Chiudere le università, unica difesa costituzionale

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Oggi la protesta negli atenei aumenta e si diffonde.
Pieni di speranze?
La stampa del Paese svolazza dietro i cortei, le bare, le lezioni all’aperto e le foto segnaletiche: la meglio gioventù?
No. Gli studenti non possono continuare a muoversi su questo binario rincretinante ed economicistico contro le disposizioni combinate sui cd. tagli contenuti nella legge 133/2008.
Una protesta economicista, e proprio contro disposizioni di mero carattere economico.
La sconfitta, in questo senso, sarà evidente.
Non voglio soffermarmi sulla natura giuridica della legge 133/2008, la legge-chiave di ogni cd. Stato amministrativo burocratico. Soltanto si tenga presente che siamo di fronte a disposizioni di natura essenzialmente provvedimentale, ossia prese solo in base allo stato delle cose, con riferimento ad una situazione concreta e diretto a finalità pratiche, di tipo economico.
È da questa considerazione sulla natura amministrativa della legge che si deve partire.
Si deve, in altri termini, considerare che ci troviamo di fronte ad uno Stato il cui criterio di gubernaculum viene qui ridotto alla mera amministrazione economica del mondo: l’azione dello Stato si orienta a partire da un “piano”, e non dal diritto.
Lo Stato economico non è che la nuova forma statale del secolo XX: non è la novità, è solo al limite la sua resistenza al tempo che forse potrà stupire qualcuno. Ma non è, come dicevo, questa la sede per un’analisi della crisi dello Stato legislativo.
Piuttosto, questa breve premessa deve far capire un’idea fondamentale: ogni qual volta ci si ponga su un piano meramente economico, il solo fatto che questi tagli possano in qualche modo dirsi opportuni (risparmio di spese, alleggerimento burocratico, etc.) è condizione sufficiente per giustificarne l’adozione .
 In economia non esiste il concetto giuridico di legittimità. Esiste solo l’opportunità.
L’economia risponde alle sue leggi, si direbbe in breve. E allora non si cada, come si è sino ad oggi caduti, nella tentazione di opporsi a questo provvedimento di tagli sul suo stesso piano: si verrà senz’altro sconfitti.
Se si considera la portata finanziaria della normativa, e solo questa, non c’è obiezione che tenga.
Se decidiamo di pensare in termini economici, ogni taglio che sia economicamente opportuno finisce per diventare, magicamente (per bacchetta dello Stato amministrativo), anche giuridicamente legittimo.
Per questo motivo, chi leva le voci “mancheranno i fondi”, “le università diverranno patrimonio dei privati” etc., finchè non esplicita la sottostante argomentazione giuridica, resta sospeso nel limbo economicistico di chi contesta un taglio alla spesa con argomenti relativi alla spesa stessa.
Ma volete davvero farne una questione da abaco?
Certamente il legislatore lo vorrebbe. E non ne vede l’ora, per non doversi pre-occupare del diritto, della sua legittimità, che è il vero possibile punto di rottura di ogni ordinamento giuridico.
Attenzione dunque a non spostare tutta la questione dei tagli sul punto di vista economico, ossia delle argomentazioni di come vada gestita la spesa. Potreste ritrovarmi economisti che vi inchioderebbero, sostenendo che è più redditizio (economicamente opportuno) finanziare Alitalia, i partiti politici più minuscoli, le associazioni di categoria più analfabete o altri piuttosto che le ricerche di glottologi, filosofi o giuristi.
Esiste una sola via su cui questa protesta può dirigersi: quella giuridica.
È la via della palese illegittimità costituzionale dell’attuale ordinamento universitario.
Di tale costituzione dell’ordinamento universitario, la riforma di oggi non tiene assolutamente conto. Ed è proprio questo problema che non vorrebbe mai dover affrontare.
È mistificante, in questo senso, l’idea che il problema strutturale della ricerca nelle università italiane sia una questione economica, di mancanza di fondi.
È così mistificante dirigere una protesta contro un “taglio”.
Solo avendo riguardo alla costituzione dell’università è possibile trovare il punto di rottura, e così sfondare. L’università non è un semplice ente pubblico.
Né potrà essere una semplice fondazione.
