Cessazione del rapporto di agenzia ed art. 1751 c.c.

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Art. 1751 c.c.: cessazione del rapporto dell’agente ed indennità

L’art. 1751 c.c. dispone che “All’atto della cessazione del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni:

–         l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;

–         il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti”.

Lo stesso articolo stabilisce poi che “l’importo dell’indennità non può superare una cifra equivalente ad un’indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni e, se il contratto risale a meno di cinque anni, sulla media del periodo in questione”.

Per il penultimo comma dell’art. 1751 c.c., le disposizioni ivi contenute “sono inderogabili a svantaggio dell’agente”.

Il testo attualmente vigente della norma citata rappresenta il risultato di successivi interventi del legislatore, che, dopo aver modificato l’originaria norma codicistica con il D. Lgs. 10 settembre 1991, n. 303 (emanato in attuazione della dir. 86/653/CEE relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti), a seguito di procedura di infrazione avviata dalla Commissione delle Comunità Europee ha ancora innovato tale disciplina con il D. Lgs. 15 febbraio 1999, n. 65, allo scopo di dare più fedele attuazione alla direttiva comunitaria in materia, come stabilito dalla L. 128/1998.

 

 

Orientamenti giurisprudenziali

In giurisprudenza si è posta la questione del rapporto tra la disciplina dettata dal codice civile dopo la modifica del 1991 e gli accordi economici collettivi stipulati dalle organizzazioni di categoria nell’anno 1992, che prevedono-indipendentemente dai presupposti inerenti all’attività dell’agente richiesti dall’art. 1751 c.c. – la corresponsione di un’indennità determinata senza alcun riferimento specifico all’incremento degli affari procurato dall’agente, secondo percentuali dei compensi ricevuti nel corso del rapporto.

Secondo la Cass. civ., 29 luglio 2002 n. 11189, la disciplina legale posta dall’art. 1751 c.c., in quanto fa riferimento al criterio dell’equità non solo per determinare quando l’indennità deve essere erogata, ma anche per la determinazione dell’indennità stessa, deve ritenersi prevalente sulla contrattazione collettiva tutte le volte che l’applicazione del criterio stabilito dalla legge conduca a un trattamento in concreto più favorevole all’agente, restando irrilevante una valutazione ex ante, della maggior convenienza della regolamentazione pattizia rispetto a quella legale.

L’orientamento prevalente, espresso da Cass. 20 agosto 2000 n. 11402, 21 ottobre 2003 n. 15726, 7 febbraio 2004 n. 2383, 27 marzo 2004 n. 6162, afferma invece che, essendo consentita dalla legge la deroga non pregiudizievole per l’agente, la valutazione circa il carattere di maggior favore, o non, del trattamento di fine rapporto previsto dagli accordi collettivi deve essere effettuata, non in concreto ed sulla base della misura dell’indennità ritenuta liquidabile dal giudice, ma ex ante, sulla base del confronto tra la regolamentazione legale e quella contrattuale; e ciò anche in considerazione del fatto che concettualmente la nozione di derogabilità presuppone un raffronto tra norme e non di risultati concreti della loro applicazione.

Con ordinanza 18 ottobre 2004 n. 20410 la Corte di cassazione ha ritenuto necessario investire la Corte di giustizia delle Comunità europee della questione pregiudiziale relativa all’interpretazione degli artt. 17 e 19 della direttiva 86/653 del Consiglio del 18 dicembre 1986; apparendo necessario chiarire, in particolare, se, con riguardo alle finalità dell’art. 17 cit. il successivo art. 19 della medesima direttiva sia interpretabile nel senso che la normativa nazionale di attuazione possa consentire che un accordo economico collettivo preveda, invece che un’indennità dovuta all’agente nel concorso delle condizioni previste dal paragrafo n. 2 dell’art. 17 cit. e liquidabile secondo i criteri desumibili dal medesimo, un’indennità che sia determinata senza alcun riferimento specifico all’incremento degli affari procurato dall’agente, sulla base di determinate percentuali dei compensi ricevuti nel corso del rapporto, sicché la stessa indennità, anche in presenza della misura massima dei presupposti cui la direttiva collega il diritto all’indennità, in molti casi sia liquidata in misura inferiore a quella massima prevista dalla direttiva.

