Bene in comunione e limiti all’esecizio del potere di disposizione della res spettante al singolo comunista: il caso del politeama barese “petruzzelli” (Nota a sentenza Tribunale di Bari del 05.06.=22.09.2003, n.2007).

Redazione 03/02/04
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di Vito Amendolagine*
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La sentenza del Tribunale di Bari, prima sezione civile, Giudice unico dr. Giuseppe Rana, riportata per esteso in calce, riguarda una controversia avente ad oggetto la nota disputa vertente in merito all’individuazione dei confini concernenti l’esercizio del diritto a disporre di un determinato bene comune da parte del singolo comunista, che si era discostato dal volere della maggioranza regolarmente espressa nell’assemblea della comunione.
Da un’attenta lettura del testo della decisione, trattavasi di valutare attentamente la sussistenza o meno della competenza del giudicante adito ad entrare nel merito della “querelle” inerente per lo più la composizione di un evidente conflitto d’interessi creatosi tra la volontà del singolo comunista, rispetto a quella espressa dalla maggioranza dei singoli comproprietari del cespite immobiliare considerato.
A fine di meglio comprendere i termini della questione, credo sia utile riportare testualmente il riepilogo delle conclusioni rassegnate dalla difesa dell’attrice, cosìcome riportate nella decisione:
“dichiarare inesistente la delibera di cui è causa non rientrando nei poteri della proprietà privata il potere di non avvalersi dei finanziamenti ordinari ex DPR 386 del 1994;
dichiarare inesistente la delibera in quanto la maggioranza non aveva il potere di impedire l’esercizio del diritto e delle facoltà ad esso connesse agli altri partecipanti;
in via subordinata, dichiarare nulla la delibera per contrasto con i principi di ordine pubblico e con le disposizioni che determinano i modi di godimento della proprietà per assicurarne la funzione sociale;
in ogni caso, dichiarare che la delibera era produttiva di danni, da liquidarsi in separata sede e, conseguentemente, condannarsi i convenuti in solido alla rifusione degli stessi in prosieguo di giudizio”.
A questo punto, entrando nel vivo della questione, mi sembra doveroso prendere atto che almeno in linea generale, la sentenza, sia più che condivisibile, prima ancora che nelle conlusioni, nello stesso procedimento logico-argomentativo seguito, se non altro, per aver preso in esame tutti i contrapposti rilievi addotti dalle parti, ed in particolare, per aver focalizzato l’attenzione sull’unico punto “dolente” dell’intera controversia, costituito (come accennato innanzi) dall’individuazione compiuta dell’estensione dei limiti del potere del singolo comunista sulla res. (Sul punto, cfr. quanto affermato testualmente dal Giudicante: “…Orbene, tutta l’impostazione difensiva di parte attrice, come corretta e precisata in corso di causa, ruota attorno al concetto, senza dubbio suggestivo, che le speciali caratteristiche dell’immobile, soggetto ad un particolare status pubblicistico, consentirebbero l’esercizio del potere del singolo condomino di adottare certe iniziative in vista della ricostruzione, senza che gli altri proprietari abbiano il potere di vietarlo o comunque di interferire validamente con le determinazioni del condomino di minoranza”…).
Orbene, – dopo aver passato al “setaccio” tutte le eccezioni diverse da quella ut supra considerata, tra le quali rientrano quelle di spiccata natura processuale, concernente l’esistenza di un presunto difetto di legittimazione di talune parti, e l’ammissibilità o meno della stessa domanda proposta dall’attrice anche nei confronti di un soggetto chiaramente estraneo alla comunione – il Tribunale, delineandone analiticamente le ragioni, ha concluso per l’inevitabile rigetto di tutte le domande proposte dall’attrice (sia in via principale che subordinata).
Stante il pacifico carattere “assorbente” della questione posta dall’attrice in via principale, (individuazione dei confini e limiti dell’esercizio unilaterale da parte del singolo comunista del potere dispositivo sulla res comune) e, per ragioni di rispetto di quella che oserei definire un’economia sostanziale nella circoscrizione dell’intero thema trattato, mutuando l’analoga terminologia adoperata usualmente negli schemi giudiziari di chiara matrice processual-civilistica, ritengo opportuno glissare ogni ulteriore aspetto della controversia, sia perché appunto assorbito dall’esame di quello testè citato, sia perché avente rilievo e significato del tutto marginale e secondario nella risoluzione della diaspora.
Venendo finalmente al “dunque”, credo possa definirsi “condivisibile” sotto ogni aspetto quanto affermato in proposito dal Tribunale circa il carattere “dominicale” dell’immobile, la cui connotazione, è sempre stata di esclusiva natura privatistica, e, giammai pubblicistica, come peraltro può evincersi tra le righe della stessa difesa articolata dall’istante (del resto, se così non fosse, non si sarebbe neppure posto il problema, quantomeno nei medesimi termini e ragioni esposte nell’atto introduttivo del giudizio). (cfr. su tale punto, il passo della sentenza nel quale si legge: “Orbene, è pacifico che la proprietà del teatro è sempre stata privata e che l’esercizio dell’azienda teatrale è stato sempre demandato a gestori estranei alla famiglia secondo convenzioni privatistiche (da ultimo al noto P. F.) e senza alcun vincolo”).