L’università è in primo luogo un ordine giuridico, è prima di tutto una decisione, una decisione fondamentale e politica oggi cristallizzata nella Costituzione.
Nel nostro diritto, questo intreccio tra decisione sovrana e costituzione rende questo ordine che è stato posto fondamentale e inviolabile.
La Costituzione italiana fissa questo ordine in due disposizioni:
Art. 33. “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’ insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”.
Art. 34. “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.
Quest’ordine, come si vede immediatamente, non è un ordine economico.
Anzitutto, la sedes materiae non è quella del Titolo III, dedicato ai Rapporti Economici, ma è quella del Titolo II, dedicato ai Rapporti Etico-Sociali.
L’università è un ordine giuridico che concerne rapporti etico- sociali. Non rapporti economici.
In tal senso, una politica di tagli, in relazione all’ordinamento universitario è già per definizione inidonea a poter risolvere qualsiasi problema attinente alla costituzione giuridica degli atenei.
Appare in secondo luogo evidente come gli eventuali provvedimenti economici che gli artt. 33-34 Cost. sono in grado di sostenere sarebbero del tutto anti-opportuni: la costituzione prevede espressamente – e ciò è parte del suo ordine – che in materia di ricerca la spesa pubblica venga, perlomeno secondo un mero calcolo da abaco, orientata in senso profondamente antieconomico.
 L’intero testo dell’art. 34 sottende questo principio, ed anche in esso si riconosce l’università come decisione costituente.
Come nell’Assemblea Costituente si espresse Meuccio Ruini a proposito dell’art. 34:
“ (…) Uno dei punti al quale l’Italia deve tenere è che nella sua costituzione, come in nessun’altra, sia accentuato l’impegno di aprire ai capaci e meritevoli, anche se poveri, i gradi più alti dell’istruzione. Alla realizzazione di questo impegno occorreranno grandi stanziamenti; ma non si deve esitare; si tratta di una delle forme più significative per riconoscere, anche qui, un diritto della persona, per utilizzare a vantaggio della società forze che resterebbero latenti e perdute, di attuare una vera ed integrale democrazia”.
Su questo punto, dovremo tornare in seguito.
Per il momento, si deve riconoscere e ruminare: l’università è una decisione costituzionale giuridica, e non economica.
È su questo punto che si trova la rottura: la costituzione giuridica dell’università è tutt’oggi riflessa su atenei e strutture che la negano strutturalmente.
La decisione fondamentale racchiusa negli artt. 33 e 34 cost. è radicalmente negata nella struttura dell’odierna università, che è divenuta una mera macchina pubblica e burocratica.
Questa decisione giuridica è evidente fin dal primo comma dell’art. 33 cost. : l’ordine universitario è fondato su una medaglia di libertà, i cui due lati sono la libertà della ricerca e la libertà dell’insegnamento.
Tali libertà non sono libertà economiche (da titolo III), ma libertà giuridiche, etiche e sociali.
Sono, al contempo, libertà coordinate tra loro (il primo comma è paratattico, nella misura in cui decide di legarle indissolubilmente in una struttura a chiasmo).
Non esiste l’una senza l’altra: non vi è istruzione libera senza insegnamento libero, e viceversa.
Ad oggi, le università italiane hanno radicalmente negato entrambe.
Ma deduciamo prima un corollario fondamentale che deriva dall’intreccio delle due libertà indicate, che deriva a cascata, con una logicità necessaria, dall’art. 33 Cost.: Non esistono buone o cattive università, ma soltanto buoni o cattivi studenti e buoni o cattivi professori.
Sembra una ovvietà. Ma tanto ovvia da essere stata sempre trascurata: i grandi servizi che in questi ultimi anni hanno assunto il paternalistico nome di “orientamento”, con i loro depliant colorati e le continue votazioni e classifiche, costituiscono l’esempio più lampante di questa illusione, ossia che esistano università di per sé buone e università di per sé cattive.
Come se non dipendesse dai buoni o cattivi studenti che le frequentano, in primo luogo (poiché ogni professore è stato prima uno studente).
Così gli studenti sceglieranno.
E va da sé che il meccanismo dell’orientamento non implica che la classica profezia che si auto avvera. Torniamo al corollario, e all’attuale costituzione universitaria.
