Autonomia differenziata: la consulta dichiara inammissibile il referendum

Si sono verificate tensioni dopo l’approvazione della riforma sull’autonomia differenziata, nonostante sia prevista dall’articolo 116 della Costituzione.

Dopo l’approvazione della riforma sull’autonomia differenziata, nonostante la stessa sia espressamente prevista dall’articolo 116 della Costituzione, si sono verificate tensioni anche tra gli stessi partiti della maggioranza. Inoltre, a seguito del ricorso presentato ai sensi dell’art. 127 Cost. da quattro Regioni governate dal centro-sinistra (Puglia, Toscana, Sardegna e Campania), la Corte costituzionale in data 14 novembre 2024 ha accolto in parte il gravame e ha sollecitato il Parlamento a modificare alcuni aspetti fondamentali del provvedimento ritenuti in contrasto con la Carta costituzionale. Ma nonostante tale decisione, la Corte di Cassazione, con ordinanza del 12 dicembre 2024, ha ritenuto ammissibile il referendum abrogativo presentato ai sensi dell’art. 75 della Costituzione, ponendo ulteriori dubbi e interrogativi sul percorso della legge in questione. Infine, la Corte Costituzionale, con ordinanza del 20 gennaio 2025, ha dichiarato inammissibile il referendum abrogativo ai sensi dell’art. 75 della Costituzione in quanto “l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari. Ciò pregiudica la possibilità di una scelta consapevole da parte dell’elettore”. Alla vicenda avevano dedicato l’articolo Autonomia differenziata: la Corte Costituzionale si pronuncia

Indice

1. Cenni sulla legge dell’Autonomia Differenziata


In data 19 giugno 2024, è stata approvata la legge  26 giugno 2024, n. 86 (Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione).[1]
La legge definisce i princìpi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e per la modifica e la revoca delle stesse, nonché le relative modalità procedurali di approvazione delle intese fra lo Stato e una Regione, nel rispetto delle prerogative e dei regolamenti parlamentari.[2]
Il provvedimento prevede un limite invalicabile all’applicazione della normativa de qua e statuisce che l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, relative a materie riferibili ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti equamente su tutto il territorio nazionale, è consentita subordinatamente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (LEP).[3]
Tali livelli indicano “la soglia costituzionalmente necessaria e costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi tali diritti su tutto il territorio nazionale e per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, per assicurare uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali e per favorire un’equa ed efficiente allocazione delle risorse e il pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti civili e sociali.”
A tale riguardo, l’articolo 4 stabilisce i principi per il trasferimento delle funzioni alle singole Regioni (concesso solo dopo la determinazione dei Lep e nei limiti delle risorse in legge di bilancio), senza i quali non vi potrà essere autonomia. La determinazione dei costi e dei fabbisogni standard avrà luogo dopo l’indagine della spesa storica dello Stato in ogni Regione nell’ultimo triennio.[4]
La legge, poi, attribuisce l’iniziativa alle Regioni, una volta sentiti gli enti locali e dispone che “Ogni Regione può chiedere più autonomia in una o più materie e le relative funzioni. Segue il negoziato tra il governo e la Regione per la definizione dell’intesa preliminare”.
Va anche sottolineato che il provvedimento normativo attribuisce un potere di veto al Presidente del Consiglio. Infatti, il comma 2 dell’articolo 2 della legge quadro sull’autonomia stabilisce che “Al fine di tutelare l’unità giuridica, nonché di indirizzo rispetto a politiche pubbliche prioritarie, il Presidente del Consiglio dei Ministri, anche su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie o dei ministri competenti per materia, può limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti di materie individuati dalla Regione nell’atto di iniziativa”.
La legge riguarda le 23 materie “concorrenti”,  e cioè: l’istruzione, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche; i rapporti internazionali delle Regioni con l’Ue; il commercio estero; la tutela e la sicurezza del lavoro; le professioni; la ricerca scientifica e tecnologica  e l’innovazione per i settori produttivi; la tutela della salute; l’alimentazione; l’ordinamento sportivo; la protezione civile; il governo del territorio; i porti e gli aeroporti civili; le grandi reti di trasporto e di navigazione; l’ordinamento della comunicazione; la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia; la previdenza complementare integrativa; il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e l’organizzazione di attività culturali; le casse di risparmio, le casse rurali aziende di credito a carattere regionale, gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Si tratta in prevalenza delle materie relative alla legislazione concorrente.[5]
Il provvedimento prevede anche tre fasi attuative. Nella prima le Regioni possono ottenere subito le funzioni relative a nove delle ventitré materie; per queste materie il Comitato per la fissazione dei LEP (CLEP) ha ritenuto che non vi fossero livelli essenziali delle prestazioni da garantire.
La seconda fase devolutiva si aprirà solo dopo che lo Stato avrà determinato i livelli essenziali relativi a funzioni LEP che non incidono sulla spesa storica, che cioè non richiedono nuove risorse economiche.
La terza fase, la più critica, riguarda le funzioni dove sono previsti i c.d. livelli essenziali delle prestazioni (LEP), dove cioè il passaggio avverrà se e quando saranno rinvenute le risorse necessarie.
Se dalla determinazione dei LEP deriveranno nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, si potrà procedere al trasferimento delle funzioni solo dopo i provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie coerenti con gli obiettivi programmati di finanza pubblica. 

