Commento a sentenza n. 1791 del 14.1.09 della IV° Sezione della Corte di Cassazione, in tema di coltivazione

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Molto clamore ha suscitato la sentenza n. 1791 della IV° Sezione della Corte di Cassazione, in tema di coltivazione.
Il tema, infatti, si presta a polemiche, dopo le recenti negative prese di posizione delle SS.UU. .
Come, purtroppo, accade troppo spesso nel nostro paese, la foga dello scoop ha fatto sì che la maggioranza degli organi di stampa abbia conferito alla decisione in questione una valenza affatto diversa – in fatto e diritto – da quella che si può desumere dal testo letterale della pronunzia, soprattutto sul piano delle conseguenze pratiche che potessero derivare.
Non viene, infatti, né legittimata, né, tantomeno, riabilitata – neppure incidentalmente – la condotta di coltivazione.
Essa rimane, pertanto, un illecito penalmente rilevante e sanzionato come tale (con piena conferma della recente presa di posizione delle SS.UU., sentenza 10.07.2008 n° 28605), ma vengono, invece, operati importanti distinguo sopratutto in tema di valutazione dell’offensività concreta della condotta tenuta dall’agente.
Questo profilo metodologico viene valorizzato in stretta relazione al carattere di reato di pericolo che connota indubitabilmente la previsione di cui all’art. 73 dpr 309/90.
Una meditata ed attenta lettura della pronunzia della Suprema Corte, che si commenta, permette di individuare, quindi, sul piano metodologico, una serie di passaggi ermeneutici attraverso i quali si dipana il percorso delibativo trasfuso in sentenza.
Si tratta di approdi, i quali si pongono tra loro in un rapporto di concatenazione logica, sì che ogni conclusione cui il Collegio perviene, in relazione al singolo tema, appare progressivamente e necessariamente propedeutica al successivo problema, introducendolo.
 