Senza la divisione netta tra buoni e cattivi studenti, tra buoni e cattivi professori, non esiste la doppia libertà di ricerca e insegnamento.
Non solo infatti i cattivi maestri non hanno nulla da insegnare e i cattivi studenti nulla da imparare, ma ancor più perniciosamente: i cattivi maestri e i cattivi studenti minano all’interno l’università e la costituzione, gli artt. 33-34 Cost.: se non si riescono a separare i più meritevoli di cui parla la Costituzione, essa non avrà nessuna attuazione.
Ma nessuno è libero di nuocere all’ordine costituzionale.
Io penso che sia più che probabile che l’attuale protesta stia per ora nelle mani di cattivi studenti: ciò ha senza dubbio del paradossale.
Perlomeno una volta erano i Cattivi Maestri a costituire il pericolo per gli spiriti liberi (erano Hegel e Marx, e poi era la Televisione, per ricordare Popper).
Ora sono i Cattivi Scolari.
Tempi che cambiano.
Ma torniamo a questi cattivi maestri e studenti, che hanno operato indisturbati per anni per frantumare la costituzione universitaria.
Si è negato tutto ciò che l’ordine dell’università prevede, che prevede la decisione fondamentale sulle libertà di studio e di insegnamento. Il disposto degli artt. 33 e 34 cost. è costruito su questa discriminazione fondamentale: l’intreccio delle due libertà è possibile solo se si separano i meritevoli dai non meritevoli.
Altrimenti, in caso contrario, l’uguaglianza rincretinante snaturerà ogni possibile libertà.
D’altra parte, se l’università ha consentito la contaminazione intellettuale di cattivi studenti e insegnanti senza alcuna discriminazione in merito di sorta, non si vede come il taglio economico possa considerarsi peggiorare la situazione.
In tale prospettiva, i tagli non peggiorano né migliorano nulla.
Probabilmente la possibile trasformazione delle università in fondazioni creerà disparità ingiustificate in relazione al censo.
Ma oggi l’università è strutturalmente costruita su una disparità incostituzionale fondata sulla assoluta presunzione di eguaglianza intellettuale tra gli studenti e tra i professori. Sostituiamo la stupidità con il censo.
Qualcuno potrebbe anche pensare che, in questo senso, si faccia addirittura un passo avanti.
La protesta ha trovato la sua sveglia solo con la mano a forbice di Tremonti. Tutto questo fa pensare: perché questi cortei non sono sfilati negli ultimi trent’anni ininterrottamente? Sta in quello che è oggi l’università il punto di rottura, la sua palese incostituzionalità.
I tagli non sono invece di per sè incostituzionali, finchè non riflettono i loro effetti sui profili non economici. Certo, in astratto, potrebbero portare anch’essi i segni di incostituzionalità. Ma il problema è un altro: siamo già, con o senza tagli, in una situazione incostituzionale.
Cercate allora di ri-orientare la protesta. E di orientarla negli occhi della costituzione, e non del legislatore economico!
Da almeno trent’anni questo Paese ha fatto dell’accesso agli atenei un rincretinente e aberrante meccanismo burocratico di mantenimento delle teste vuote peggiori.
E tale problema attiene direttamente alla Costituzione, non alla legislazione. Che cosa pensate che valga una protesta su temi costituzionali, se non ha alcuna direzione ostinata, se si muove nell’angusta palude di zanzare referendarie, se – in altri termini- si muove democraticamente e legislativamente sul piano dell’abrogazione e non su quello costituzionale?
Una protesta costituzionale non può tendere ad una abrogazione, ma soltanto alla restaurazione di un ordine fondamentale.
Epurare gli studenti e i professori cattivi è l’unica soluzione ad oggi possibile.
In questo specifico senso, le uniche strade percorribili sono due. Introdurre, anzitutto, meccanismi radicalmente selettivi di ingresso negli atenei da parte degli studenti.
Una buona università non può esistere se essa è costituita al 90% da cattivi studenti. È necessario sbarrare l’ingresso agli studenti cattivi nelle facoltà.
A quarant’anni di distanza dagli episodi e dalle inversioni sessantottine, è necessario ripensare le modalità di ammissione.
