Violenza sessuale: attendibilità della persona offesa, induzione e minor gravità

La sentenza della Corte di Cassazione n. 33334/2024 si sofferma sull’attendibilità in violenza sessuale delle dichiarazioni della persona offesa.

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La sentenza della Corte di Cassazione n. 33334/2024, oggetto del presente commento, si sofferma sull’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa poste alla base del giudizio di colpevolezza e quindi di una sentenza di condanna, sulla nozione di induzione a compiere atti sessuali ed infine sul riconoscimento dell’attenuante della minore gravità. Per approfondire questi reati, abbiamo pubblicato il volume Abusi e violenza domestica – Il nuovo Codice rosso e le opportunità di difesa, disponibile su Shop Maggioli e su Amazon.

Indice

1. Il fatto


Tra il 2014 ed il 2017, l’imputato, insegnante privato di musica della persona offesa, indusse il suo allievo, all’epoca del primo abuso ancora minorenne, a subire atti sessuali. In particolare, il primo episodio avvenne nel 2014: il minore si era fermato a dormire a casa dell’insegnante con il quale aveva un legame molto stretto al punto tale da consideralo come il padre che non aveva avuto. Al suo risveglio, il minore si accorse che l’insegnante gli aveva infilato la mano sotto il pigiama e gli stava toccando il pene, salvo poi ritrarla alla richiesta di spiegazioni del ragazzo. In questa occasione l’imputato aveva rassicurato l’allievo dicendogli che si trattava di un gesto dimostrativo.
Nel corso degli anni, il rapporto tra l’insegante e l’allievo si fece ancora più intenso.
Il secondo episodio avvenne a distanza di anni, nel 2017: il ragazzo, fermatosi nuovamente a dormire a casa dell’insegnate, al risveglio notò che l’imputato gli aveva abbassato i pantaloni e gli stava massaggiando la zona del pube, sostenendo che vi fossero dei noduli; il ragazzo fermò il suo insegante e si rimise a dormire.
Poco dopo questo episodio, il ragazzo, turbato da sogni a sfondo sessuale e dopo aver visto un film, realizzò di aver subito molestie sessuali, iniziò un percorso di terapia e sporse querela.
Per i fatti sopra descritti l’imputato è stato condannato in primo e secondo grado per il reato continuato di violenza sessuale per aver indotto la persona offesa a subire atti sessuali, abusando delle sue condizioni di inferiorità psichica e fisica.
Avverso la sentenza di condanna emessa dalla corte d’appello, che ha confermato la sentenza di primo grado seppur riducendo la pena e diminuendo la provvisionale a favore delle parti civili. Per approfondire questi reati, abbiamo pubblicato il volume Abusi e violenza domestica – Il nuovo Codice rosso e le opportunità di difesa, disponibile su Shop Maggioli e su Amazon.

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2. Il ricorso per cassazione


L’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo tre motivi di impugnazione.
Con il primo motivo la difesa dell’imputato ha censurato la valutazione di attendibilità della persona offesa. Questa, infatti, avrebbe denunciato i fatti solo diversi anni dopo che erano avvenuti ed a seguito di un percorso di psicoterapia che non avrebbe portato a nessuna esperienza di reminiscenza inconscia ma solo ad un’interpretazione dei fatti accaduti ed alla volontà di condividerli con la madre e la fidanzata.
È stata poi contestata l’affermazione della psicoterapeuta secondo la quale la persona offesa aveva un ottimo livello cognitivo, in quanto tale affermazione non sarebbe stata supportata da alcuno strumento psicometrico. Infine, la scarsa attendibilità della persona offesa sarebbe stata acclarata anche dal fatto che sarebbe inverosimile che dal 2014 al 2017 – anni in cui si collocano i due abusi – non ve ne siano stati altri. A ciò si aggiunga che gli abusi sarebbero avvenuti al risveglio della persona offesa, la quale, accortasi di quanto accaduto, subito dopo sarebbe ricaduta nel sonno profondo, una volta rassicurato dall’insegnante sull’accaduto. Ma ciò sarebbe impossibile in quanto la scienza insegna che si alternano fasi del sonno leggero a fasi del sonno profondo e che l’ultima fase del sonno è quella leggera talché sarebbe impossibile che una volta sveglio, il ragazzo sia ricaduto nel sonno. Per tali motivi la difesa aveva chiesto la rinnovazione dell’istruzione in appello.
Con il secondo motivo la difesa ha dedotto l’erronea qualificazione del fatto in quanto la persona offesa era ben capace di autodeterminarsi e non vi sarebbe stata nessuna persuasione da parte dell’insegnante. In altri termini, non vi sarebbe stata nessuna condizione di inferiorità tale da viziare il consenso.
Infine, il terzo motivo di impugnazione: la difesa lamenta il mancato riconoscimento da parte dei giudici di merito dell’attenuante della minor gravità. Tra il 2014 ed il 2017 vi sarebbero stati infatti solo due episodi di abusi, a distanza di anni uno dall’altro, a fronte di una frequentazione assidua.