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2. La sentenza della Corte costituzionale in data 14 novembre 2024 e l’ordinanza della Corte di Cassazione in data 12 dicembre 2024


La Corte costituzionale in data 3 dicembre 2024 ha pubblicato la sentenza  dello scorso 14 novembre relativa alla citata legge sull’autonomia differenziata n.86/2024, con la quale ha dichiarato illegittime parti sostanziali della riforma promossa dal governo per trasferire alle Regioni maggiori poteri e prerogative finora gestite dallo Stato centrale.[6]
La Corte ha preso in considerazione i ricorsi avanzati, ai sensi dell’art. 127 Cost., da quattro Consigli regionali guidati dal centrosinistra (Toscana, Puglia, Campania, Sardegna) e le deduzioni sollevate da altre tre Regioni di centrodestra (Piemonte, Veneto e Lombardia). Nell’introduzione della sentenza i giudici spiegano che il principio che sta alla base della riforma è previsto dalla Costituzione, e in particolare dall’articolo 116 modificato con la riforma del Titolo V nel 2001, cioè quello che dispone che la legge può attribuire alle Regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” rispetto a quelle già previste. La Corte però statuisce anche che questo concetto non va considerato come una “monade isolata”, cioè come un principio avulso dal resto della Costituzione stessa.
L’effettiva possibilità di assegnare maggiori poteri alle Regioni e di promuovere dunque il pluralismo istituzionale, per la Corte va comunque considerata nell’ambito di un ordinamento costituzionale che contempla la Repubblica come “una e indivisibile”. Pertanto, il rafforzamento dell’autonomia delle Regioni non deve mettere in discussione l’unità della nazione.
L’articolo 116 della Costituzione, scrive ancora la Corte, “richiede che il trasferimento riguardi specifiche funzioni, di natura legislativa e/o amministrativa, e sia basato su una ragionevole giustificazione, espressione di un’idonea istruttoria, alla stregua del principio di sussidiarietà”. E ciò in quanto il principio di sussidiarietà, spiega la Corte, “richiede che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato”; cioè impone di stabilire se sia più logico e funzionale che a erogare certi servizi siano gli enti locali o quelli centrali.
Poi la Corte costituzionale prende in esame la questione, altrettanto fondamentale, dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), cioè quella serie di servizi e funzioni che lo Stato deve offrire a tutti i suoi cittadini affinché vengano garantiti i diritti fondamentali in ogni area del Paese, assicurando anche l’uniformità delle prestazioni erogate.
Per la Corte, in ogni caso, questo processo prefigura nel complesso una violazione dell’articolo 76 della Costituzione, perché di fatto attribuisce al governo un potere eccessivamente ampio nell’emanare i decreti con cui stabilire i LEP e nel controllare che vengano rispettati. Allo stesso modo, la Corte ritiene illegittimo che il presidente del Consiglio possa intervenire con un proprio decreto (c.d. DPCM) per aggiornare i LEP e per individuare le risorse finanziarie necessarie a soddisfarli.[7]
Sempre a proposito dei LEP, la Corte di fatto preclude alle Regioni una strada che era stata finora percorsa da quei presidenti di Regione preoccupati di avviare il processo di trasferimento delle competenze. Con la sentenza della Corte questa distinzione perde valore e sulle nove materie stabilite i giudici hanno deciso che non si applica l’individuazione dei LEP solo se il trasferimento di competenze non riguarda prestazioni sui diritti civili e sociali.
L’autonomia, inoltre, deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini, in attuazione del principio di sussidiarietà. “Questo implica due corollari – spiega la Corte Costituzionale – da un lato, il trasferimento della funzione non dovrebbe aumentare la spesa pubblica ma dovrebbe o ridurla o mantenerla inalterata, nel quale ultimo caso la gestione più efficiente si tradurrà in un miglioramento del servizio; dall’altro lato, il criterio da seguire per finanziare le funzioni trasferite dovrebbe considerare il costo depurato dalle inefficienze”.
Per queste ragioni la Corte ha stabilito che per ciascuna richiesta delle Regioni vada fatta preliminarmente “un’istruttoria approfondita” e fondata su metodologie scientificamente valide.
Pertanto, la Corte ha statuito di non ritenere fondata “la questione di costituzionalità dell’intera legge sull’autonomia differenziata”, ma di considerare illegittime specifiche disposizioni della legge che riguardano alcuni aspetti centrali del provvedimento, rimarcando la centralità del Parlamento.[8]
Successivamente, con un‘ordinanza emessa in data 12 dicembre 2024, l’Ufficio Centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione ha dichiarato legittima, da un punto di vista formale, la consultazione popolare che, dopo aver raccolto oltre 553mila firme a fronte delle 500mila necessarie, mira a cancellare la citata legge 86 del 26 giugno 2024.[9]
In precedenza erano state presentate due diverse richieste referendarie. La prima, presentata da cinque Regioni (Campania, Emilia-Romagna, Toscana, Sardegna e Puglia), chiedeva di cancellare solo alcune parti della legge. La seconda, promossa dal comitato referendario che ha raccolto le sottoscrizioni necessarie, puntava invece all‘abrogazione totale del provvedimento. La Suprema Corte ha respinto quella delle citate Regioni perché le stesse parti della legge erano già state dichiarate illegittime dalla Consulta il 14 novembre scorso; ha invece dato via libera alla richiesta di abrogazione totale, specificando che “il quesito deve avere corso pur dopo la pronuncia numero 192/2024 della Corte Costituzionale”.

