Cenni sulla responsabilita’ derivante dallo svolgimento di attivita’ pericolose anche in relazione alla sua applicabilita’ alla pubblica amministrazione

Redazione 19/09/04
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di Gentilini Gabriele
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La norma contenuta nell’art. 2050 c.c. dispone che chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
Con tale norma pertanto viene stabilita una presunzione di responsabilità civile extracontrattuale la quale può essere vinta solo con una prova liberatoria particolarmente rigorosa, essendo posto a carico dell’esercente l’attività pericolosa l’onere di dimostrare l’adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno.
Non basta comunque dimostrare la prova negativa di non avere commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, bensì occorre la prova positiva di avere impiegato ogni cura e misura atta ad impedire l’evento dannoso in modo che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre la prova liberatoria solo nel caso in cui la sua rilevanza od incidenza sia tale che il nesso causale tra attività pericolosa ed evento sia escluso in modo certo.
L’orientamento giurisprudenziale di massima prevede che devono essere ritenute pericolose le attività previste dall’art. 46 ss. Del T.u.l.p.s., le attività considerate in materia di prevenzione degli infortuni e per la tutela dell’incolumità pubblica, oltre che a tutte quelle altre attività che, anche se non specificate o disciplinate, abbiano comunque una pericolosità intrinseca od in ogni caso connessa alle modalità di esercizio o dai mezzi di lavoro impiegati (Cass. 93/8069) compresa l’attività edilizia la quale, a causa dell’impiego di particolari attrezzature, quali impalcature, ponteggi, ecc., impone a chi la esercita un obbligo di particolare prudenza al fine di evitare danni a persone o cose.

Pertanto costituiscono attività pericolose quelle che comportano una rilevante probabilità (con riferimento ad un criterio statistico) del verificarsi del danno, per la loro stessa natura o per le caratteristiche degli strumenti utilizzati (Cass. 90/7571), non solo nel caso di danno come conseguenza di un’azione, ma anche come conseguenza di un’azione, ma anche nell’ipotesi di danno derivato da omissione di cautele.

La norma contenuta nell’art. 2050 c.c. si discosta rispetto alla più generale norma dettata dall’art. 2043 c.c.. Si tratta infatti di una norma di carattere eccezionale la quale concerne tutte quelle attività che, data la loro particolare natura dei mezzi utilizzati, presentano una notevole probabilità di generare danni.
In ogni caso, si tratta di attività comunque il cui svolgersi è ritenuto lecito dalla odierna società civile poiché secondo un criterio utilitaristico, sono da considerarsi necessarie per lo sviluppo del benessere generale.

Da una lettura storica dell’interpretazione della norma in questione può considerarsi che dapprima il pensiero dottrinale e la prevalente giurisprudenza, avevano mantenuto il senso di una responsabilità soggettiva dato che si era tenuto conto soprattutto del comportamento dell’esercente l’attività pericolosa il quale, se non prova, di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno è responsabile.
Dal canto suo la giurisprudenza della cassazione sulle prime aveva interpretato tale tipo di responsabilità come soggettiva tenuto conto che nel caso si fosse verificato un danno in concreto, a causa dello svolgimento di un’attività pericolosa, poteva essere supposto che l’esercente stesso avesse potuto omettere colpevolmente le necessarie cautele.
Secondo l’orientamento più recente postosi in dottrina, può sostenersi che responsabilità oggettiva non significa responsabilità assoluta. La responsabilità dell’esercente un’attività pericolosa è identificabile quale responsabilità per rischio oggettivamente evitabile.
Per quanto riguarda il rapporto tra la norma vista e le altre norme sulla responsabilità civile aquiliana può notarsi un certo parallelismo tra gli artt. 2050 e 2051 c.c. il quale ultimo disciplina la responsabilità per danni causati da cose in custodia. Per quanto ci riguarda riteniamo di concordare con quella dottrina la quale sostiene che chi esercita attività pericolose può anche essere considerato custode delle cose causanti il danno, secondo l’idea del cumulo delle responsabilità.
Ad esempio la pubblica amministrazione la quale esercita un’attività edile (oppure nel caso in cui l’attività edilizia sia esercitata da un’impresa appaltataria o concessionaria), è da ritenersi responsabile in base all’art. 2050 c.c. nei confronti di un terzo che venga colpito da un mattone in caduta libera. Se quel terzo dovesse cadere in una buca di calce viva si applicherebbe l’art. 2051 c.c..
Pertanto, come sostenuto dalla dominante dottrina non è corretto parlare di responsabilità derivante da cose pericolose (come invece certa giurisprudenza sostiene).