Quindi, il Tribunale ha inevitabilmente preso atto di quella che è l’incontrovertibile natura del Politeama barese, la cui sola eccezionale importanza – beninteso, dal punto di vista prettamente artistico e storico – ha suscitato l’immediato interesse delle Istituzioni nazionali e locali, in un’ottica protesa a reperire un’intesa soddisfacente sia per la Proprietà (privata) dell’immobile sia per gli interessi della stessa collettività, limitatamente alla considerazione dell’aspetto volto a consentire la conservazione nel tempo delsuddetto “contenitore” dell’immenso valore culturale, storico ed artistico di cui è portatore, anche in considerazione dell’”ospitata” azienda teatrale locale.
Da tali considerazioni, emerge palese come nessuna rilevanza possa legittimamente attribuirsi al “generico statuto pubblicistico cui è soggetto il teatro” che, come esattamente rilevato dal giudicante, “non sembra implicare in alcun modo, nonostante gli apprezzabili sforzi della difesa di parte attrice, una qualche significativa deviazione dagli schemi del diritto comune.
“Ciò avuto riguardo ad un ordinamento costituzionale, come quello italiano, in cui è la legge a stabilire le limitazioni al diritto di proprietà (art. 42, 2° comma, Cost.)”.
In particolare, da tale ultimo inciso traspare l’essenza finalistica del tema trattato, sul quale si rende opportuna una chiarificazione.
Infatti, con riferimento alla definizione riguardante la destinazione impressa ad un determinato bene giuridico, appare opportuno il richiamo all’art. 42, comma 2°, della Costituzione, citando il pensiero di un’illustre Autore, al fine di meglio comprendere la portata del principio di diritto espresso nella sentenza.
“La nozione di cose che possono formare oggetto di diritti non è data dalla autonomia di porzioni materiali o di utilità economiche rispetto al reale: le possibilità di isolare o di separare porzioni della realtà materiale o di configurare autonome utilità economiche sono presupposte per applicare la disciplina. Ciò che conta è la qualificazione giuridica delle situazioni di cui le cose possono formare oggetto, la quale non è evidentemente riconducibile al mero riconoscimento di una signoria affermata su cose idonee a soddisfare bisogni umani. Infatti è banale osservare che il contenuto delle situazioni soggettive private non consiste mai in un’interesse assolutamente egoistico: tutti gli interessi sono selezionati e tipizzati dall’ordinamento, non dal soggetto che afferma di esserne il portatore. Tutto il diritto privato, cioè l’intero ordine degli interessi cosiddetti privati e dei rapporti tra di essi, riposa su di una formula ideologico-normativa che ha sicura natura pubblicistica. Non è dunque evidentemente possibile configurare la nozione di cosa in senso giuridico in base alla rilevanza materiale o economica che alla cosa è data dal soggetto che afferma di essersene appropriato e di volersene servire per soddisfare i propri bisogni, senza supporre che l’ordinamento riconosce, seleziona e tipizza con una sorta di norma fondamentale in bianco tale comportamento. (cfr. I beni in Generale, sez.I, cap.1: Cose e ordinamento giuridico, pp. 9 e ss. di M. Costantino; in Trattato di Diritto Privato, vol.7, diretto da Pietro Rescigno, Utet, 1982).
Proseguendo, nell’excursus della stessa Fonte bibliografica sopra citata, del medesimo Autore, (cfr. il cap.2 Beni e ordinamento giuridico, pp.10) del quale, riporto il seguente passo: “Va rilevato, innanzitutto, che la disposizione dell’art. 810 c.c. per la portata generalissima che le viene attribuita, dovrebbe designare tutti i beni, privati o pubblici che siano. Ma, le cose che possono formare oggetto di diritti e che sono beni pubblici, al pari di quelle che sono beni privati, non si prestano ad essere configurate né quali porzioni della realtà materiale, né per la loro funzione economica.
Appare chiaro, invece, che la qualificazione giuridica di determinate porzioni della realtà materiale come beni pubblici dipende dalle valutazioni che l’ordinamento compie della misura di realizzazione di determinate funzioni dello Stato (o delle Regioni, delle Province, dei Comuni); e che la qualificazione giuridica di determinate porzioni della realtà materiale come beni privati dipende dalla valutazione che l’ordinamento compie della misura di realizzazione di determinate situazioni soggettive, considerate meritevoli di tutela giuridica”.
