Breve analisi del reato di stalking a seguito delle recenti pronunce della Suprema Corte

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Il reato di stalking o, più precisamente, quello di atti persecutori, è una fattispecie normativa introdotta nel nostro ordinamento dal D.L. n. 11/2009, convertito dalla L. n. 38/2009, con la quale è stato inserito nel codice penale nel capo III del titolo XII, tra i delitti contro la persona, l’art. 612-bis. Con l’introduzione di questa fattispecie normativa, l’intento principale che ha voluto perseguire il legislatore nazionale è stato quello di fornire una risposta sanzionatoria a tutti quei comportamenti che venivano inquadrati e disciplinati da altre e meno gravi fattispecie di delitti, come nel caso specifico la minaccia, violenza privata, ecc. Queste ultime norme, infatti, si erano dimostrate spesso incomplete, inidonee a garantire una tutela adeguata alle vittime, anche a fronte di condotte illecite caratterizzate da una maggiore gravità, sia per la reiterazione delle stesse, sia per i loro effetti negativi sulla sfera privata e familiare delle persone offese. Tali fattispecie di reato, quindi, non andavano a proteggere e ristorare i diritti fondamentali, tra i quali la libertà individuale e psichica.

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Autori e vittime di reato

Il presente volume, pubblicato grazie al sostegno economico dell’Università degli Studi di Milano (Piano di sostegno alla ricerca 2016/2017, azione D), raccoglie i contributi, rivisti ed aggiornati, presentati al convegno internazionale del 7 giugno 2016, al fine di consentire, anche a coloro che non hanno potuto presenziare all’evento, di vedere raccolte alcune delle relazioni, che sono confluite in un testo scritto, e i posters scientifici che sono stati esposti, in quella giornata, a Palazzo Greppi (Milano) e successivamente pubblicati sulla Rivista giuridica Diritto Penale Contemporaneo (www.penalecontemporaneo.it). Raffaele Bianchetti è un giurista, specialista in criminologia clinica; lavora come ricercatore presso il Dipartimento di Scienze giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università degli Studi di Milano e come magistrato onorario presso il Tribunale di Milano. Da anni insegna Criminologia e Criminalistica e svolge attività didattica all’interno di corsi di formazione post-lauream e di alta formazione in Italia e all’estero; partecipa come relatore a convegni, congressi e incontri di studio nazionali ed internazionali; fa parte di gruppi di ricerca, anche di natura transnazionale, coordinandone alcuni come responsabile dei progetti. È autore di scritti monografici e di pubblicazioni giuridiche di stampo criminologico, alcune delle quali sono edite all’interno di opere collettanee e di riviste scientifiche specializzate. Membro componente di comitati scientifici e di comitati redazionali, è condirettore  di due collane editoriali.Luca Lupária Professore Ordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Roma Tre e visiting professor  in Atenei europei e americani, è autore di scritti monografici su temi centrali della giustizia penale e di oltre cento pubblicazioni scientifiche, apparse anche su riviste straniere e volumi internazionali. È responsabile di programmi e gruppi di ricerca transnazionali sui diritti delle vittime, sulle garanzie europee dell’imputato e   sui rimedi all’errore giudiziario. Condirettore di collane editoriali, è vice-direttore della rivista “Diritto penale contemporaneo” .Elena Mariani è laureata in giurisprudenza e specialista in criminologia clinica. Da oltre dieci anni collabora con la Catte- dra di Criminologia e Criminalistica del Dipartimento di Scienze giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università degli Studi di Milano, effettuando seminari e attività di ricerca sui temi della giustizia penale minorile, della vittimologia, dell’esecuzione penale e delle misure di prevenzione. Svolge da anni attività didattica in corsi di formazione post-lauream e di alta formazione presso diversi atenei italiani. È autrice di una monografia in tema di sistema sanzionatorio minorile e per gli adulti edita in questa Collana e di varie pubblicazioni in materia criminologica, edite all’interno di opere collettanee e di riviste scientifiche specializzate. Attualmente   è componente esperto del Tribunale di Sorveglianza di Milano e dottoranda di ricerca in diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano. 

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Il reato di stalking

L’art. 612-bis c.p., nella specie, punisce chiunque “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita“.