Nel caso della responsabilità civile ex art. 2050 c.c. si tratta in genere, ma non necessariamente, di attività d’impresa svolgentesi attraverso una serie continuata e coordinata di atti.
Per quanto una trascorsa corrente dottrinale sostenesse che ogni attività è per sé stessa idonea a causare danno ad altri, ciò che sembra rilevante al fine di identificare l’attività pericolosa è piuttosto il compimento di una serie di atti tra loro coordinati.

Come ribadito dalla prevalente dottrina in materia il concetto di attività, di per sé, non è necessariamente funzionale a qualsiasi attività svolta, anche riguardo ad attività svolte dalla pubblica amministrazione (che non sempre agisce in veste di imprenditore).
Pertanto la pericolosità dell’attività consiste nella potenzialità lesiva in grado superiore al normale. E in questa sede entra in gioco, secondo anche le teorie degli studiosi di analisi economica del diritto, un criterio di identificazione tra pericolosità e statistica e cioè un’attività può ritenersi pericolosa quando statisticamente provoca molti sinistri e quando è potenziale causa di sinistri molto gravi. Su questa considerazione si inserisce anche l’elemento temporale in base al quale un’attività che si considera pericolosa in una certa epoca può non considerarsi più pericolosa in un’epoca successiva.

Secondo la giurisprudenza la potenzialità dannosa di un’attività deve essere accertata secondo il criterio della normalità media, da desumersi da dati statistici e tecnici, giusta le nozioni di comune esperienza (Cass. 1894 del 13/7/1960).

Ovviamente, per quanto menzionato, la pericolosità e deducibile in base a degli indicatori che possono riferirsi, a titolo esemplificativo, nella chiara previsione normativa che una certa attività sia sottoposta all’obbligo di adottare determinate misure precauzionali; l’eventuale necessità che per l’esercizio di determinate attività sia richiesta un’autorizzazione amministrativa; l’elaborazione di indici di rischio da parte delle imprese di assicurazione.

In tema di responsabilità della pubblica amministrazione derivante dallo svolgimento di attività pericolose.
E’ pacifico ormai sia in dottrina che in giurisprudenza che la presunzione di responsabilità per i danni derivanti dall’esercizio di attività pericolose opera anche nei confronti della pubblica amministrazione.
Tuttavia vi sono state alcune pronunce di legittimità secondo le quali alle attività della pubblica amministrazione che, come quella militare, siano da essa svolte per soddisfare imprescindibili esigenze della collettività nelle quali si identificano le stesse finalità dell’ente pubblico, non è applicabile la presunzione di responsabilità stabilita dall’art. 2050 c.c., dovendosi escludere nel caso delle predette attività l’esistenza di un fine utilitario proprio dell’amministrazione, e non potendo il giudice sindacare l’idoneità e sufficienza dei mezzi e delle misure da essa poste in essere nell’organizzare i suoi servizi e le sue attività.

Ovviamente tale retaggio del passato è oggi ampiamente superato dal momento che la pubblica amministrazione è sottoposta alla normativa in esame in quanto per potersi liberare della responsabilità del danno da essa causato nello svolgimento di un’attività pericolosa, deve conferire la prova liberatoria richiesta dall’art. 2050 c.c. e cioè deve dimostrare di avere adottato tutte le cautele idonee ad evitare il danno.
Secondo una parte della giurisprudenza l’art. 2050 c.c. sarebbe applicabile alla pubblica amministrazione, sempreché si tratti di enti pubblici economici od imprese pubbliche, ricollegandosi l’ipotesi di responsabilità in questione all’esercizio di un’attività d’impresa svolta da un soggetto che nell’espletamento della stessa si pone come soggetto pubblico.
Si ritiene che, sulla base sempre della giurisprudenza, la norma contenuta nell’art. 2050 c.c., postula una successione continua e ripetuta di atti che si svolge nel tempo e che rivela una notevole potenzialità di danno superiore al normale ed apprezzabile in un momento anteriore all’evento dannoso, così da consentire all’operatore la predisposizione di adeguate misure di prevenzione e da costituire il parametro di commisurazione della diligenza dovuta, la cui mancanza integra la responsabilità di cui all’art. 2050 c.c., anche qualora tali atti si coordinino non già all’esercizio di un’impresa, bensì semplicemente ad un fine tipico oggettivamente pericoloso.