Quindi, in definitiva, il Tribunale si è limitato ad “applicare” – recependolo integralmente – “l’insegnamento” provenente dall’Autorevole fonte dottrinale citata, le cui conclusioni finali, risultano peraltro in evidente “sintonia” con il dettato costituzionale.
Premessa tale definizione sulla naura del bene, e, spostando il problema sull’ulteriore aspetto preso in esame dal Giudice barese circa l’esistenza di un potere giurisdizionale in merito alla verifica della correttezza (o meno) delle valutazioni di merito espresse dall’assemblea della comunione, come esaustivamente rilevato nella decisione:“va poi considerato che è noto che l’annullabilità in sede giudiziale di una delibera dell’assemblea dei condomini per ragioni di merito, attinenti all’opportunità ed alla convenienza della gestione del condominio, è configurabile solo nel caso di decisione viziata da eccesso di potere, cioè per un grave pregiudizio per la cosa comune (art. 1109, primo comma, n. 1, c.c.)”.
Appare allora evidente che, sulla scorta di quanto osservato dal Giudicante, il sindacato esercitabile dall’autorità giudiziaria in relazione alla legittimità (o meno) di una delibera assembleare sotto il profilo dell’addotto “eccesso di potere” non potrebbe comunque estendersi fino ad esaminare “nel merito” il giudizio insito nella stessa valutazione espressa circa la convenienza e l’opportunità manifestata con la stessa delibera, ma “soltanto la causa del provvedimento adottato, in quanto essa sia o non falsamente deviata dal suo normale modo di essere e quindi se la delibera sia o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell’assemblea” (cfr. Cassazione Civile, sez. II, 5 novembre 1990, n. 10611, Renzo c. Pierri, in Giust. civ. Mass. 1990, fasc. 11, citata nella sentenza).
In buona sostanza, l’eventuale controllo giudiziario deve vertere sulla correttezza del procedimento attraverso il quale si determina l’espressione della volontà, e, non alle stesse ragioni che hanno concorso a determinarne l’esistenza, poiché, in tale ultima ipotesi,si arriverebbe ad una radicale sostituzione (o forse dovremmo dire soppressione) della volontà espressa dall’organo deliberante (assemblea della comunione).
E, conseguentemente, il risultato finale, determinatosi attraverso la votazione, deve costituire l’emanazione conforme del modello legale precostituito per conseguirlo.
Anche tale apparente contrasto, sembra potersi pervenire alla conclusione che non possano sussistere altri ragionevoli dubbi interpretativi differenti rispetto alla statuizione volta a considerare che la delibera assembleare dei comunisti costituenti la maggioranza della comproprietà dell’immobile, è stata presa nell’assoluto rispetto delle norme di diritto vigenti nel nostro Ordinamento, tra le quali, rientrano quelle racchiuse negli artt. 1105 e 1109 c.c..
Peraltro, ad analoga conclusione – sia pure nei limiti imposti dal rispetto formale e sostanziale del rito sommario adottato in concreto – si era già pervenuti al termine della fase cautelare afferente ai ricorsi proposti dalla stessa attrice (entrambi rigettati, anche all’esito del successivo giudizio di reclamo).
Infatti, già nella sede cautelare, emergeva a piene mani, come, da uno scrupoloso esame delle disposizioni vigenti in tema di comunione, quest’ultime prevedono espressamente che l’esercizio del potere di amministrazione della “res comune” compete in condizioni paritetiche a tutti i comunisti, i quali pur potendo attivarsi autonomamente nel compimento di singoli atti di gestione (a tutela dell’integrità della res comune, e dei diritti inerenti alla stessa), devono comunque rispettare (sottostandone alle relative volizioni) il consenso espresso dalla maggioranza dei comproprietari dell’immobile (cfr. Cassazione Civile, sez. III, 29 agosto 1995, n. 9113, in Giust. Civ. 1995, 2618, citata nella decisione del Tribunale).

In ultima analisi, superata ogni questione circa una presunta natura pubblicistica dell’immobile, che comunque, non poteva neppure desumersi per effetto di un’autodefinizione artificiosa e strumentale della stessa, magari sulla scorta dei numerosi riconoscimenti conseguiti (questi sì caratterizzati da un’intrinseca valenza pubblicistica, per essere intimamente collegati all’importanza ed al prestigio acquisito dall’immobile nel corso del tempo, nel mondo della cultura e dell’arte, a livello nazionale ed internazionale) deve ragionavolmente guardarsi con favore al risultato del lungo percorso logico-giuridico seguito dal Tribunale, che, lungi dall’aver prestato ascolto a false chimere, su aspetti del tutto secondari e marginali rispetto alla questione dedotta in giudizio, ha preferito invece concentrare ogni sforzo interpretativo sull’accertamento dell’unico profilo meritevole di approfondimento giuridico, rispetto al quale, non sussiste alcun anelito vitale a favore della tesi ispirata ad una pretesa natura “pubblicistica” dell’”oggetto della discordia” finalizzata a privilegiare la preponderante volontà del singolo comunista.