Con riguardo alla sua natura giuridica, il reato di atti persecutori individua una fattispecie plurioffensiva, tesa a salvaguardare sia la libertà morale della vittima che il suo stato di salute. Lo stalking, così come affermato in una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione[1], si caratterizza per il suo carattere abituale, dove l’evento di danno deve necessariamente rinvenirsi in una modifica delle abitudini di vita della persona offesa e nell’ingenerarsi nella stessa di uno stato d’ansia, grave e perdurante. Oltre a ciò, tale fattispecie criminosa distingue al suo interno due alternative, ciascuna delle quali è idonea a realizzare il delitto. Difatti, ai fini della sua configurabilità, non è essenziale il mutamento di quelle che sono le normali abitudini di vita della vittima, essendo sufficiente che la condotta incriminata dell’agente abbia indotto nella stessa vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità[2]. Ci si trova di fronte ad un reato di evento, per l’esistenza del quale è necessario che sia verificata l’esistenza di un nesso di causalità certo fra le reiterate condotte di minaccia o molestia e tre possibili conseguenze alternative, ognuna delle quali è sufficiente a delineare il delitto ma che, se realizzate cumulativamente, fanno parte pur sempre nella medesima fattispecie incriminatrice. Anche la stessa giurisprudenza ha concluso ritenendo che si tratti di un reato abituale di evento, a struttura causale e non di mera condotta che si caratterizza, per la produzione di un evento di danno (consistente, appunto, nell’alterazione delle abitudini di vita, in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero, di un fondato timore per l’incolumità propria, di un prossimo congiunto o di una persona alla quale il soggetto è legato da relazione affettiva), per la cui sussistenza, dunque, è sufficiente il verificarsi di uno degli eventi previsti[3]. Nella specie, la prima condotta consiste nel cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura; la seconda, invece, si realizza ingenerando un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata alla vittima da relazione affettiva; la terza, infine, si estrinseca nel costringere la vittima ad alterare le proprie scelte o abitudini di vita[4]. La reiterazione delle condotte, tuttavia, non è sufficiente da sola all’integrazione del reato, occorrendo che le stesse siano idonee a cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, in base ad una valutazione di idoneità condotta in concreto dal giudice, sulla base della dimostrazione del nesso causale tra la condotta posta in essere dall’agente e i turbamenti derivati alla vita privata della vittima[5]. Pertanto, affinché possa dirsi configurabile il reato in oggetto deve essere accertato l’effetto della complessiva e reiterata condotta persecutoria del soggetto agente sulla psiche e lo stile di vita della vittima, in seguito al disagio progressivamente accumulato nel tempo da quest’ultima, a nulla rilevando un eventuale atteggiamento conciliante della persona offesa. In particolar modo, il numero minimo di condotte moleste o minacciose necessarie ad integrare il reato di atti persecutori è due, se queste sono idonee ad alterare, anche non significamente, le abitudini di vita di un soggetto o a provocare nella sfera di quest’ultimo un turbamento psicologico/emotivo tale da temere per l’incolumità propria o di un proprio congiunto o di una persona legata da una relazione affettiva.

Le pronunce della Suprema Corte

In sostanza, quindi, così come espresso dai giudici di legittimità, si è in presenza della fattispecie delittuosa di atti persecutori anche quando le singole condotte siano reiterate in un arco temporale molto ristretto, purché le condotte lesive considerate siano autonome e che la loro reiterazione, anche se concentrate in una lasso di tempo molto breve (ad esempio in un solo giorno), costituisca causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice[6]. Lo stalking è quindi un reato a dolo generico, che richiede la rappresentazione dell’evento quale conseguenza della condotta persecutoria reiterata, ossessiva ed abituale volontariamente perseguita dallo stalker[7]. Non occorre infatti una rappresentazione anticipata di quello che potrebbe essere il risultato ultimo, quanto, piuttosto, la costante consapevolezza, nello sviluppo progressivo della situazione, delle precedenti azioni criminose e attacchi compiuti e dell’apporto che ciascuno di essi va ad arrecare all’interesse protetto, insita nella perdurante aggressione da parte del soggetto agente alla sfera privata della persona offesa[8]. Inoltre, con riferimento all’evento del reato, a parere dei giudici della Suprema Corte, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere necessariamente ancorata a elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente e anche da quest’ultima, tenendo in considerazione tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata[9].