3. La decisione della Corte


La corte di Cassazione, con una sentenza in linea con il suo indirizzo interpretativo rispetto alle tre doglianze sollevate, ha dichiarato il ricorso infondato in quanto i motivi di impugnazione proponevano di fatto una diversa ricostruzione del fatto e del materiale probatorio.
In particolare, ai fini della credibilità ed attendibilità della persona offesa, la Cassazione ha evidenziato che i giudici di merito hanno dato rilievo al fatto che in sede di sommarie informazioni prima, in sede di incidente probatorio poi, la persona offesa ha confermato i fatti; fatti che sono stati corroborati anche dalle dichiarazioni della madre, della fidanzata e della psicoterapeuta. Le dichiarazioni rese dalla vittima erano poi precise e costanti, prive di enfatizzazioni o rancore. Pertanto, correttamente nei giudizi di merito è stato ritenuto che la persona offesa fosse credibile ed attendibile; secondo la Cassazione è dunque infondata la doglianza della mancata rinnovazione dell’istruttoria in appello, posto che, stante la presunzione di completezza dell’istruttoria in primo grado, la rinnovazione dell’istruttoria in appello è istituto eccezionale a cui si può far ricorso qualora il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti, come anche chiarito recentemente dalle Sezioni Unite del 2020.

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4. Il reato di violenza sessuale


Per quanto concerne il terzo motivo di ricorso relativo alla qualificazione giuridica del fatto,  il reato di violenza sessuale, introdotto con la L. n. 66/1996, è disciplinato dall’art. 609-bis c.p. e tutela la libertà sessuale, intesa come libertà di autodeterminarsi in ordine alla propria sfera sessuale e non già come attinente alla moralità pubblica ad al buon costume, come nella versione originaria.
La norma individua due condotte mediante le quali può essere compiuta la violenza sessuale: la violenza sessuale per costrizione, realizzata mediante violenza o minaccia od abuso di autorità (comma 1) e la violenza sessuale per induzione (comma 2), attuta mediante l’abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa o mediante inganno, per essersi l’agente sostituito ad altra persona.
Si tratta quindi di un reato a condotta vincolata: per integrare il reato di violenza sessuale non è sufficiente il mancato consenso – che deve perdurare per tutto l’atto sessuale – della persona offesa all’atto sessuale, ma è necessario che l’atto sessuale avvenga per costrizione ovvero induzione. Molteplici sono le proposte di riforma per incentrare il reato de quo sulla mancanza di consenso della vittima e non più sulla violenza o minaccia ed incriminare così qualsiasi condotta posta in essere senza il consenso della persona offesa.

5. La violenza sessuale nel caso concreto


Nel caso all’esame della Corte sono state contestate ed integrate entrambe le ipotesi.
Si deve infatti ritenere integrata la violenza sessuale per costrizione in quanto gli atti posti in essere dall’imputato erano connotati da una repentinità ed in un contesto – il ragazzo infatti stava dormendo – tali da non lasciare margine alcuno alla persona offesa per prestare un valido consenso.
Ed è altresì integrata la violenza sessuale per induzione dal momento che l’imputato ha abusato non solo della propria posizione di preminenza derivante dal fatto di essere l’insegnate della persona offesa ma anche del particolare rapporto che vi era tra i due. Fondamentale nel caso di specie per riconoscere la sussistenza dell’induzione mediante l’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica è la ricostruzione del particolare rapporto che legava l’imputato e la persona offesa. Il legame era infatti particolarmente intenso: l’imputato era l’insegante della persona offesa da quando questa aveva sette anni, le lezioni era molto assidue, fino a quattro a settimana, era frequente che il ragazzo si fermasse a casa dell’insegnate a dormire ed in lui la persona offesa vedeva il padre che non aveva avuto. Palese, dunque, la persona offesa versasse in una condizione di inferiorità psichica rispetto all’imputato.
Del resto, per costante e condivisibile giurisprudenza, l’induzione a compiere o subire atti sessuali si realizza quando l’agente istiga o convince la persona offesa, con un’opera di persuasione non necessariamente subdola o sottile, ad aderire ad atti sessuali a cui diversamente non avrebbe consentito. La condizione di inferiorità inoltre prescinde da fenomeni di patologia mentale essendo sufficiente che la vittima versi in condizioni intellettive e spirituali di minore resistenza all’altrui opera di suggestione o coazione (Cass. pen. n. 31776/2022).
Nessun dubbio, poi, che gli atti posti in essere dall’insegnate – massaggio della zona del pube e toccamento del pube – siano atti sessuali. Per costante giurisprudenza, infatti, per atto sessuale deve intendersi qualsiasi manomissione del corpo altrui coinvolgente la corporeità sessuale. In tal senso, anche un bacio (Cass. pen. n. 43423/2022), un abbraccio o una carezza possono integrare, a seconda del contesto, un atto sessuale.
Per quanto concerne infine il mancato riconoscimento dell’attenuante (ad effetto speciale) della minor gravità, disciplinata dal comma 3 dell’art. 609-bis c.p., la giurisprudenza è costante nell’affermare che si deve avere riguardo ad una valutazione globale del fatto, tenuto conto dei mezzi, delle modalità esecutive e del grado di coercizione della vittima. Ebbene, nel caso di specie, sebbene nell’arco di tre anni – dal 2014 al 2017 – vi siano stati unicamente due episodi, come rilevato dalla difesa, non si può non considerare che la persona offesa, nutriva particolare fiducia nell’imputato, gli abusi sono stati perpetrati in circostanze particolari e, una volta realizzato di aver subito abusi sessuali, ha avuto difficoltà nelle relazioni interpersonali, soprattutto con la fidanzata, al punto che l’ha lasciata ed ha dovuto intraprendere un percorso di psicoterapia per rielaborare l’accaduto.