Peraltro, come sopra esaminato, anche dal punto di vista del pensiero di origine prevalentemente dottrinale, – sintetizzato in poche righe, ma su una base volutamente di carattere “costituzionale”, ovvero la più ampia possibile, per consentire una scrupolosa indagine circa una corretta ed aperta distinzione tra res pubblica e privata – può aderirsi alle conclusioni rassegnate nella pronuncia, che, immune da vizi logici ed argomentativi, ha il merito di aver compiuto un’ulteriore passo in avanti nella ricerca (non comune) di un’equo contemperamento tra le contrapposte, ed anzi antitetiche posizioni assunte dalle parti, rispettivamente a tutela degli interessi del comproprietario, considerato uti singuli, ma, pur sempre “calato” nel contesto collettivo costituito dall’assemblea della comunione.
L’auspicio, è quindi quello di auspicare in futuro una maggiore cooperazione tra gli aventi diritto, ai fini della corretta e responsabile gestione del potere di Signoria sulla res comune ricadente nella disciplina del diritto privato, nel rispetto della volontà manifestata dalla maggioranza dell’assemblea della comunione.
Avvocato*

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Tribunale di Bari
Prima sezione
Giudice Unico dott. Giuseppe Rana
sentenza n.2007
OMISSIS
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione del 13.4.2000, M.N. Vittoria esponeva che, dopo la nota distruzione del Teatro Petruzzelli di Bari, l’esponente, nella sua qualità di comproprietaria per un quarto dell’immobile, aveva trasmesso il 4 novembre 1998 al Ministero competente ed agli enti locali uno schema di convenzione teso a definire le condizioni di fruibilità del teatro in vista della sua ricostruzione; che era sopravvenuto l’art. 4 della legge 15 dicembre 1998 n. 444, che disponeva un finanziamento di 16 miliardi di lire per la ricostruzione, peraltro insufficienti; che il 20 gennaio del 1999 l’istante aveva inviato alla Soprintendenza Beni AAAS della Puglia un invito all’attivazione delle procedure di accesso alle risorse ordinarie dello Stato (l. 1552 del 1961 e DPR 368/94) per la ricostruzione e riattivazione del teatro, adducendo di non avere la disponibilità dei fondi necessari; che in data 9 febbraio 1999 il Soprintendente aveva riscontrato tale nota comunicando che riteneve necessario che l’istanza fosse fatta propria dalle restanti proprietarie o almeno dalla maggioranza; che, con successiva nota del 7 aprile 1999, la stessa Amministrazione aveva comunque invitato la deducente a produrre capitolato speciale e computo metrico estimativo; che tale documentazione era stata depositata; che il 9 luglio del 1999 si era riunita l’assemblea della comproprietà, che, con il dissenso della deducente, aveva deliberato a maggioranza di non aderire all’istanza di attivazione delle risorse ordinarie e di non procedere a lavori urgenti; che, appresa la circostanza, il Soprintendente, con nota del 1 dicembre 1999, aveva comunicato la sospensione della procedura, stante il mancato assenso della maggioranza dei comproprietari; che nel frattempo questi ultimi avevano pubblicamente propalato ed avvalorato l’asserzione di aver vincolato la proprietaria di minoranza (odierna attrice) alle loro decisioni.
Tutto ciò premesso in punto di fatto, l’attrice denunciava la nullità della suddetta delibera, in quanto la maggioranza di una comproprietà di immobile (monumento nazionale) disastrato – nel quale si trova anche un’azienda teatrale – non aveva il potere di decidere di non eseguire i necessari lavori urgenti né di non chiedere l’attivazione delle procedure ordinarie di finanziamento; lamentava che la delibera in questione costituiva, oltre che atto emulativo nei suoi confronti, fatto illecito produttivo di gravi danni in quanto di fatto paralizzava la ricostruzione dell’immobile e la ripresa dell’attività aziendale, atteso anche che nessuna delle comproprietarie aveva le necessarie disponibilità finanziarie e che la legge speciale aveva stanziato fondi insufficienti; che l’atteggiamento pubblicamente assunto dalle altre comproprietarie dopo la nota assemblea aveva di fatto condizionato sia il Soprintendente (che aveva sospeso le procedure) sia l’Amministrazione comunale (che aveva sospeso le trattative in corso); che il ritardo perdurante nella ricostruzione costituiva fonte sia di danno emergente sia di lucro cessante per l’istante, trattandosi di immobile nel quale era ospitata un’avviata azienda teatrale; tutto ciò premesso, citava M.N. Maria, M.N. Teresa, M.N. Chiara, M.N. Mariarosalba, M.N. Stefania, M. Nunziata e G. Mario (in qualità di marito di Teresa) innanzi a questo tribunale per sentir dichiarare la nullità della delibera di cui sopra; dichiarare che tale delibera, unitamente alle pubbliche dichiarazione conseguite, costituisce illecito doloso o almeno colposo, suscettibile di produrre lesione consistente in danno emergente e lucro cessante; condannarsi i convenuti in solido, secondo il rispettivo grado di colpa, al risarcimento del danno, con liquidazione in separata sede; disporre infine, con sentenza costitutiva, gli effetti del consenso alla attivazione della procedura di finanziamento ordinario ed all’esecuzione dei lavori urgenti, in quanto atti dovuti nel pubblico e privato interesse; il tutto con vittoria di spese.