A livello giurisprudenziale sono state individuate alcune attività dalle quali, data la loro intrinseca pericolosità, deriva una responsabilità civile ex art. 2050 c.c..
Caso specifico è quello in cui le Ferrovie dello Stato, all’epoca dell’accadimento ancora Azienda Autonoma del Ministero dei trasporti, quale gestore di una sottostazione elettrica, dotata di selezionatori ad alta tensione destinata a fornire energia elettrica per il traffico ferroviario (Cass. 84/1393).
Altro caso riguarda l’accensione di fuochi d’artificio per i quali, ai sensi del t.u.l.p.s. è necessaria, così come per le altre attività pericolose, la licenza -autorizzazione- dell’autorità di pubblica sicurezza, considerato che a livello locale è l’ufficio di pubblica sicurezza ed in sua mancanza il sindaco. L’accensione dei fuochi pirotecnici la quale comporti un danno a terzi e pertanto una lesione di un diritto soggettivo privato alla propria incolumità, ha come conseguenza una responsabilità solidale ex art. 2050 c.c. tra l’Autorità di pubblica sicurezza e colui che ha acceso i fuochi.
Per quanto riguarda la gestione di reti elettriche a bassa tensione, la quale di per sé, secondo l’orientamento prevalente, non costituisce attività pericolosa, tuttavia in alcune ipotesi può essere considerata attività pericolosa e di conseguenza può dare luogo alla responsabilità dell’art. 2050 c.c., quando in determinate circostanze e per le particolari modalità di esercizio, è idonea a promuovere la serie causale determinativa di eventi dannosi come sostenuto da certa giurisprudenza di legittimità la quale, altresì, con riferimento alla gestione di una conduttura aerea di energia elettrica, ancorché a bassa tensione, ha ritenuto che l’inosservanza da parte dell’Enel delle misure di salvaguardia disciplinate dalla normativa di settore, al fine di evitare folgorazioni, come nello specifico caso la distanza minima dai fabbricati anche se edificati un un’epoca successiva all’installazione dell’elettrodotto, implica la responsabilità risarcitoria a carico dell’ente gestore le rete per i danni che si pongano in derivazione causale da detta inosservanza secondo l’art. 2050 c.c., a prescindere dal fatto che la situazione di pericolo fosse occulta od avvertibile da parte del danneggiato e senza che si possa fare carico a quest’ultimo di non avere sopperito a tale situazione con personali cautele (Cass. 89/2584).
Un’attività dalla la quale, ad esempio, deriva una responsabilità civile ex art. 2050 c.c. riguarda l’art. 15 del d.lgvo 196/2003. Ciò rientra nelle ipotesi prima menzionate relative agli indici di pericolosità per i quali la pericolosità stessa è riscontrabile quando vi è una previsione normativa secondo la quale una certa attività sia sottoposta all’obbligo di adottare determinate misure precauzionali. Infatti chi causa un danno ad altri, recita la citata norma, per effetto del trattamento dei dati personali, è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 c.c.. Perciò il titolare del trattamento è obbligato a risarcire il danno se non dimostra di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno stesso.
I danni, come la perdita di dati, la loro distruzione, ecc., che possano derivare da cause apparentemente sconosciute sono a carico di chi esercita il trattamento dei dati personali, qualora lo stesso non dimostri di avere predisposto tutte quelle che sono le necessarie cautele da porre in essere (art. 33 citato d.lgvo 196/2003).
E’ necessario comunque operare sempre una valutazione, nel caso concreto, delle conoscenze tecniche idonee ad evitare che si verifichi il danno. Infatti nel caso della tutela della riservatezza dei dati, il titolare del trattamento, qualora abbia adottato tutte le cosiddette misure minime di sicurezza previste per legge potrà non essere penalmente responsabile. Ma potrà esserlo civilmente qualora, al di là delle misure minime, siano note misure di sicurezza in grado di garantire una maggiore efficacia.
Firenze, 15 maggio 2004

Redazione

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