Chiarimenti della Suprema Corte di Cassazione in ordine alla distinzione tra mutatio libelli ed emendatio libelli. Nota a Cass. Civ., Sez. Lavoro, 15 gennaio 2019 n. 834

Redazione 11/03/19
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di Alessio Antonelli*

* Avvocato

Sommario

1. Il caso

2 La soluzione adottata dalla Corte di Cassazione con la pronuncia n. 834/2019

3. L’art. 163 c.p.c. e l’art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c.

4. L’orientamento della Suprema Corte di Cassazione e della dottrina formatosi nel tempo sulla distinzione tra mutatio ed emendatio libelli

1. Il caso

Cass. civ. Sez. Lavoro, 15 gennaio 2019 n. 834

Un lavoratore adiva il Tribunale di Alessandria rappresentando di aver lavorato alle dipendenze della ditta Alfa dal 2 gennaio 2002 all’11 giugno 2012 con qualifica di operaio guardafili e mansioni di addetto al servizio di installazione e manutenzione delle linee di telefonia.

Il lavoratore esponeva che la ditta Alfa indicava quotidianamente i luoghi di lavoro in cui andavano svolti gli interventi da effettuarsi nelle zone destinate dai due subappaltatori, Beta S.p.A. (appaltatrice dei lavori di nota società operante nel campo della telefonia in provincia di Alessandria) e Gamma S.p.A. (appaltatrice di detta società operante nel campo della telefonia in provincia di Pavia), deducendo che il proprio impegno lavorativo era suddiviso al 50% fra subappalto Beta S.p.A. e subappalto Gamma S.p.A.

Il lavoratore, pertanto, lamentava di non aver percepito la retribuzione dall’aprile 2011 sino alla cessazione del rapporto, né le relative competenze, che determinava nel complessivo importo di Euro 53.984,54.

In ragione di ciò, il lavoratore conveniva in giudizio le predette società ai sensi dell’art. 29[1] del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, chiedendone la condanna, in solido fra loro, al pagamento dei predetti importi.

Le società si costituivano insistendo per il rigetto delle avverse pretese.

Alla luce del fallimento della ditta Alfa, medio tempore intervenuto, il lavoratore decideva di rinunciare alla domanda nei confronti di quest’ultima.

Il Tribunale di Alessandria, con sentenza pronunciata in data 7 ottobre 2013, rigettava il ricorso del lavoratore, il quale pertanto ricorreva in appello.

La Corte di Appello di Torino, tuttavia, confermava con la sentenza di primo grado.

Per quanto in questa sede di interesse, la Corte di Appello deduceva che il gravame proposto dal lavoratore avverso la decisione di prime cure presentava profili di inammissibilità poiché, mentre in primo grado era stata chiesta genericamente la condanna in solido delle società ai sensi dell’art. 29 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, nell’atto di appello era stata prospettata una ben diversa ripartizione dell’attività lavorativa nell’ambito dei due appalti, corredata dalla richiesta di accertamento del distinto svolgimento di attività in favore di ciascuna delle società e di una correlata diversa quantificazione dei crediti vantati nei confronti di ciascuna di esse.

Si versava, ad opinione della Corte di Appello, nell’ipotesi di mutatio libelli, essendo stata formulata una domanda nuova, fondata su fatti costitutivi radicalmente diversi e confliggenti con la prospettazione formulata in primo grado.

Nel merito, il gravame era in ogni caso da ritenersi infondato, in ragione della carenza di prova adeguata, anche sotto il profilo quantitativo (i) dei servizi ai quali il lavoratore era stato addetto o (ii) delle opere commissionate in favore dei committenti, ed in conseguenza dei quali egli aveva maturato il credito retributivo/contributivo rivendicato.

Avverso la decisione della Corte di Appello di Torino il lavoratore propone ricorso per Cassazione, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c.[2], atteso che la Corte di Appello avrebbe errato nel ravvisare un’inammissibile mutatio libelli al cospetto di una semplice diversa ripartizione del medesimo quantum debeatur; infatti la causa petendi era rimasta immutata, così come il petitum, integrato dalle retribuzioni non percepite.