1. In primo luogo, si nota che l’attenzione dei giudici di legittimità si sofferma sull’argomento della tutela del bene giuridico cui sottende la normativa in materia di stupefacenti.
Vale a dire che, ad orientamento della Corte, appare necessario chiarire, pregiudizialmente a qualsiasi altra considerazione, se lo scopo perseguito dal T.U. sugli stupefacenti consista effettivamente nella salvaguardia e difesa del diritto alla salute, intesa come posizione soggettiva costituzionalmente rilevante.
La risposta che, prima facie, viene fornita sullo specifico argomento, intanto, individua il principio della tutela della salute come espressione di un precetto di livello costituzionale (giusti i richiami di cui agli artt. 2 e 32, in particolar modo al secondo).
Non si tratta di una affermazione scontata od oziosa, per due ordini di motivi.
Da un lato, infatti, il ritenere la salute come diritto di rango costituzionale – ergo posizionato ai massimi e fondamentali livelli del nostro ordinamento giuridico – permette, a propria volta, di rendere accettabile – in forza di un giudizio di valenza – la eventuale compressione del diritto alla libertà personale.
E’, infatti, pacifico e non revocabile in dubio che anche quest’ultimo diritto, siccome previsto dall’art. 13 della Costituzione, appaia munito di portata fondamentale e che non possa certo essere suscettibile di essere vulnerato da situazione giuridiche di rilevanza inferiore, in ossequio alla gerarchia delle fonti.
Dall’altro, la Corte ritiene che il concetto di salute – nella veste di bene giuridico tutelato dal dpr 309/90 – debba essere interpretato come principio di portata generale, pur individuando la circostanza che di tale posizione tutelata, il singolo risulti “portatore nel’interesse della collettività”.
Vale a dire che, se sotto un primo profilo la nozione di salute va esaminata in maniera parzialmente differente dal concetto generale a carattere costituzionale di cui all’art. 32 Cost., non venendosi a verificare – a detta della Corte -, in relazione al T.U. sugli stupefacenti, il perfezionamento di un diritto soggettivo di natura individuale, (cioè non configurandosi un diritto del singolo cittadino in sé), sotto altro ed differente profilo, si deve, invece, affermare che detto principio non può, comunque, non involgere la posizione del singolo quale membro di un consesso sociale.
Sulle modalità del ragionamento che involge lo specifico punto sia consentito mostrare qualche perplessità.
E’ nozione pacifica quella per cui l’esercizio di un diritto potestativo o soggettivo possa subire una contrazione od addirittura una vera e propria ablazione, a fronte di altra posizione analoga, la quale espandendosi, venga riconosciuta, nella comparazione fra le due posizioni, maggiormente meritevole di tutela.
Va, però, osservato che non convince la qualificazione del diritto alla salute operata dalla Corte in sentenza, che deriverebbe quale ius receptum da autorevoli posizioni dottrinali.
L’inquadramento dommatico, così emerso quale finisce per segnalare ed attestare un qualche affievolimento della nature costituzionale del diritto in questione.
Si crea, così, una ulteriore posizione, una sorta di tertius genus, il quale si pone a mezza via fra il diritto soggettivo e l’interesse legittimo, attraverso il ricorso all’ibridismo di un diritto del singolo, che sarebbe tutelabile per i riflessi concernenti l’interesse che esso riverbererebbe in ambi collettivo.
Quella testè ricostruita, appare, a parere di chi scrive un’esercitazione che, francamente, non sposta apprezzabilmente i termini del problema.
Anzi, semmai, crea una certa confusione e non appare affatto idonea a meglio tratteggiare il tema dell’offensività.
 Altrettanto opinabile e non conclusiva, poi, risulta la consequenziale affermazione in base alla quale la negativa rilevanza sociale delle condotte connesse con gli stupefacenti e, in particolare della coltivazione, deriverebbe dalla circostanza che l’attentato alla salute – ratio della punibilità delle condotte – si concreterebbe solamente in forza di una serialità delle stesse e del loro effetto cumulativo.
Afferma, sul punto, infatti, la Corte il principio che la messa in pericolo del bene tutelato non avverrebbe realmente con il singolo comportamento o singole azioni.
Si sostiene, infatti, in relazione alle cd. assunzioni di stupefacenti, che “nessuna delle quali è normalmente idonea a compromettere il bene tutelato”.
Or bene, pare di poter affermare che siffatto approdo contraddica in toto, e non poco, lo spirito della legge sugli stupefacenti e le sostanze psicotrope.
E’, infatti, principio pacifico che la perseguibilità e sanzionabilità di quei comportamenti illeciti compiutamente descritti nel corpo dell’art. 73 dpr 309/90 involga gli stessi non già in quell’ottica seriale e reiterativa (di atteggiamenti antigiuridici) cui fa menzione la Corte, ma anche e soprattutto in relazione al contesto delle singole azioni, che non necessariamente configurano una perpetuazione o continuazione nel tempo di condotte penalmente rilevanti.
Anzi, partendo da presupposto che la ratio legis del dpr 309/90 si ravvisa nella necessità di creare una situazione di cristallizzazione del diritto alla salute dei cittadini, si deve giungere all’affermazione che la messa in pericolo di tale legittima aspettativa – collettiva o soggettiva che dir si voglia – può trovare (e trova effettivamente nella quotidiana esperienza) adeguata espressione anche in specifici episodi.
Se è vero che “Il reato sussiste anche se la coltivazione mira a soddisfare le esigenze di approvvigionamento personale, in ragione della idoneità della condotta ad accrescere il pericolo di circolazione e diffusione delle sostanze stupefacenti e ad attentare al bene della salute con incremento delle occasioni di spaccio” (Cfr. Cass. Sez. IV, 14 aprile 2005, n. 22037 Gallob, CED Cassazione, 2005, Riv. Pen., 2006, 7-8, 882, Corriere del Merito, 2008, 11, 1185)[1], è, dunque, palese che già la sola possibile circolazione di stupefacenti possa integrare quei profili illeciti singoli od episodici sin qui tratteggiati.
 
