Concorso magistratura, l’ombra dell’illegittimità

Redazione 27/11/14
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Il bando per il tanto atteso concorso di magistratura 2015 (decreto del 5 novembre 2014) è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

Sfogliando il bando, e soffermando l’attenzione sui requisiti di partecipazione, compare la primissima novità: la possibilità per i laureati in possesso di particolari requisiti, previsti dalla legge, e che abbiano svolto per 18 mesi uno stage formativo presso gli uffici giudiziari o la pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato di accedere, per ciò solo e senza necessità di frequentare una Scuola di specializzazione, al concorso.

Si tratta di una novità introdotta dall’art. 73 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, nel testo vigente a seguito dell’entrata in vigore del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito con legge 11 agosto 2014, n. 114.

La ratio appare chiara: agevolare gli studenti più meritevoli nella scalata al posto di magistrato, garantendo una via di accesso meno onerosa rispetto a quella ordinaria.

La norma, tuttavia, lascia aperti numerosi dubbi sulla sua legittimità, o meglio sulla costituzionalità della previsione. Gli artt. 2 e 3 della Costituzione Italiana sanciscono il principio di uguaglianza, il quale vieta di trattare in maniera diversa situazioni analoghe; e il principio dell’indipendenza della Magistratura, principio fondamentale dello stato liberale, seppur inteso e garantito in modi molti diversi, che vorrebbe una classe di magistrati indipendenti.

La disparità di trattamento porta a una differenziazione tra coloro che hanno svolto il praticantato presso studi legali privati e coloro che invece hanno svolto lo stage di 18 mesi presso l’Avvocatura dello Stato. Considerando, poi, un particolare non da poco, che i primi devono essere in possesso dell’abilitazione alla professione forense o del possesso di un titolo di specializzazione o dottorato per poter accedere al concorso in magistratura, mentre i secondi, svolta la gavetta di un anno mezzo, possono iscriversi al concorso.

La domanda sorge spontanea: intercorre una differenza tale, tra i due tipi di pratica, da giustificare l’introduzione di un tale discrimine?

Come sottolinea il direttore di leggioggi.it, Avvocato Carmelo Giurdanella, “il fatto è già accaduto”:

la Corte Costituzionale ha dichiarato, nel 2010, l’illegittimità di una previsione che “attribuisce rilievo decisivo ad un requisito di ordine meramente formale (era l’iscrizione all’albo forense) del quale non si comprende l’idoneità a rivelare il possesso, in capo all’aspirante magistrato, di una maggiore attitudine all’esercizio della funzione giudiziaria rispetto agli altri aspiranti solo abilitati a svolgere la professione di avvocato”.

Pertanto, si evince la differenza formale tra uno studio professionale pubblico (l’Avvocatura dello Stato) e tutti gli altri studi professionali, sia privati che pubblici.

Poniamo allora la domanda sopra riportata in altri termini: è forse meno preparato all’esercizio della funzione giudiziaria un avvocato che, con rispettabile fatica, ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense, magari frequentando corsi di specializzazione in prestigiose università italiane e che tutti i giorni, seppur dall’altro lato del bancone, tocca con mano la funzione giudiziaria?

Alea iacta est. 

QUI L’INTERVENTO COMPLETO

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