3. L’ordinanza della Consulta in data 20 gennaio 2025


La Corte costituzionale, con ordinanza in camera di consiglio del 20 gennaio 2025, ha deciso il giudizio sull’ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo sulla menzionata legge n.86/2024. In attesa del deposito della sentenza, la Corte ha ritenuto inammissibile il quesito referendario sulla stessa legge, come modificata dalla sua sentenza n. 192 del 2024.
 In questa sede, i giudici costituzionali hanno valutato, tra l’altro, se i quesiti ledono la libertà di voto dell’elettore garantita dall’art. 48 della Costituzione. Non è stato preso in considerazione dai giudici invece una censura sollevata dal governo e, cioè, se il referendum rispetti i vincoli imposti dalla Costituzione. Infatti, secondo l’articolo 75 del testo costituzionale, non si può andare a votare per abrogare una serie di leggi: “Le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. L’autonomia differenziata coinvolge, infatti, anche materie tributarie, ma solo in modo marginale.
La Corte ha, infatti, rilevato che l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari. Ciò pregiudica la possibilità di una scelta consapevole da parte dell’elettore. Il referendum verrebbe ad avere una portata che ne altera la funzione, risolvendosi in una scelta sull’autonomia differenziata, come tale, e in definitiva sull’art. 116, terzo comma, della Costituzione; e ciò non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale.[10]
Per completezza di indagine, si rileva che è stata accolta la richiesta di referendum abrogativo denominata “Cittadinanza italiana”: Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana.  
La Corte, inoltre, ha dato via libera anche ai quattro quesiti sul lavoro proposti dalla Cgil. Nel primo si chiede l’abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti del Jobs act. In particolare, si vuole cancellare le norme sui licenziamenti che consentono alle imprese di non reintegrare una lavoratrice o un lavoratore licenziata/o in modo illegittimo nel caso in cui sia stato assunto dopo il 2015. Il testo prevedeva la richiesta di referendum abrogativo denominata “Contratto di lavoro a tutele crescenti – disciplina dei licenziamenti illegittimi”.
Il secondo quesito riguarda la cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti nelle piccole imprese (richiesta di referendum abrogativo denominata “Piccole imprese – Licenziamenti e relativa indennità). L’obiettivo è innalzare le tutele per chi lavora in aziende con meno di quindici dipendenti eliminando il limite massimo di sei mensilità all’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato.
 Il terzo quesito, poi, punta all’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine (richiesta di referendum abrogativo denominata “Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi).
Infine, l’ultimo quesito riguarda l’esclusione della responsabilità solidale di committente, appaltante e subappaltante negli infortuni sul lavoro. In particolare, con il referendum si vogliono abrogare le norme che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro negli appalti, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante (richiesta di referendum abrogativo denominata “Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”.[11]