La libertà dello studio, in questo senso, è una libertà giuridica che presuppone, in quanto iscritta in un percorso di formazione che ha per antecedente l’istruzione secondaria, una cesura giuridica forte, e non debole.
Questa è la ratio degli artt. 33 e 34 Cost. Qualche intellettuale dalle maglie larghe forse non si avvede che la libertà costituzionale di questi articoli non è assolutamente una indiscriminata apertura alla burocratizzazione degli intelletti, ma è il suo esatto contrario: è una libertà discriminante, violenta, che taglia in modo netto e radicale, per sua stessa essenza, il Paese.
Requisiti di natura oggettiva vanno introdotti nelle università: non esiste una libertà di insegnamento laddove l’accesso allo studio si configuri come libertà indiscriminata, come diritto assoluto della persona.
È un diritto in sé secondario, dal momento che già oggi è richiesto il possesso di un precedente titolo di istruzione secondaria.
Ma tale mero possesso, rebus sic stantibus, non è più in grado di garantire la ratio alla base della sua previsione, poiché non è più un indice, un parametro sufficiente a rendere effettiva la libertà di ricerca, dallo Stato costruita come una libertà a formazione progressiva.
Oggi il diploma non è indice di nulla. Le università, peraltro, sembrano sempre meno interessate anche a discriminare in base ai voti di maturità.
Oggi servono dunque misure, indistintamente applicabili e fondate su criteri oggettivi, in grado di garantire la ratio alla base dell’ammissione all’università.
Ma non dimenticatevi i cattivi professori.
Loro si, che andrebbero mangiati in salsa piccante.
Il nuovo turn over porterà ad una riduzione, nel tempo, dei docenti universitari. Considerata la proliferazione di cattedre, questo non può essere definito un cattivo provvedimento. Piuttosto, appare del tutto insufficiente. La riforma pecca qui ancora di economicismo, nella misura in cui fa del problema del personale docente una questione economica, di spesa.
Il problema, ancora una volta, è d’altro tipo, e richiede una soluzione costituzionale, e non economica. Si è parlato spesso di baronie, nepotismi, di insegnamento da svecchiare.
È tutto vero, purtroppo. Ma anche in questo campo, non si tratta che di immagini, di rappresentazioni certo corrette ma conseguenti al preliminare meccanismo di selezione del personale.
Distinguere tra buoni o cattivi maestri non è di per sè un problema legato né al numero delle cattedre né ai meccanismi di cooptazione.
E’ un problema di qualità. La prassi secondo la quale si diventa professori solo dopo un lungo percorso, ottenendo una cattedra non prima dei 45-50 anni per poi conservarla fino ai 70 inoltrati, è del tutto sterile, sotto ogni profilo.
 Anzitutto, quello occupazionale: aprire l’ingresso all’insegnamento alla soglia dei 30 anni garantirebbe uno sbocco immediato ai giovani ricercatori.
Anticipare poi l’obbligo di pensionamento ai 60, non darebbe problemi di sorta: dopo 30 anni di insegnamento, un professore di qualità uscito dall’accademia con un bagaglio si suppone notevole di pubblicazioni, prestigio e conoscenze, non avrebbe difficoltà ad introdursi in circuiti extra-accademici invece chiusi ai dottorandi e ai ricercatori (direzioni di riviste, collaborazioni con giornali etc.).
 L’università, in quanto luogo pubblico della ricerca, deve in questo senso ragionare in senso inverso rispetto al mercato. È, come già abbiamo ricordato, la stessa costituzione a prevederlo: gli artt. 33 e 34 Cost. fondano un ordine radicalmente anti-economico.
Utilizzando la sua stessa logica, invece, l’università crea una superfetazione disastrosa: i professori raggiungono cattedre ed altri impieghi ed attività nello stesso tempo, mentre i giovani non riescono ad inserirsi né nel settore intellettuale pubblico, né in quello privato.
È perciò necessario giungere ad una sincronizzazione costituzionale feconda e produttiva: al mercato, che ragiona in termini di riscontro economico, affidare l’attività a docenti e professori che, all’età di 60 anni, uscendo dall’università, hanno avuto modo di acquistare i requisiti necessari per entrare in un meccanismo di produzione intellettuale a carattere privato; all’Università, il compito di garantire quella formazione predetta, assumendo docenti d’età giovane.