[1] L’articolo 29 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 dispone: “Ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa.

In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento. Il committente che ha eseguito il pagamento è tenuto, ove previsto, ad assolvere gli obblighi del sostituto d’imposta ai sensi delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e può esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali.

L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda.

Quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto disposto dal comma 1, il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414 del codice di procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo. In tale ipotesi si applica il disposto dell’articolo 27, comma 2.

Fermo restando quando previsto dagli articoli 18 e 19, le disposizioni di cui al comma 2 non trovano applicazione qualora il committente sia una persona fisica che non esercita attività di impresa o professionale.

[2] L’art. 437 c.p.c. stabilisce che: “Nell’udienza il giudice incaricato fa la relazione orale della causa.

Il collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza.

Non sono ammesse nuove domande ed eccezioni. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. È salva la facoltà delle parti di deferire il giuramento decisorio in qualsiasi momento della causa.

Qualora ammetta le nuove prove, il collegio fissa, entro venti giorni, l’udienza nella quale esse debbono essere assunte e deve essere pronunziata la sentenza. In tal caso il collegio con la stessa ordinanza può adottare i provvedimenti di cui all’articolo 423.

Sono applicabili le disposizioni di cui ai commi secondo e terzo dell’articolo 429“.

2 La soluzione adottata dalla Corte di Cassazione con la pronuncia n. 834/2019

La Suprema Corte di Cassazione, nell’accogliere il motivo di impugnazione proposto dal lavoratore, ha fornito importanti chiarimenti in ordine alle differenze tra mutatio libelli ed emendatio libelli.

Si ha, in particolare, mutatio libelli qualora si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio, oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e, particolarmente, su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al Giudice un nuovo tema d’indagine e si spostino i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte.

Si è in presenza, invece, di semplice emendatio libelli quando si incida sulla causa petendi in modo che risulti modificata soltanto l’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere.

In questo contesto, chiarisce la Corte di Cassazione, la diversa quantificazione o specificazione della pretesa, fermi i fatti costitutivi di essa, non comporta prospettazione di una nuova causa petendi in aggiunta a quella dedotta in primo grado e, pertanto, non dà luogo ad una domanda nuova, come tale inammissibile in appello.

Sulla base dei suddetti principi, nella fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte il lavoratore ha semplicemente enunciato un criterio di interna divisione del credito vantato nei confronti delle società convenute senza apportare alcuna modifica all’originario petitum.

In particolare il ricorrente, in sede di appello, senza mutare i fatti costitutivi del diritto azionato né le situazioni giuridiche prospettate nel proprio atto introduttivo, ha indicato lo stesso petitum formulato nel giudizio di primo grado limitandosi a prospettarne una mera ripartizione interna fra i diversi condebitori solidali.

La Corte di Cassazione ha altresì delibato il secondo motivo di ricorso proposto dal lavoratore (violazione e falsa applicazione dell’art. 29 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276), rilevando come detta norma e la ratio che la sottende impongano di ritenere che l’ordinamento abbia inteso garantire il lavoratore circa il pagamento dei trattamenti retributivi dovuti in relazione all’appalto avendo, limitatamente ad esso, come debitore non solo il datore di lavoro, ma anche l’impresa appaltante e gli eventuali subappaltatori, in relazione al periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall’appalto.

La Suprema Corte afferma che il regime della solidarietà sancito dalla disposizione richiamata presuppone solo l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligazione a carico dei coobbligati solidali, posto che la ripartizione interna dei debiti attiene esclusivamente al rapporto intercorrente fra gli stessi.

Tale logica solidaristica che caratterizza il rapporto fra l’appaltatore ed il committente, sancita dall’art. 29 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, induce a ritenere non condivisibili le conclusioni cui è giunta la Corte di Appello di Torino, laddove essa ha posto a carico del lavoratore – ritenendolo non assolto – l’onere di provare l’entità dei debiti gravanti su ciascuna delle società appaltatrici convenute in giudizio, sul rilievo che il materiale probatorio acquisito non aveva consentito di ricostruire in termini analitici le prestazioni eseguite in favore della Beta S.p.A. e della Gamma S.p.A. e, dunque, i fatti costitutivi del diritto azionato.