4. Conclusioni


La preoccupazione più rilevante che pone la legge esame, come evidenziato dalla stessa Consulta, riguarda la definizione dei LEP e la copertura finanziaria che potrebbe comportare il trattenimento delle risorse delle Regioni senza un effettivo concorso del governo nazionale.
In merito al finanziamento dei LEP, secondo la Commissione bilaterale per le questioni regionali, la cifra da impiegare non sarebbe esorbitante. Si calcola, infatti, che approssimativamente l’applicazione dei LEP potrebbe costare dai 15 ai 20 miliardi, somma suscettibile di variazioni perché, al momento, non sono ancora stati definiti con esattezza i criteri e le risorse aggiuntive.
Allo stato, però, risulta con certezza solo che, con le leggi di Bilancio del 2021 e 2022, il Parlamento ha stanziato fondi ulteriori destinati ai Comuni e finalizzati al miglioramento di alcuni servizi di particolare importanza: i servizi sociali, gli asili nido e il trasporto degli studenti con disabilità. A questi livelli sono associati dei livelli obiettivo da raggiungere nell’offerta dei servizi, ovvero i LEP e gli obbiettivi di servizio. Inoltre, gli obiettivi minimi devono essere garantiti in ciascuno dei circa 600 Ambiti Territoriali Sociali (ATS) in cui sono raggruppati i Comuni italiani.
Il raggiungimento dei LEP avverrà in modo graduale iniziando dai Comuni con un livello di servizio inferiore al 28% dei posti e a questo scopo sono state stanziate risorse che crescono di anno in anno: dai 120 milioni di euro per il 2022 sino a 1,1 miliardi annui a decorrere dal 2027.
Si osserva in proposito che nella media degli ATS di ciascuna macroarea nel 2020 la quota di posti autorizzati raggiungeva il valore obiettivo solo al Centro Italia, mentre era inferiore di circa 5 punti percentuali al Nord e di oltre 20 punti percentuali nel Mezzogiorno. Di conseguenza, le maggiori risorse dei LEP dovrebbero essere spese in favore del Sud.[12]
Inoltre, dalle audizioni della citata Commissione, che sta effettuando ispezioni in tutta Italia, è emerso anche il timore che, consegnando maggiori poteri alle Regioni si finisca per creare piccoli Stati indipendenti, con regole diverse, che potrebbero influire negativamente sulla capacità di attrarre investimenti privati dall’estero. Tutelare una corretta definizione dei LEP è quindi la sfida irrinunciabile per non consentire una reale divisione della nostra Nazione.
 A tale proposito l’intendimento del governo è quello di presentare un disegno di legge ad hoc da presentare alle Camere e che recepisca le criticità rilevate dalla Corte. Non si può sottacere, però, che con una ulteriore riformulazione dei LEP si possano ripresentare anche i distinguo e i dubbi all’interno della stessa maggioranza e dei presidenti di Regione.
È stata, poi, sottolineata dalla stessa Commissione un’altra criticità legata all’insufficienza delle infrastrutture sul territorio che incide sulla rete dei trasporti e complica la garanzia dei servizi essenziali.
Sul piano giuridico il comunicato della Corte sottolinea come il quesito sia stato dichiarato illegittimo perché manca di chiarezza e viene sottolineato tale aspetto perché nella sua giurisprudenza la Consulta ha sempre sostenuto che, in caso di referendum, l’elettore debba essere aiutato a comprendere situazioni il più possibile chiare ed evidenti. In questo caso la scelta non sarebbe stata consapevole, ma resa più complicata, anche perché la “legge Calderoli” è stata stravolta dal recente pronunciamento della Consulta e i suoi punti chiave modificati con la richiesta dell’intervento del legislatore su sette profili sostanziali. Dunque, l’elettore sarebbe stato chiamato ad esprimersi non più su quella originaria, ma sulla legge come è stata modificata dalla pronuncia della Corte.
Inoltre, la motivazione fornita dalla Corte costituzionale riguarda anche il requisito dell’omogeneità dei quesiti referendari stabilito implicitamente dai giudici nel corso degli anni; infatti, in passato la Consulta ha sempre dichiarato inammissibili i quesiti che costringevano gli elettori a esprimere un unico voto su più questioni. È questo anche il caso del referendum sull’autonomia differenziata, dal momento che la legge affronta materie diverse tra loro; oltre a stabilire il percorso istituzionale e i principi in base ai quali le Regioni possono chiedere maggiore autonomia, la norma stabilisce che questo può avvenire solo dopo che sono stati determinati i cosiddetti “livelli essenziali delle prestazioni” (LEP) e fissa la durata degli accordi tra lo Stato e le Regioni stesse.
Bisogna, altresì, considerare che il referendum è uno strumento di democrazia diretta: il popolo si pronuncia per sostituire il Parlamento quando vi è un’inerzia del potere legislativo che vuole mantenere una legge; a quel punto interviene l’elettorato tramite l’azione referendaria. Il referendum è infatti uno strumento oppositivo e straordinario che nella fattispecie in esame sarebbe stato utilizzato contro una norma, quella sull’autonomia differenziata, che non è più quella originaria scritta dal Parlamento e che per di più la Corte ha svuotato nella sua essenza, disinnescandone la pericolosità e rendendola non più dannosa. Secondo questa interpretazione la legge “Calderoli” sarebbe un “simulacro”, una pagina morta che non avrebbe più richiesto un procedimento rivoluzionario come quello referendario. Come ha correttamente evidenziato la Corte nel comunicato stampa il quesito referendario non avrebbe più riguardato la legge sull’Autonomia Differenziata, ma lo stesso art. 116 della Costituzione che, come detto, “non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale”.[13]
In conclusione, si ritiene che la decisione della Corte Costituzionale sia pienamente condivisibile, considerato altresì che la legge sull’autonomia differenziata, dopo l’adeguamento alla sentenza della Corte Costituzionale del 14 novembre 2024, dovrebbe essere necessariamente modificata dal legislatore.
Infine, si osserva anche che, nonostante il parere contrario di alcuni esponenti di governo, anche a seguito della dichiarazione di inammissibilità del referendum, una nuova consultazione referendaria potrebbe essere riproposta in conseguenza della nuova legge approvata sulla base dei rilievi della Corte Costituzionale in quanto non si può escludere apriori che la successiva normativa possa contenere ulteriori profili di illegittimità costituzionale.