Recentemente, il reato di stalking è stato oggetto di un intervento normativo nel quadro della prevenzione dei reati. Le modifiche si inseriscono in un settore che è già oggetto di notevoli perplessità in dottrina[10], anche in considerazione del tipo di misure afflittive previste dall’ordinamento, la cui applicazione prescinde dall’accertamento della commissione di reati. Infatti, nel caso di atti persecutori si è in presenza di un elemento di incertezza ulteriore rispetto ai presupposti delle misure di prevenzione, dettato in modo particolare dai rilievi concernenti la sussistenza dei requisiti sostanziali previsti dall’art. 612-bis c.p., con particolare riguardo all’ampia discrezionalità del giudice nella decisione in merito all’accertamento degli elementi costitutivi, fondatezza del timore del soggetto passivo, stato di ansia ovvero di paura, o, ancora, rilevanza penale dell’alterazione delle abitudini di vita della persona offesa. Appare opportuno altresì evidenziare che la vittima di atti persecutori beneficia di diverse tutele preventive. La norma dell’art. 612-bis c.p., infatti, oltre a tutelare la vittima “principale”, oggetto delle molestie dello stalker, estende la propria protezione anche a quanti sono legati alla stessa da rapporti di parentela (prossimi congiunti) o da relazioni affettive. Inoltre, dal punto di vista probatorio, la non necessità del riscontro di tale stato di ansia e di paura attraverso una certificazione sanitaria, in ipotesi attestante una “patologia” determinata dal comportamento persecutorio (ad esempio, un certificato medico attestante di una sindrome ansioso depressiva). La prova dell’alterazione, infatti, può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante.

Per quanto attiene al bene giuridico protetto, come si evince dalla stessa collocazione tra i delitti contro la persona, l’art. 612-bi c.p. va a tutelare innanzitutto la libertà morale, intesa quale facoltà dell’individuo di autodeterminarsi, e gli ulteriori beni giuridici quali l’incolumità individuale e la salute, nonché la tranquillità psichica e la riservatezza dell’individuo, posto che ai fini della configurazione del reato è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità, dell’equilibrio psicologico della vittima[11]. In conseguenza di quanto sopra, la finalità perseguita dal legislatore nel 2009 sarebbe stata, dunque, quella di tutelare un soggetto da tutti quei comportamenti che ne condizionino pesantemente la vita e la tranquillità personale, procurando ansie, preoccupazioni e paure, con il fine di garantire alla personalità dell’individuo l’isolamento da influenze perturbatrici[12]. Inoltre, l’abitualità e la reiterazione necessaria delle condotte, rileva anche ai fini della procedibilità di tale reato, con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste intessere oltre i sei mesi previsti per la sua proposizione dal verificarsi dell’evento criminoso, così come previsto dal quarto comma dell’art. 612-bis c.p., rispetto alla prima o alle precedenti condotte, la querela estende la sua efficacia anche alle condotte pregresse. Allo stesso modo, al fine della prescrizione di tale fattispecie di reato, il termine decorre dal compimento dell’ultimo atto antigiuridico, in tal modo coincidendo il momento della consumazione delittuosa con la cessazione dell’abitualità[13].

In conclusione dunque la relazione esistente tra l’autore delle molestie e la vittima può essere estremamente varia. Infatti, i due soggetti possono già conoscersi, oppure possono essere perfetti estranei l’uno per l’altro. Anche le condotte ed i modi di agire intrusivi e ripetuti che si configurano come molestie possono essere notevolmente differenziati da caso a caso: il dato che accomuna i comportamenti posti in essere è quindi dato dalla fonte di disagio e disturbo quanto mai concreta e reale che colpisce, nel corso della vita, una considerevole fetta di popolazione (dal 2 al 15%).

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Note

[1] Cfr. Cass. Pen., n. 8744/2018.

[2] Cfr. Cass., Sez. Un., 21 marzo 2013, n. 7042.

[3] Cfr. Cass. Pen., n. 17082/2015.

[4] Cfr. Cass. Pen., 11 febbraio 2014, n. 6384.

[5] Cfr. Corte Cost., n. 172/2014; Cass. Pen., nn. 46331/2013; 6417/2010.

[6] Cfr. Cass. Pen., n. 35790/2018.

[7] Cfr. Trib. Monza, 15 giugno 2016, n. 1129.

[8] Cfr. Cass. Pen., 7 aprile 2015, n. 24322.

[9] Cfr. Cass. Pen., nn. 23530/2018; 14200/2018.

[10] Sul tema delle misure di prevenzione v., ex multis: PELISSERO, I destinatari della prevenzione praeter delictum: la pericolosità da prevenire e la pericolosità da punire, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 439 ss.; ORLANDI, La ‘fattispecie di pericolosità’. Presupposti di applicazione delle misure e tipologie soggettive nella prospettiva processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 470 ss.; BALBI, Le misure di prevenzione personali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 505 ss..

[11] Cfr. Cass. Pen., n. 8832/2011.

[12] Cfr. Cass. Pen., n. 25889/2013.

[13] Cfr. Cass. Pen., 11 gennaio 2018, n. 9956.

Giacomo Ottobre

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