L’attrice proponeva contestualmente istanza di provvedimento di urgenza in corso di causa.
Fissata l’udienza per la discussione dell’istanza cautelare, con comparsa del 25.5.2000 si costituivano i convenuti, i quali contestavano la domanda ed eccepivano che si erano attivati in tutti i modi possibili, sin dai giorni successivi all’incendio, per attivare la ricostruzione, come risultava dalle numerose istanze alle PP.AA. che producevano; che in realtà, più che sulla ricostruzione in sé, vi era divergenza tra l’attrice e i convenuti sulle modalità della ricostruzione stessa e per la precisione sulle modalità di reperimento dei finanziamenti; che la maggioranza era orientata nel voler ricorrere alle procedure speciali di cui all’art. 4 della legge 444 del 1998, la quale prevedeva che:
Per le operazioni relative alla ricostruzione e alla rimessa in pristino del Teatro Petruzzelli di Bari, è concesso un contributo di lire 6 miliardi per l’anno 1998 e di lire 5 miliardi per ciascuno degli anni 1999 e 2000. Il destinatario del contributo è definito, anche con riferimento a soggetti di nuova costituzione ai sensi dell’art. 12 della legge 23 dicembre 1992, n. 498 e successive modificazioni ed integrazioni, con decreto del Ministro per i beni culturali e ambientali, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, previa intesa con il Comune di Bari.
Aggiungevano che la Soprintendenza, designata come destinatario del contributo, aveva indetto appalto pubblico per la scelta dei progettisti e delle imprese, con atto che era stato nelle more impugnato innanzi al giudice ammnistrativo da parte dell’attrice; che quest’ultima insisteva nel voler accedere alla procedura ordinaria di cui alla legge 1552 del 1961 e relativo regolamento di attuazione; che questa legge, però, non prevedeva alcun diritto al finanziamento, ma solo un interesse legittimo; che, anche ammesso che si fosse ottenuto il finanziamento per tale via, lo stesso avrebbe riguardato solo l’immobile e giammai l’azienda e in più avrebbe comportato per legge un vincolo permanente di fruibilità pubblica, che richiedeva il consenso unanime del comunisti; che la legge speciale invocata dai convenuti, invece, prevedeva un finanziamento certo e senza alcun vincolo; che la somma stanziata era effettivamente insufficiente ma che vi erano buone prospettive di un finanziamento integrativo che invece rischiavano di cadere, a giudizio della maggioranza, ove si fosse “provocato” il Governo con una diffida, suscettibile solo di pregiudicare il clima di collaborazione faticosamente raggiunto; che l’attrice, che non aveva impugnato in termini la delibera, era insorta contro di essa a distanza di quasi un anno; che in ogni caso l’assemblea dei comproprietari, in applicazione delle norme comuni sulla comunione, aveva fatto legittimo uso delle sue valutazioni di opportunità; che queste erano pacificamente insindacabili da parte del giudice e ben evidenziate nel verbale notarile di assemblea; che quindi non vi era stato alcun atto emulativo; che, peraltro, non era ammessa nella specie una pronuncia del giudice che sostituisse il consenso mancato della maggioranza, atteso che il dissenso era motivato da legittime e insindacabili valutazioni di opportunità e che certo non poteva applicarsi, neppure per analogia, l’art. 2932 c.c.; che, quanto ai lavori urgenti, l’assemblea aveva semplicente deciso di soprassedere a qualsivoglia assegnazione di appalto fintantoché non si fosse designato il soggetto previsto dall’art. 4 citato, come risultava del resto dal verbale; che del tutto estraneo ad eventuali responsabilità era l’avv. G., citato genericamente (e perciò in violazione degli artt. 163 e 164 c.p.c.) solo come consigliere della maggioranza e pertanto quale corresponsabile, a titolo imprecisato, dei presunti illeciti; la difesa convenuta contestava poi la domanda cautelare con specifiche argomentazioni. Tutto ciò premesso, chiedeva il rigetto della domanda di merito e dell’istanza cautelare, con vittoria di spese sia del cautelare sia del merito.
