizio Attività), che ha poi sessanta giorni per fare gli accertamenti, senza prevedere l’iscrizione nell’elenco regionale degli operatori agrituristici, né l’autorizzazione del Sindaco all’avvio dell’attività, che devono ritenersi, a nostro parere, implicitamente abrogati (art. 6, comma 2).
            Questa norma va contro tutte le legislazioni regionali sull’agriturismo che prevedono un iter per l’avvio dell’attività fondato, appunto, sull’iscrizione nell’elenco regionale degli operatori agrituristici e sull’autorizzazione del Sindaco. Inoltre, essa crea una forte disparità di trattamento con tipologie di esercizi simili, vale a dire gli esercizi di somministrazione e quelli ricettivi, la cui apertura è soggetta all’autorizzazione comunale (ai sensi delle Leggi n. 287 del 1991 e n. 217 del 1983, la “Legge – quadro sul turismo”).
            Ricordiamo che, nel 2003, la F.I.P.E. – Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi (la principale organizzazione di categoria del settore, aderente a Confcommercio) pubblicò “Il libro nero sull’agriturismo”, denunciando la distorsione della concorrenza che le norme a favore di quest’ultimo creano a danno dei pubblici esercizi propriamente detti (ristoranti, pizzerie, bar, ecc.) e delle strutture ricettive alberghiere ed extra – alberghiere. Pur con delle esagerazioni, molti erano e sono, purtroppo, gli elementi di verità di questo ragionamento, per cui una sostanziale liberalizzazione dell’apertura di attività agrituristiche, qual è quella che la norma realizza, potrebbe essere accettabile solo nel quadro di una liberalizzazione generale dell’avvio delle attività di somministrazione, i c.d. “pubblici esercizi”, se no essa si espone inevitabilmente alla protesta delle associazioni di categoria di questi ultimi.
            La D.I.A. prevista dal comma 2 dell’art. 6 della Legge 96/2006 è, peraltro, quasi inutile, perché tutti i procedimenti autorizzatori delle Regioni funzionano col sistema del silenzio – assenso (esclusa la Puglia, che lo aveva sulla base dell’art. 8 della Legge 730/1985).
            Tutt’al più si potrebbe specificare chiaramente nelle leggi regionali in materia l’estraneità degli esercizi agrituristici che somministrano alimenti e bevande alla disciplina dettata dall’art. 3 della Legge n. 287 del 1991 che prevede i limiti numerici per il rilascio di autorizzazioni per l’apertura di pubblici esercizi, anche se, a nostro parere è meglio lasciare questa regola a livello implicito, com’è stato finora (e nessuno l’ha mai messa in discussione: tutti o quasi tutti interpretano in questo modo le norme sugli agriturismi).
 
            L’art. 7 della Legge 96/2006 stabilisce poi che “le Regioni disciplinano le modalità per il rilascio del certificato di abilitazione all’attività agrituristica”, per il quale “possono organizzare, attraverso gli enti di formazione del settore agricolo e le associazioni agrituristiche più rappresentative, corsi di preparazione”. Anche questa abilitazione non è contemplata da nessuna legislazione regionale sull’agriturismo oggi in vigore e non si vede quale sia il vantaggio di essa, molto vicina al requisito della frequenza obbligatoria dei corsi professionali previsti, per chi voglia aprire un punto vendita di prodotti alimentari oppure un esercizio di somministrazione di alimenti e bevande, dall’art. 5, comma 5, lettera a), del Decreto Legislativo n. 114 del 1998 e dall’art. 2, comma 2, lettera c), della Legge n. 287 del 1991. Forse potrebbe avere un senso imporre l’obbligo di frequenza ad un corso del secondo tipo ai titolari di un agriturismo in cui si somministrino alimenti e bevande, ma non di più, a nostro parere.
 
            Infine, l’art. 8 dispone che l’attività agrituristica può essere svolta tutto l’anno, possibilità che prima era esclusa solo per le attività ricettive, che dovevano essere stagionali e che, probabilmente, era ed è preferibile per non far diventare quella agrituristica un’impresa ricettiva camuffata. E’ sempre possibile, però, previa comunicazione al Comune, esercitare l’attività solo nei periodi stabiliti dall’imprenditore agricolo o sospenderla per brevi periodi. Quasi tutte le leggi regionali prevedono periodi di solito di massimo 9 mesi per la sola attività ricettiva, che sarebbe a mio parere opportuno lasciare. Infine, le tariffe annuali per le attività ricettive vanno comunicate (ma non si specifica a chi, lo devono decidere le Regioni) entro il 31 Ottobre dell’anno precedente (le leggi regionali in vigore lo prevedono già ed alcune lo fissano entro il 30 Novembre, dando un termine più lungo alle imprese agrituristiche che non si capisce perché debba essere cambiato).
 
            Insomma, possiamo concludere dicendo che vi sono leggi che non rappresentano un’evoluzione ma che sono una involuzione nella disciplina di un fenomeno e che sono destinate o a non avere effetti concreti o a produrne solo di negativi, in termini di incertezza, di confusione normativa e di contenzioso legale fra Stato e Regioni sulle rispettive competenze legislative.
 
 
 
Gianfranco Visconti
 
                                                                                                         


[1] La Legge n. 730 del 1985, abrogata, come abbiamo detto, dall’art. 14 della Legge n. 96 del 2006, ed il Decreto Legislativo n. 228 del 2001.
[2] Salvo citare espressamente la preferenza che occorre dare (senza porre limiti quantitativi o percentuali), nell’attività di preparazione di alimenti e bevande, all’utilizzo di prodotti “tipici per legge”, vale a dire contraddistinti e tutelati da marchi DOP, IGP, IGT, DOC, DOCG o compresi nell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali. Ma questo concetto è implicito in tutte le attuali leggi regionali sull’agriturismo e nel buon senso degli imprenditori del settore.
Inoltre, l’art. 2, ultimo comma, specifica che ad ogni fine che non sia quello fiscale, “il reddito delle attività agrituristiche è considerato reddito agricolo”, anche se non credo ci fossero dubbi su questo.

Visconti Gianfranco

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