La protesta di questi giorni deve pertanto radicalmente mutare non solo le sue elementari modalità (il blocco delle lezioni sembra ancora più idiota del luddismo), ma anche e soprattutto il suo oggetto: non le questioni economiche, ma le questioni costituzionali.
Lo stato in cui oggi si trova l’università italiana è illegittimo. È in violazione totale dell’ordine costituzionale degli art. 33 e 34.
Devono essere cacciati i cattivi studenti. Devono essere messi a riposo i professori che abbiano superato la soglia dei sessant’anni.
L’unico provvedimento che si rende oggi possibile e necessario, è la chiusura a tempo indeterminato di tutte le università.
Una soluzione radicale e costituzionale, che permetterebbe di sospendere questa palese violazione della costituzione, dell’ordine fondamentale dell’istruzione e della ricerca. Soltanto così si porrà finalmente il problema costituzionale.
Perché le tradizionali forme di occupazioni e manifestazioni possono forse andar bene per i movimenti civili, per i referendum, per le richieste di abrogazione, ma certo non sono per definizione (poiché l’interlocutore, in questi casi, non è più direttamente il legislatore, ma l’ordine stesso) in grado di affermare lo spirito della costituzione.
Solo una “chiusura costituzionale” delle università è la medicina efficace.
 
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Per tali motivazioni e a seguito della necessità di un intervento a difesa della Costituzione minacciata – e non, si noti, a difesa delle leggi, è necessario che venga adottato con urgenza il seguente provvedimento
 
DECRETO LEGGE
“Disposizioni urgenti per la difesa costituzionale delle università”
Titolo I Protezione costituzionale degli atenei
Art. 1 – Ambito e finalità dell’intervento
Le disposizioni del presente decreto comprendono le misure urgenti e necessarie per provvedere all’immediata protezione degli artt. 33 e 34 della Costituzione.L’ordinamento universitario vigente costituisce una minaccia evidente e pericolosa all’ effettiva vigenza, realizzazione ed attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di relazioni etico-sociali, comprendenti la libertà della ricerca e dell’insegnamento.Per questo motivo, le seguenti norme hanno lo scopo di proteggere, con tutta la forza necessaria di fronte ad una situazione di pericolo, l’ordinamento universitario, disponendo le misure più idonee a garantire le effettive libertà e i diritti previsti dal testo costituzionale.L’autonomia normativa, scientifica, didattica, amministrativa e finanziaria delle università non può, infatti, esistere al di fuori e contro l’ordinamento costituzionale, ma è, al contrario, da essa creata, garantita e disciplinata.
Art. 2 – Chiusura immediata di tutti gli atenei
Dal giorno dell’entrata in vigore del presente decreto è disposta l’immediata chiusura di tutte le università italiane, pubbliche e private.Alle operazioni di chiusura, che devono essere svolte con ordine e celerità entro le ore 7.00 del mattino successivo all’entrata in vigore delle disposizioni, provvederà l’autorità prefettizia, mediante ricorso agli organi di pubblica sicurezza.I prefetti, nell’espletamento del presente compito, ricoprono il ruolo di delegati della Presidenza del Consiglio dei Ministri.Le università rimarranno chiuse per un tempo pari a 90 giorni.Nel periodo di tempo di cui al comma 3, le università non possono adottare nessun atto di alcun tipo, compresa l’ordinaria amministrazione.
Titolo IIOrdinamento provvisorio degli atenei
Art. 3 – Personale non docente
Il personale non docente impiegato nei servizi amministrativi dell’Università conserva tutti i diritti patrimoniali e di carriera anche nel tempo della chiusura.Alla riapertura degli atenei, tutti i contratti del personale amministrativo sono convertiti in contratto di lavoro a tempo indeterminato.Numero e modalità delle nuove assunzioni saranno disciplinate dalla normativa di cui all’art. 6
Art. 4 – Destituzione del corpo docente per anzianità
Il personale docente che abbia, al momento dell’entrata in vigore della presente legge, superato il sessantesimo anno di età è destituito con efficacia immediata dal suo impiego.Per corpo dei docenti si intendono tutti i professori, ordinari, straordinari, associati, i beneficiari di assegni di ricerca, i dottorandi e chiunque altro eserciti, a qualsiasi titolo, l’attività di docenza negli atenei.Nel tempo di chiusura delle università è sospesa la maturazione dei diritti patrimoniali di tutto il corpo docente, esclusi i dottorandi e i ricercatori.