Con comparsa del 19.6.2000 si costituivano (OMISSIS) , i quale esponevano di aver elaborato, su incarico della famiglia M.N., numerosi progetti, ivi compreso quello definitivo e generale per il restauro e la funzionalità del teatro, regolarmente approvato dal Ministero competente; che il pagamento dei loro compensi era stato subordinato in via espressa alla concessione dell’effettivo finanziamento per il recupero del teatro; che il finanziamento di 16 miliardi di lire già concesso era insufficiente; che era interesse dei progettisti attivare ogni forma di finanziamento utile; tutto ciò premesso, dichiaravano di aderire alla domanda dell’attrice nella parte in cui tendeva a far dichiarare legittima la pretesa di accedere alla procedura ordinaria di finanziamento ed illegittima ogni contraria determinazione.
Con comparsa del 25.5.2000, interveniva in causa anche il Consorzio ….., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, il quale esponeva di essere un consorzio di imprese che era stato incaricato dalle comproprietarie (esclusa M.N. Teresa), in data 9.9.1994, di procedere ai primi interventi di urgente recupero e messa in sicurezza del teatro con fondi reperiti attraverso l’otto per mille e messi a disposizione dallo Stato; che, quale parte del successivo contratto di appalto del 30.6.1999, sottoscritto per la proprietà dalla sola Vittoria M.N., il consorzio si era offerto di anticipare la spesa occorrente per l’ultimazione del recupero, ove fosse stato ottimizzato l’utilizzo del successivo contributo straordinario di 16 miliardi di lire in vista del completamento; che l’interesse del consorzio in questa causa derivava dal fatto che con il primo contratto di appalto stipulato in data 9.9.1994 (di cui il secondo costituiva l’estensione), le appaltanti si erano impegnate ad attivare tutti i fondi necessari in tutte le sedi possibili, onde ottenere la remunerazione del consorzio nei limiti dei lavori convenuti e pattuiti, ed a privilegiare il consorzio stesso, in caso di eccedenza di fondi, nella commessa degli ulteriori lavori da effettuarsi; che pertanto la maggioranza delle comproprietarie aveva violato tale obbligo deliberando, nella nota assemblea, di non aderire alla iniziativa della attrice; che la maggioranza aveva poi pubblicizzato la sua volontà di spendere immediatamente i fondi disponibili (16 mld), reclutando con appositi bandi nuovi progettisti e nuove imprese; che, in definitiva, rifiutarsi di chiedere allo Stato di ottimizzare l’utilizzo del contributo straordinario di 16 miliardi di vecchie lire, procedendo a lavori a stralcio con nuovi progetti e nuove imprese, significava sprecare via l’esperienza ed il lavoro già profusi; tutto ciò premesso, aderiva alla domanda dell’attrice.
Discussa l’istanza cautelare, con ordinanza del 14.7.2000 il G.U. rigettava la medesima.
Proposta nuovamente istanza cautelare in corso di causa sulla base di fatti assunti come sopravvenuti, previo contraddittorio delle parti il G.U. dichiarava inammissibile l’istanza con ordinanza del 4.5.2001.
Entrambe le ordinanze erano confermate dal collegio in sede di reclamo proposto dall’attrice.
Acquisiti documenti, il G.U. riteneva la causa matura per la decisione e rinviava la stessa per la p.c.
All’udienza fissata, l’attrice concludeva per:
– dichiarare inesistente la delibera di cui è causa non rientrando nei poteri della proprietà privata il potere di non avvalersi dei finanziamenti ordinari ex DPR 386 del 1994;
– dichiarare inesistente la delibera in quanto la maggioranza non aveva il potere di impedire l’esercizio del diritto e delle facoltà ad esso connesse agli altri partecipanti;
– in via subordinata, dichiarare nulla la delibera per contrasto con i principi di ordine pubblico e con le disposizioni che determinano i modi di godimento della proprietà per assicurarne la funzione sociale;
– in ogni caso, dichiarare che la delibera era produttiva di danni, da liquidarsi in separata sede e, conseguentemente, condannarsi i convenuti in solido alla rifusione degli stessi in prosieguo di giudizio;
– il tutto con vittoria di spese e distrazione delle stesse.
– Gli interventori concludevano in conformità con le precedenti deduzioni e richieste.
Le parti convenute concludevano in conformità alle precedenti deduzioni, con istanza di distrazione delle spese. Denunciavano inoltre le “domande nuove o difformi ravvisabili nelle conclusioni oggi precisate”.
La causa veniva riservata per la decisione con assegnazione dei termini di legge.
Con ordinanza del 27.2.2003, il G.U. rilevava la mancata allegazione dell’originale della comparsa di intervento del Consorzio ….
Depositata, in copia e con il consenso delle parti, la comparsa di cui sopra, la causa era nuovamente riservata per la decisione senza assegnazione di ulteriori termini.
DIRITTO
Va preliminarmente ribadita la validità dell’atto introduttivo nella parte relativa alla domanda spiegata nei confronti dell’avv. G., essendosi, sia pure in via minimale, esposti sia il petitum sia la causa petendi ed essendosi così create le condizioni minime per il contraddittorio.