Poiché, secondo la Corte di Cassazione, sono circostanze assolutamente non contestate (i) la sussistenza di un rapporto di appalto tra la società di telefonia e le società Beta S.p.A. e Gamma S.p.A., (ii) l’esistenza di un rapporto di subappalto tra queste ultime e Alfa, nonché (iii) lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte del ricorrente, l’eventuale incertezza di attribuzione dell’opera in termini quantitativi fra le società appaltatrici non può ricadere a carico del lavoratore, il quale correttamente si è limitato ad imputare la propria attività per l’intero periodo dedotto in lite, alle opere concesse in appalto a Beta S.p.A. e Gamma S.p.A. con allegazione che non postulava la necessità di svolgimento di ulteriori precisazioni, stante il vincolo di solidarietà che avvince il committente, l’appaltatore ed il subappaltatore in base al quale ciascuno di essi può essere costretto all’adempimento per la totalità, secondo quanto stabilito dall’art. 1292 c.c.[3]

[3] L’art. 1292 c.c. prevede che: “L’obbligazione è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, in modo che ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità e l’adempimento da parte di uno libera gli altri; oppure quando tra più creditori ciascuno ha diritto di chiedere l’adempimento dell’intera obbligazione e l’adempimento conseguito da uno di essi libera il debitore verso tutti i creditori”.

3. L’art. 163 c.p.c. e l’art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c.

La sentenza in commento, pur menzionando le norme del Codice di Procedura Civile dettate in materia di controversie individuali di lavoro (ed in particolare l’art. 437 c.p.c. che prevede il divieto di nuove domande ed eccezioni in sede di udienza di discussione), offre comunque lo spunto per una breve disamina dell’art. 163 c.p.c., avente ad oggetto il contenuto dell’atto di citazione, e l’art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c., disciplinante la possibilità di modificare e/o integrare le domande già articolate.

Ai sensi dell’art. 163, comma 3, n. 4, c.p.c., l’atto di citazione deve necessariamente contenere, tra l’altro, l’“esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni” (c.d. causa petendi).

In virtù del tenore letterale del citato art. 163 c.p.c. e tenuto altresì conto di quanto espressamente previsto dall’art. 125 c.p.c., a norma del quale la citazione deve necessariamente contenere “le ragioni della domanda e le conclusioni”, nell’atto di citazione non possono assolutamente mancare:

– i fatti storici posti a fondamento della domanda;

– le norme giuridiche che prevedono, da un lato, la fattispecie astratta, cui le particolari circostanze di causa possono essere ricondotte e, dall’altro, le conseguenze in diritto che discendono dalla realizzazione della fattispecie, coincidenti con la pretesa fatta valere in causa.

Ciò che effettivamente individua la causa petendi, tuttavia, è il collegamento con i fatti costitutivi del diritto, come evidenzia il Legislatore stesso, affiancando sempre il fatto al diritto (“dei fatti e degli elementi di diritto”, ex art. 163 c.p.c.); la causa petendi si risolve, dunque, nel riferimento concreto a quel fatto o quei fatti.

Causa petendi e fatti, pertanto, devono sempre essere affiancati in quanto assumono rilevanza solo se associati.

La ratio dell’art. 163 c.p.c. è quindi quella, da un lato, di consentire al Giudice di poter valutare in maniera compiuta tutti i fatti posti dall’attore a fondamento della propria domanda e, dall’altro, di assicurare al convenuto il legittimo diritto di difesa al medesimo spettante.

Da tale impostazione deriva, quindi, la conseguente formulazione del comma 6, n. 1, dell’art. 183 c.p.c., a norma del quale alle parti è concesso “un termine di ulteriori trenta giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte” (c.d. emendatio libelli).

Le parti, perciò, non sono legittimate ad introdurre nell’ambito del giudizio nuovi temi di indagine precedentemente non sottoposti all’analisi del Giudice, prospettando una causa petendi fondata su situazioni giuridiche in precedenza non esposte (c.d. mutatio libelli).