Art. 5 – Assetto organizzativo-didattico
L’età di pensionamento del corpo docenti è fissata al compimento del sessantesimo anno.È vietata ogni forma di rinvio o proroga.Il corpo docente viene organizzato nelle seguenti articolazioni: dottorando di ricerca, ricercatore, professore associato e professore ordinario, senza altre distinzioni di livello o di fascia .L’elenco di cui al comma 3 è tassativo.Sono ammessi alla partecipazione ai concorsi per il conseguimento dei dottorati di ricerca soltanto i laureati non oltre il secondo anno fuori corso con voto non inferiore a 107/110, i quali non abbiano superato l’età di anni 26.Il dottorato ha durata triennale, la quale non può essere prorogata.Ogni università deve bandire annualmente un concorso di dottorato con numero di posti totale per ogni ambito disciplinare pari al doppio del numero dei professori ordinari presenti in quell’ambito.Ciascuna università, nell’ambito della sua autonomia organizzativa, determina il percorso formativo di ogni dottorando, nel rispetto delle disposizioni di cui all’art. 6 del presente decreto.Sono ammessi alla partecipazione ai concorsi per il conseguimento dell’assegno di ricerca soltanto coloro che abbiano conseguito il diploma di dottorato o i laureati con voto non inferiore a 110/110&lode che non abbiano superato l’età di 25 anni.L’assegno di ricerca non può avere durata superiore a 2 anni e può essere rinnovato per un tempo massimo complessivo di 5 anni.Sono ammessi alla partecipazione ai concorsi per il ruolo di professore associato soltanto coloro che abbiano già conseguito il diploma di dottorato e i ricercatori di età non superiore a 33 anni.Sono ammessi alla partecipazione ai concorsi per il ruolo di professore ordinario soltanto i professori associati di età non superiore a 38 anni.
Titolo IIIIstituzione della Commissione per l’Ordinamento Costituzionale Universitario
Art. 6 – Istituzione della commissione
Con il presente decreto è istituita la Commissione per l’Ordinamento Costituzionale Universitario, con il compito di elaborare con urgenza, nel termine massimo e perentorio di 30 giorni, un progetto di decreto-legge per l’organizzazione di dettaglio della disciplina costituzionale delle università.La commissione ha, in particolare, il compito di fissare nuove norme, in accordo con gli artt. 33-34 della Costituzione, per l’immediata:a) disciplina dell’accesso all’istruzione universitaria, con particolare riguardo all’adozione di criteri stringenti, oggettivi e non discriminatori in merito a titoli e test d’ingresso. La commissione svolge il presente compito tenendo conto che, ad oggi, la tutela costituzionale del diritto allo studio non è più sufficientemente garantita dal mero possesso del diploma di istruzione secondaria;b) disciplina dei corsi di laurea, con l’obiettivo di evitarne la duplicazione e la superfetazione;c) disciplina del numero minimo e massimo del personale docente e non docente di ogni ateneo;d) disciplina del trattamento patrimoniale del personale docente e non docente di ogni ateneo.Nello svolgimento dei predetti compiti la Commissione si informa ai principi costituzionali di cui agli artt. 33 e 34 Cost. e alle linee guida indicate dal presente decreto.La Commissione è composta da 7 membri, di cui 2 nominati dal Presidente del Consiglio dei Ministri, 2 dal Ministro dell’Istruzione, 1 dal Presidente della Corte Costituzionale e 2 dal Presidente della Repubblica.Il progetto presentato dalla Commissione deve essere approvato dal Consiglio dei Ministri.
Art. 7 –Ambito di applicazione del Titolo II
Le disposizioni di cui al titolo II del presente decreto si applicheranno sino al momento dell’entrata in vigore della normativa di cui all’art.6
Art. 8 – Entrata in vigore
Il presente decreto entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sarà presentato alle Camere per la conversione in legge”.

Gazzolo Tommaso

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