Nel merito, la domanda è infondata e va rigettata.
Va innanzitutto operata una ricognizione del thema decidendum.
Infatti, rispetto alle originarie conclusioni vi è stata in più, in sede di precisazione, la denuncia di inesistenza della delibera, denuncia la cui tardività risulta tempestivamente eccepita da parte convenuta.
L’eccezione di tardività è senz’altro fondata. Sebbene in generale si debba ritenere che l’inesistenza dell’atto (al pari della nullità) sia rilevabile di ufficio, va detto che tale regola va pur sempre contemperata con il principio dispositivo e con quello della domanda, come da giurisprudenza costante. In ogni caso, le ragioni del rigetto della domanda di nullità possono esere considerate assorbenti anche della questione di eventuale inesistenza.
Quanto invece ai capi di domanda non espressamente riproposti, si rileva soltanto che, essendo state precisate le conclusioni in modo specifico, le domande e le eccezioni non riproposte (peraltro nella specie non strettamente riconnesse con quelle specificatamente riproposte) debbono presumersi abbandonate o rinunciate. Rientra infatti nei poteri del difensore la rinuncia ad un singolo capo della domanda o la riduzione delle originarie domande (Cassazione civile, sez. II, 8 gennaio 2002, n. 140, D’Alessandro c. Ruzzin, in Giust. civ. Mass. 2002, 28).
Va poi rigettata l’eccezione di decadenza sollevata dalla difesa convenuta, atteso che è noto che la denuncia di nullità della delibera non è di per sé soggetta a termini.
Ebbene, tutto ciò premesso, si osserva che i fatti di causa sono pacifici: nella delibera impugnata (la cui copia è in atti) si decise, per la precisione, di “non aderire all’iniziativa dell’attrice”, tesa ad attivare i canali ordinari di finanziamento della ricostruzione.
L’attrice mostra di non ignorare che le regole di diritto comune in materia di comunione prevedono che l’amministrazione del bene in comproprietà spetta in condizioni di parità a tutti i comunisti, i quali sono anzi abilitati a gestire senza l’espresso consenso degli altri condomini, consenso che peraltro si presume. Di qui l’ampia e nota giurisprudenza in materia di locazione da parte di un singolo comproprietario di edificio in comunione o di azione di rilascio proposta dal singolo condomino (Cassazione civile, sez. III, 13 luglio 1999, n. 7416, Esposito c. Improta, in Giust. civ. Mass. 1999, 1630; Cassazione civile, sez. I, 8 aprile 1998, n. 3653, Stuetten c. Soc. A.T.A, in Giust. civ. Mass. 1998, 771). Tale paritario potere di gestione del singolo condomino incontra però sempre, nel diritto comune, un limite nel volere della maggioranza: Cassazione civile, sez. III, 29 agosto 1995, n. 9113, Ruzza c. Lo monaco, in Giust. civ. 1995, 2618.
Va poi considerato che è noto che l’annullabilità in sede giudiziale di una delibera dell’assemblea dei condomini per ragioni di merito, attinenti all’opportunità ed alla convenienza della gestione del condominio, è configurabile solo nel caso di decisione viziata da eccesso di potere, cioè per un grave pregiudizio per la cosa comune (art. 1109, primo comma, n. 1, c.c.).
La S.C. ha tuttavia chiarito che il riscontro esercitato dall’autorità giudiziaria sulla legittimità della delibera assembleare sotto il profilo dell’eccesso di potere non può mai riguardare il contenuto di convenienza e di opportunità della delibera, ma soltanto la causa del provvedimento adottato, in quanto essa sia o non falsamente deviata dal suo normale modo di essere e quindi se la delibera sia o meno il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell’assemblea (Cassazione civile, sez. II, 5 novembre 1990, n. 10611, Renzo c. Pierri, in Giust. civ. Mass. 1990, fasc. 11).
Orbene, tutta l’impostazione difensiva di parte attrice, come corretta e precisata in corso di causa, ruota attorno al concetto, senza dubbio suggestivo, che le speciali caratteristiche dell’immobile, soggetto ad un particolare status pubblicistico, consentirebbero (ed anzi renderebbero in qualche modo doveroso) l’esercizio del potere del singolo condomino di adottare certe iniziative in vista della ricostruzione, senza che gli altri proprietari abbiano il potere di vietarlo o comunque di interferire validamente con le determinazioni del condomino di minoranza.