2. In secondo luogo viene dibattuto il decisivo problema dell’offensività della condotta coltivativa e più in generale della condotta illecita in materia di stupefacenti.
E’ questo, quindi, il nodo cruciale della pronunzia, perchè i giudici di legittimità giungono ad operare la distinzione fra il concetto di offensività teorica ed astratta dell’azione illecita che viene tipicizzata dalla norma e quello di offensività concreta e reale della condotta che viene posta in essere dall’agente.
La differenziazione che la Corte afferma e ribadisce in ordine alla idoneità della condotta lesiva o potenzialmente lesiva, appare, relativamente al più generale tema giuridico della coltivazione, assai pertinente.
L’operazione di individuazione dell’operatività del concetto di offensività, infatti, non risulta attività scientifico-interpretativa fine a sé stessa, quanto piuttosto, si pone in relazione strumentale anche rispetto alla nozione di reato di pericolo.
E’ noto che, in giurisprudenza, la coltivazione è stata qualificata come condotta configurante il reato di pericolo presunto (o di pericolo astratto che dir si voglia).
Si è, così, venuto a creare un nomotipo destinato, indi, a fungere da pietra di paragone o paradigma rispetto al caso concreto.
E’ questo, cioè, un tema giuridico di principio che racchiude al contempo sia il connotato della tipicità dell’illecito, sia il carattere dell’attitudine a violare il principio del neminem laedere.
        Il modello legale – così determinato –, però, per potere superare la soglia della mera teoreticità, e produrre effetti nel mondo reale del diritto, deve, a fortiori, venire rapportato alla azione illecita effettiva che il singolo commette.
Va superata, così, la condizione di potenzialità ed astrattezza che caratterizza il pericolo previsto in sede normativa, e si deve, pertanto, privilegiare l’accertamento dell’effettiva attitudine dell’azione a porre a repentaglio il bene giuridico oggetto della tutela legislativa.
Si tratta, nella specie, di un chiarimento che – rifacendosi alla posizione già espressa dalla sentenza 360 del 1995 della Corte Costituzionale – finisce per superare definitivamente quella equivoca posizione giurisprudenziale, la quale prescindeva dalla effettiva tossicità del prodotto della coltivazione.
Per tale orientamento, infatti, l’antigiuridicità del comportamento conseguiva ad una valutazione ipotetica, quindi, non legata ad un rilevamento certo e provato del valico della soglia minima drogante.
La Sez. VI, 09-06-2004, n. 31472 De Rimini Riv. Pen., 2005, 1025 affermava, infatti, che “La coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope costituisce un reato di pericolo astratto, per la cui configurabilità non rilevano la quantità e qualità delle piante, la loro effettiva tossicità, la quantità di sostanza drogante da esse estraibile, assumendo tali elementi rilievo solo ai fini della gravità del reato”.
Prima ancora la Sez. IV, 15-05-2003, n. 29958 (rv. 225127), De Paoli, CED Cassazione, 2003, aveva sostenuto che la natura legale della nozione di stupefacente determinava la irrilevanza, ai fini della punibilità del fatto, della circostanza che il principio attivo contenuto nella singola sostanza oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta "soglia drogante".
Enunciando tale principio, la S.C. ritenne, in una fattispecie di illecita detenzione e vendita di sostanza stupefacente contenente mg. 13,4 di eroina-base, che l’inidoneità dell’azione, relativamente alle fattispecie previste dall’art. 73 del dpr 309 del 1990, andasse valutata unicamente avuto riguardo ai beni oggetto della tutela penale, individuabili in quelli della salute pubblica, della sicurezza e dell’ordine pubblico e della salvaguardia delle giovani generazioni, beni che furono ritenuti posti in pericolo anche dallo spaccio di dosi contenenti un principio attivo al di sotto della soglia drogante.
A fronte dei ricordati arresti, però, già le SS.UU. con la sentenza resa all’udienza del 29-11-2007, n. 47472 (rv. 237856), CED Cassazione, 2007, in Riv. Pen., 2008, 7-8, 847, operarono un significativo distinguo sancendo che “In tema di stupefacenti, allorché il quantitativo di sostanza oggetto di cessione superi il parametro normativo della soglia drogante, è sempre configurabile la relativa condotta delittuosa, a nulla rilevando che il medesimo quantitativo superi, o non, la dose media giornaliera”[2].
In buona sostanza, quindi, il limite offerto dalla soglia minima drogante divenne spartiacque per la valutazione in ordine alla reale offensività concreta dell’azione.
Posizione interpretativa – questa – che si poneva sulla scia di altre precedenti pronunzie, tra le quali merita citazione la decisione della Sez. VI, 15-11-2004, n. 20938 (rv. 231631), Bortoletto, CED Cassazione, 2005, Riv. Pen., 2006, 6, 767[3].
Si legge, infatti, nella citata sentenza “In materia di stupefacenti, deve ritenersi esclusa la offensività della condotta di coltivazione non autorizzata di piante di sostanze stupefacenti, qualora essa sia talmente modesta da escludere l’efficacia drogante del prodotto”.
Nel caso concreto la Corte di legittimità, applicando il principio in parola, confermò la decisione di merito, che aveva ravvisato l’offensività’ della condotta -avente ad oggetto la coltivazione di sei piante di marijuana – in relazione alle quali era stata accertata l’idoneità a produrre quantitativi non minimali di stupefacente.
Tornando alla esegesi della sentenza in commento, si deve considerare che il ragionamento della Corte si dipana tenendo conto, necessariamente, della circostanza che la nozione di offensività è strettamente correlata con la figura giuridica del reato impossibile di cui all’art. 49 c.p. .
La presenza dell’una, infatti, esclude l’operatività dell’altra.
In assenza della idoneità della sostanza a produrre effetti droganti, quindi, nell’ipotesi che non sia superata quella soglia minima drogante cui si è fatto cenno, non viene superato il discrimine fra reato impossibile e concreta lesione del bene giuridico oggetto di tutela e la condotta oggetto di indagine non ricade nel campo dell’applicazione della sanzione penale.
 