Con sentenza 23 marzo 2006, in causa C-465/04, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha deciso sulla domanda di pronuncia pregiudiziale statuendo che:

– l’art. 19 della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1986, 86/653/CEE, deve essere interpretato nel senso che l’indennità di cessazione del rapporto che risulta dall’applicazione dell’art. 17, n. 2, di tale direttiva non può essere sostituita, in applicazione di un accordo collettivo, da un’indennità determinata secondo criteri diversi da quelli fissati da quest’ultima disposizione, a meno che non sia provato che l’applicazione di tale accordo garantisce, in ogni caso, all’agente commerciale un’indennità pari o superiore a quella che risulterebbe dall’applicazione della detta disposizione.

– all’interno dell’ambito fissato dall’art. 17, n. 2, della direttiva 86/653, gli Stati membri godono di un potere discrezionale che essi sono liberi di esercitare, in particolare, con riferimento al criterio dell’equità.

La decisione contiene in particolare le seguenti proposizioni.

L’art. 19 della direttiva prevede la possibilità per le parti di derogare alle disposizioni dell’art. 17 prima della scadenza del contratto, a condizione che la deroga prevista non sia sfavorevole all’agente commerciale. E’ quindi giocoforza constatare che la natura sfavorevole o meno della detta deroga deve essere valutata al momento in cui le parti la prevedono. Queste ultime non possono convenire una deroga di cui esse ignorano se si rivelerà, alla cessazione del contratto, a favore ovvero a scapito dell’agente commerciale (n. 25).

L’art. 19 va, pertanto, interpretato nel senso che una deroga alle disposizioni dell’art. 17 può essere ammessa solo se, ex ante, é escluso che essa risulterà, alla cessazione del contratto, a detrimento dell’agente commerciale (n. 27).

Ciò si verificherebbe, per quanto riguarda l’accordo economico collettivo del 1992, nell’ipotesi in cui potesse essere dimostrato che l’applicazione di tale accordo non è mai sfavorevole all’agente commerciale, in quanto esso garantirebbe sistematicamente, alla luce di tutti i rapporti giuridici che possono essere instaurati tra le parti di un contratto di agenzia commerciale, un’indennità superiore o almeno pari a quella che risulterebbe dall’applicazione dell’art. 17 della direttiva (n. 28).

Il solo fatto che il detto accordo possa essere favorevole all’agente commerciale nel caso in cui quest’ultimo abbia diritto, in applicazione dei criteri di cui all’art. 17, n. 2, della direttiva, solo ad un’indennità molto ridotta, o addirittura non abbia diritto ad alcuna indennità, non può bastare a dimostrare che esso non deroga alle disposizioni degli artt. 17 e 18 della direttiva a detrimento dell’agente commerciale (n. 29).

L’interpretazione della Corte europea comporta che l’indennità contemplata dall’accordo economico collettivo del 1992 deve rappresentare per l’agente un trattamento minimo garantito, che può essere considerato di maggior favore soltanto nel caso che, in concreto, non spetti all’agente l’indennità di legge in misura superiore. Le norme del trattato istitutivo dell’Unione europea obbligano i giudici nazionali ad interpretare la norma interna, ove risulti suscettibile di più opzioni interpretative, in modo che risulti conforme al diritto comunitario, operando del resto l’obbligo di interpretare l’art. 1751 c.c. in modo conforme alla Costituzione.

Come già rilevato da Cass. civ., con sentenza n. 21309 del 3 ottobre 2006, il sopra richiamato contrasto giurisprudenziale deve essere superato con l’abbandono dell’indirizzo maggioritario (seguito dalla sentenza impugnata) e l’affermazione del seguente principio di diritto: “l’art. 1751 c.c., comma 6, si interpreta nel senso che il giudice deve sempre applicare la normativa che assicuri all’agente, alla luce delle vicende del rapporto concluso, il risultato migliore, siccome la prevista inderogabilità a svantaggio dell’agente comporta che l’importo determinato dal giudice ai sensi della normativa legale deve prevalere su quello, inferiore, spettante in applicazione di regole pattizie, individuali o collettive”.

Ne consegue che, come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di ritenere (sentenze 11189/2002 e 5467/2000), l’art. 1751 c.c. ha inteso condizionare l’attribuzione dell’indennità non soltanto alla permanenza, per il preponente, di sostanziali vantaggi derivanti dall’attività di promozione degli affari compiuta dall’agente, ma anche alla rispondenza ad equità dell’attribuzione, in considerazione delle circostanze del caso concreto ed in particolare delle provvigioni da lui perse. L’equità, pertanto, in presenza del presupposto del vantaggio del preponente, impone al giudice di merito la valutazione di tutte le circostanze del caso concreto sia ai fini dell’an dell’indennità, sia del quantum di essa.

Staiano Rocchina

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