4. L’orientamento della Suprema Corte di Cassazione e della dottrina formatosi nel tempo sulla distinzione tra mutatio ed emendatio libelli

Secondo il consolidamento insegnamento degli Ermellini, al fine di poter comprendere appieno la distinzione tra mutatio libelli ed emendatio libelli occorre muovere dalla distinzione tra diritti auto-determinati ed etero-determinati.

In particolare, nel caso di diritti auto-determinati, quali ad esempio la proprietà o i diritti reali di godimento, l’allegazione di fatti nuovi costituisce mera emendatio libelli (così Cass. Civ. Sez. 1, 21 aprile 1999, n. 3950[4]).

Nel caso, invece, di diritti etero-determinati, quali ad esempio i diritti di credito, se muta il nucleo dei fatti collegati con la domanda, si ha mutatio libelli (ex multis, Cass. Civ., Sez. 3, 6 aprile 2001, n. 5152; Cass. Civ., Sez. 2, 8 settembre 1997, n. 8717; Cass. Civ., Sez. 1, 27 marzo 1995, n. 3592).

Nonostante tali fondamentali chiarimenti, la complessità e la delicatezza della tematica hanno reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte le quali, con la pronuncia n. 12310 del 15 giugno 2015, hanno tracciato i confini in ordine al binomio mutatio-emendatio libelli.

Con tale rivoluzionaria sentenza le Sezioni Unite, infatti, pur mantenendo salda l’impossibilità di introdurre una mutatio nel corso della lite, hanno ampliato p>emendatio, possibile purché la domanda, così modificata, risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio.

Come si legge nella citata pronuncia “la modificazione della domanda ammessa a norma dell’art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali.

In linea di principio, come si evince dalla massima appena citata, non v’è dubbio sulla contrapposizione teorica fra mutatio libelli (vietata) ed emendatio libelli (consentita), tuttavia la Corte sostiene che la mutatio libelli, da reputarsi in assoluto preclusa, si riscontrerebbe soltanto laddove “(…) si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum[5] diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, ed in particolare su di un fatto costitutivo differente, così ponendo al giudice un nuovo tema d’indagine e spostando i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo (…)

Più recentemente, gli Ermellini hanno avuto modo di confermare il predetto orientamento (Cass. Civ., Sez. 3, 18 gennaio 2016, n. 668).

Con l’ancora più attuale sentenza n. 22404 del 13 settembre 2018, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno ulteriormente chiarito che “precisare” e “modificare” (emendatio libelli) non vuol dire modificare totalmente la domanda o, tanto meno, formulare domande nuove, ma solamente rettificare (senza, di norma, mutare i fatti principali allegati) la portata delle domande con riguardo al medesimo petitum ed alla medesima causa petendi.

Se, invece, si “mutasse” uno o entrambi questi elementi, si darebbe luogo alla proposizione di una domanda nuova, il cui divieto è implicito nella formulazione dell’art. 183 c.p.c. e, d’altra parte, imposto dalle esigenze del contraddittorio[6].

Su tali tematiche è intervenuta anche autorevole dottrina secondo cui, in sede di precisazione, è consentito alla parte di chiarire le precedenti deduzioni ove oscure, di rendere esplicito l’oggetto della domanda, se necessario anche mediante allegazione di fatti c.d. secondari, in quanto tali inidonei ad un mutamento della domanda[7].

Più ampia portata riveste, invece, l’attività di modificazione che consente la deduzione di fatti principali nuovi, ammettendosi, pertanto, anche la sostituzione di alcuni elementi costitutivi, sempre che ciò non comporti un mutamento radicale del petitum e della causa petendi originariamente indicati, in particolare dovendosi escludere che possa essere inciso il “nucleo originario” dei fatti costitutivi allegati con gli atti introduttivi[8].

Al di fuori dei limiti sopraindicati, il mutamento della domanda o dell’eccezione è da considerarsi illegittimo poiché rientra nell’ipotesi della “mutatio libelli”, ossia il mutamento in senso proprio, ed il relativo vizio può essere rilevato d’ufficio dal Giudice[9].