L’immobile, nella prospettazione attorea, sarebbe di interesse pubblico in quanto dichiarato monumento nazionale sin dal 1957; in quanto ospitante un’azienda teatrale con lo status di teatro di tradizione ex legge n. 800 del 1967; in quanto regolato da convenzione di diritto pubblico con il Comune di Bari; in quanto nelle more del giudizio è stato oggetto di una scelta di tipo pubblicistico da parte della Amministrazione dei Beni culturali, volta alla ricostruzione del teatro previa progettazione e reperimento delle risorse. Di qui la conseguenza che la deliberazione in oggetto sarebbe in contrasto con la disciplina del bene e pertanto sarebbe inesistente o nulla e comunque illecita. In particolare, sarebbe illecita in quanto mirante a fruire di fondi pubblici senza assumere alcun vincolo sulla fruibilità del teatro (fatto vietato dalla legge) ed in quanto lesiva dell’interesse dell’attrice ad evere un teatro ripristinato e funzionante).
Orbene, è pacifico che la proprietà del teatro (caso unico in Italia) è sempre stata privata e che l’esercizio dell’azienda teatrale è stato sempre demandato a gestori estranei alla famiglia secondo convenzioni privatistiche (da ultimo al noto Pinto Ferdinando) e senza alcun vincolo.
Di qui, secondo la difesa di parte convenuta, la scelta di opportunità, insindacabile da parte del giudice, di attivare forme di finanziamento che non pregiudicassero lo statuto privatistico del teatro. In più, come si è detto, mentre la disponibilità del finanziamento straordinario (che costituiva un canala già attivo) era stata già parzialmente raggiunta e senza condizione alcuna, l’attivazione del contributo ordinario era tutt’altro che certa, in quanto condizionata ad una valutazione discrezionale. Inoltre, all’epoca dei fatti era interesse della famiglia mantenere aperto il costruttivo dialogo con il Governo così faticosamente instaurato, il quale doveva condurre ad ulteriori finanziamenti.
Orbene, non vi è dubbio che si tratta, nella specie, di motivazioni di opportunità delle quali, peraltro, è arduo individuare un carattere pregiudizievole per la cosa comune. Ne consegue che, ove si dovesse applicare il diritto comune (artt. 1105 e 1109 c.c.) la conclusione inevitabile sarebbe la validità della delibera.
In effetti, proprio a tale conclusione ritiene di pervenire questo giudice.
Il generico statuto pubblicistico cui è soggetto il teatro non sembra implicare in alcun modo, nonostante gli apprezzabili sforzi della difesa di parte attrice, una qualche significativa deviazione dagli schemi del diritto comune.
Ciò avuto riguardo ad un ordinamento costituzionale, come quello italiano, in cui è la legge a stabilire le limitazioni al diritto di proprietà (art. 42, 2° comma, Cost.).
Né vi è dubbio che le decisioni dei comproprietari in materia di amministrazione della cosa comune siano esplicazione delle prerogative dominicali.
Va peraltro sottolineato che è stata proprio la Soprintendenza a richiedere il consenso di tutti i condomini ritenendo insufficiente, ai fini dell’attivazione della procedura, l’istanza della sola proprietaria di minoranza. Tale decisione, per inciso, non è stata tempestivamente impugnata innanzi al giudice amministrativo ed è perciò da considerarsi definitivamente legittima.
Residua la questione della illiceità della delibera per lesione di eventuali diritti dell’attrice.
Illiceità che alla luce di quanto già detto va esclusa in radice, attesa soprattutto la ritenuta legittimità dell’esercizio dei poteri deliberativi di maggioranza.
D’altro canto, anche le pubbliche dichiarazioni seguite, secondo la prospettazione attrice, all’assemblea non costituirebbero, anche ove dimostrate, che il seguito naturale e lecito di scelte legittime.
Le spese di giudizio nei confronti dell’attrice, liquidate da dispositivo, seguono la soccombenza e vanno distratte in favore degli avv.ti Ascanio A. e Mario G., che si sono dichiarati anticipatari. Va concesso l’aumento degli onorari per la difesa di sei parti, nella misura del 20% ciascuna.
Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese nei confronti dei soggetti intervenuti, attesa la sngolarità della loro posizione nella complessa vicenda.
La presente sentenza è provvisoriamente esecutiva per legge.
P.Q.M.
Il Tribunale di Bari, prima sezione civile, in funzione di Giudice Unico, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta, con atto di citazione del 13.4.2000, da M.N. Vittoria nei confronti di M.N. Maria, M.N. Teresa, M.N. Chiara, M.N. Mariarosalba, M.N. Stefania, M. Nunziata e G. Mario, con l’intervento di (OMISSIS) e del Consorzio …., in persona del Suo Legale Rappresentante, così provvede:
1) rigetta la domanda;
2) condanna l’attrice alla rifusione delle spese delle fasi cautelari e del merito in favore degli antistatari avv.ti Ascanio A. e Mario G., che liquida in € 1745,61 per esborsi, 3594,65 per diritti e 19.000,00 per onorari, per complessivi € 24340,26, oltre RSG, IVA e CAP come per legge; dichiara compensate le spese nei confrontid egli interventori;
3) dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva.
05.06.2003
Il Giudice
Giuseppe Rana
Depositata in Cancelleria il 22.09.2003

Redazione

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