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Note


[1] P. Gentilucci, Il disegno di legge sull’autonomia differenziata, in Diritto.it del 26 febbraio 2023.
[2] P. Gentilucci, Autonomia differenziata: una riforma contrastata, in Diritto.it del 24 giugno 2024.
[3] Redazione, Autonomia differenziata, Calderoli: è nel programma. Fdi rilancia il presidenzialismo, in Il sole 24 ore del 18 novembre 2022.
[4] Redazione, Cosa prevede l’Autonomia differenziata, dai Lep ai tempi di attuazione, in Policy maker del 19 giugno 2024
[5] L. Biarella, Autonomia Differenziata: ok al disegno di legge, cit.
[6] Redazione, La sentenza della Corte costituzionale sull’autonomia è più dura di quel che si pensava, in il Post del 5 dicembre 2024.
[7] Redazione, Autonomia differenziata: cosa dicono le motivazioni della Corte Costituzionale, in SKY TG 24 del 5 novembre 2024.
[8]Redazione, La Corte costituzionale ha detto che la legge sull’autonomia differenziata è in parte  illegittima, in il Post del 14 novembre 2024.
[9]P. Gentilucci, Autonomia differenziata: via libera al referendum per l’abrogazione, in Diritto.it del 7 gennaio 2025, pp.1-14.
[10] Corte Costituzionale, comunicato stampa del 20 gennaio 2025.
[11] Redazione, I cinque referendum approvati dalla Consulta, ANSA del 20 gennaio 2.
[12] V. Dam., “Andiamo avanti con il progetto” Ma servono tra i 15 e i 20 miliardi, in Il Quotidiano di Puglia del 21 gennaio 2025.
[13] G. Martella, Il “no” è un intervento pacificatore Evitata una spaccatura del Paese”, in Il quotidiano di Puglia del 21 gennaio 2025.

Prof. Paolo Gentilucci

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