6. Alcune considerazioni


Non sfugge che anche prima facie il reato di violenza sessuale si configura come valutabile – molto più di altre fattispecie – in maniera caso-specifica.
È una di quelle ipotesi in cui tre elementi: la vittima, il presunto colpevole e la situazione concreta “logistica” e psicologica soggettiva, sono oltremodo rilevanti, escludendo quasi a priori ogni sorta di analogia.
È evidente che ciò rileva con maggiore evidenza in quei rapporti speciali che costituiscono la posizione di educatore e discente: rapporti che si svolgono in età delicate del processo evolutivo e con posizioni di particolare rilevanza verticale nei ruoli.
In questo caso avere una molteplicità di educatori (insegnanti, genitori, allenatori sportivi, insegnanti privati) può costituire una occasione essenziale di comprensione e discernimento tra un rapporto “sano” o quanto meno normale e uno che non lo è.
Senza entrare nel merito della vicenda – per quanto possa apparire “strano” – è del tutto normale che un comportamento possa essere qualificato propriamente come violenza anche dopo anni alla luce di una corretta qualificazione anche attraverso il confronto e il paragone.
Soprattutto tenendo conto dell’età della vittima, è imprescindibile tenere conto di un caleidoscopio di fattori nella valutazione delle sue affermazioni, ben oltre la descrizione dei fatti e delle dinamiche e delle circostanze: estrazione sociale, estrazione culturale, maturità, capacità espressiva e discorsiva, condizione psicologica, maturità nella consapevolezza sessuale e comportamentale oltre che delle dinamiche sociali e relazionali.
Tutti elementi che richiamano in primo piano il ruolo degli psicologi nell’assistenza della vittima nella qualificazione del fatto ricordato e narrato, che tuttavia non può mai essere sostitutiva della determinazione del giudice. Non può quindi considerarsi delegata al tecnico la funzione di acquisire la testimonianza, ma solo di indicarne elementi quanto più possibilmente oggettivi della attendibilità.
Del resto è bene ricordare la differenze funzione e ruolo: il giudice deve qualificare la condotta contraria alla legge da parte del presunto agente, lo psicologo deve avere a cuore l’attenzione e l’interesse della vittima ed accompagnarla in un percorso di ricostruzione che possa essere un momento di riabilitazione non di nuova violenza.
Qualora questi ruoli entrino in conflitto è prioritario per lo psicologo l’interesse della vittima, anche laddove il suo intervento risultante limitante la ricerca della verità giudiziaria.
Del resto, la stessa verità giudiziaria verte su elementi differenti di valutazione: ciò che è vissuto come violenza paradossalmente potrebbe non esserlo, così come non tutto ciò che non è esplicitato come tale potrebbe esserlo giuridicamente.
Purtroppo tali considerazioni sono simili ad altri profili rilevanti in sede penale: la capacità di intendere e di volere, la consapevolezza, la “malattia mentale” ai fini della capacità processuale e nella determinazione delle misure di sicurezza.
Troppo spesso i giudici delegano la determinazione di tali fattori in toto su medici che in realtà – come detto – hanno un altro ruolo e anche un altro scopo professionale.

Michele Di Salvo

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