[4] 4 Si legge nella citata pronuncia che: “La ‘causa petendi’ delle azioni a difesa della proprietà o della comproprietà è lo stesso diritto vantato dall’attore e non il titolo (usucapione, contratto, successione, ecc.) che ne costituisce la fonte; sicché, la specificazione del modo di acquisto del diritto reale a difesa del quale si agisce non comporta, in quanto rivolta a determinare più compiutamente la ‘causa petendi’, mutamento della domanda e della situazione giuridica con essa fatta valere e non dà luogo in appello alla proposizione di una domanda, nuova preclusa dall’art. 345 c.p.c.”.

[5] 5 Il petitum si intende – sotto il profilo formale – come provvedimento giurisdizionale richiesto, e – sotto l’aspetto sostanziale – come bene della vita di cui si chiede il riconoscimento o la negazione (Cass. Civ., Sez. 1, n. 20294/2014; Cass. Civ. Sez. 3, n. 18783/2009).

[6] Sul punto, G. FINOCCHIARO ed ENRICA POLI in Commentario del codice di procedura civile, tomo II, Milano, 2012, pag. 210; Cfr. CARRATTA-TARUFFO – Poteri del giudice: art 112-120, in Commentario del Codice di procedura civile a cura di Sergio Chiarloni, Libro primo: Disposizioni generali, Bologna, 2011, pag. 87-88; COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, Lezioni sul processo civile, I, Bologna, 2011; pag. 409, in cui per TARUFFO la precisazione consiste nell’aggiunta di specificazioni alle domande o eccezioni già formulate, ma può ricomprendere anche l’indicazione di ulteriori fatti secondari e circostanze collaterali idonee a chiarire il contenuto delle allegazioni relative ai fatti principali di causa. Parte della dottrina reputa, invece, la mera precisazione delle domande e delle eccezioni deve intendersi liberamente consentita per tutto il corso del processo, ammettendosi inoltre che in tale ambito possano farsi rientrare “le allegazioni che si traducono nella specificazione o nella modificazione di elementi del tutto marginali relativi ai fatti principali”, v. BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, in Giur. It, 1996, IV, pag. 276 ss.

[7] Al riguardo si veda A. PROTO PISANI, Dell’esercizio dell’azione, in Comm. c.p.c. diretto da E. Allorio, I, Torino, 1973, pag. 1059 e seguenti; G. GIANNOZZI, La modificazione della domanda, Milano, 1958, pag. 79; CONSOLO, Domanda giudiziale, in Digesto civ., VII, Torino, 1991, pag. 36 e seguenti.

[8] Occorre chiarire a tal proposito la distinzione tra fatti principali e fatti secondari. In TARUFFO, La prova nel processo civile, Milano, 2012, p. 32-33 si legge che i fatti principali comprendono i fatti costitutivi o i fatti c.d. “nuovi”, mentre i fatti secondari sono delle circostanze che il giudice potrà utilizzare come fonti di prova. In G. FRUS, Il principio di non contestazione tra innovazioni normative, interpretazioni dottrinali e applicazioni giurisprudenziali: soggetti, oggetto e modalità della contestazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2015, 1, pag. 75 si legge che i fatti principali sono “quelli immediatamente rilevanti per la singola fattispecie, quali fatti costitutivi posti a fondamento del diritto dedotto in giudizio, oppure quali fatti impeditivi, modificativi o estintivi, posti a fondamento di un’eccezione”; i fatti secondari, invece, “sono fatti dedotti in giudizio con esclusiva funzione probatoria, al fine di dimostrare l’esistenza dei fatti principali”.

[9] CARRATTA-TARUFFO – Poteri del giudice: art 112-120, in Commentario del Codice di procedura civile a cura di Sergio Chiarloni, Libro primo: Disposizioni generali, Bologna, 2011, pag. 91 e seguenti, in particolare secondo CARRATTA la differenza della modificazione dalla precisazione sarebbe data dalla circostanza che con la prima attività la parte allega nuovi fatti principali rispetto a quelli originari posti alla base della domanda o dell’eccezione ma in modo tale da non comportare anche un mutamento della causa petendi e del petitum, mentre con la seconda si limita o ad esplicitare il contenuto dei fatti (principali) già allegati o ad allegare nuovi fatti secondari.

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