 
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CONCLUSIONI
 
 
Tirando le fila delle premesse svolte, pare di potere affermare che sia palese il valore additivo ed interpretativo della sentenza.
Essa focalizza, infatti, la necessaria compatibilità fra le figure del pericolo presunto (ipotesi che deve concernere il modello legale di reato, cioè il postulato precettivo di natura normativa di cui la legge è custode) e del pericolo concreto (tesi che deve trovare adeguato riscontro nel fatto cui si attribuisce carattere di antigiuridicità, attraverso quella verifica fattuale cui il giudice deve adoperarsi onde poi dare corso concreto al principio da mihi factum tibi dabo ius).
L’una presupposizione non esclude affatto l’altra, anzi, per vero va detto che esiste un rapporto sinallagmatico fra le due.
Come detto, infatti, la prima, (quale istituto giuridico in senso stretto), è presupposto naturale della seconda (applicazione giurisprudenziale).
Quest’ultima, a propria volta, è corollario consequenziale necessario senza il quale la prima non rimarrebbe che confinata a livelli di mera astrattezza e non troverebbe reale e seria applicazione.
In questo contesto, quindi, l’analisi materiale della fattispecie, muovendo ed uniformandosi a regole precise predeterminate, mira a rendere vivi i precetti che, diversamente, rimarrebbero pure e mere enunciazioni, prive di effetti naturalistici.
Ergo, come appare nella fattispecie in parola, la verifica in ordine alla reale capacità (o meno) delle piante di generare prodotti muniti di un principio attivo idoneo a superare la soglia drogante e, dunque, a rendere (o meno) sanzionabile, sotto tale profilo la condotta coltivatoria, assume un carattere di imprescindibile decisività.
Questo iter investigativo comporta anche la valorizzazione del concetto di offensività, nozione che viene posta al centro della questione, sull’abbrivio dato dalla circostanza che il reato si fonda sull’oltraggio al bene tutelato dalla norma (anche se si versi in una situazione di offesa potenziale).
Come già detto per il reato di pericolo, anche la dicotomia fra le due ricordate  tipologie di offensività appare importante, perché esse si completano reciprocamente e necessariamente, in quanto la offensività valutata in concreto, rende effettiva l’applicazione del precetto astratto di carattere normativo, il quale diversamente opinando rimarrebbe lettera morta.
Nessun equivoco, quindi, è invocabile in relazione ad una vagheggiata  sopravvenuta resipiscenza da parte dei Supremi Giudici, in ordine alla illiceità della coltivazione.
Questa condotta rimane illecita.
La sentenza, però, costituisce una precisazione che, certamente, sul piano della stretta legalità si rendeva opportuno e necessario, per evitare una estensività abnorme dello spettro di punibilità di taluni comportamenti.
 
 
 
Carlo Alberto Zaina
 
 
 


[1]    Conformi
Cass. pen. Sez. VI, 12-05-2008, n. 24664 (rv. 240371),
Cass. pen. Sez. Unite Sent., 24-04-2008, n. 28605 (rv. 239920),
Cass. pen. Sez. IV Sent., 16-01-2008, n. 6758 (rv. 239036),
Cass. pen. Sez. VI Sent., 15-02-2007, n. 20426 (rv. 236509),
Cass. pen. Sez. VI Sent., 15-02-2007, n. 20426 (rv. 236509),
 Cass. pen. Sez. IV, 19-01-2006, n. 10138 (rv. 233534),
Cass. pen. Sez. IV, 15-11-2005, n. 150 (rv. 232794)
[2] V. anche Cass. pen. Sez. Unite Sent., 24-04-2008, n. 28605 (rv. 239920)
Cass. pen. Sez. Unite Sent., 24-04-2008, n. 28605 (rv. 239921)
Cass. pen. Sez. VI Sent., 02-04-2008, n. 27330 (rv. 240526)
Cass. pen. Sez. VI Sent., 01-04-2008, n. 19788 (rv. 239963)
Cass. pen. Sez. VI Sent., 29-01-2008, n. 17899 (rv. 239933)
[3] Conformi
Cass. pen. Sez. VI Sent., 12-05-2008, n. 24664 (rv. 240371)
Cass. pen. Sez. Unite Sent., 24-04-2008, n. 28605 (rv. 239921)
Cass. pen. Sez. IV Sent., 16-01-2008, n. 6758 (rv. 239036)
Cass. pen. Sez. IV, 15-11-2005, n. 150 (rv. 232794)

Zaina Carlo Alberto

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