Atp obbligatorio in materia previdenziale ed assistenziale: non è configurabile una “omologa parziale” (Cass. civ. Sez. VI, 5 febbraio 2019, n. 3377)

Redazione 09/07/19
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di Mattia Polizzi*

* Dottorando di ricerca presso l’Università degli Studi dell’Insubria

Sommario

1. Massima

2. Vicenda e contenuto della decisione

3. Questioni

4. L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio in materia di previdenza ed assistenza. Generalità introduttive

5. (segue) Il procedimento

6. Spunti di riflessione

1. Massima

Qualora nel corso di un accertamento tecnico preventivo obbligatorio instaurato ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c. emergano contestazioni, anche solo parziali, alla ctu, l’emissione del decreto di omologa è preclusa, sicché al giudice adito in opposizione (ai sensi del comma sesto della disposizione citata) è rimesso l’accertamento dell’intera res controversa sottesa alla pretesa fatta valere nel giudizio e non solo dei motivi oggetto di opposizione.

(Cass. civ. Sez. VI, 5 febbraio 2019, n. 3377)

2. Vicenda e contenuto della decisione

Nel corso di un accertamento tecnico preventivo obbligatorio (d’ora in avanti anche: atpo) radicato ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c. il giudice riconosceva la sussistenza dei requisiti sanitari per l’indennità di accompagnamento di cui alla l. 11 febbraio 1980, n. 18, con decorrenza a partire da una certa data.

La ricorrente esperiva l’opposizione di cui all’art. 445 bis, comma 6, c.p.c., al fine di ottenere la retrodatazione dell’accertamento al momento della domanda amministrativa. Il ricorso veniva rigettato anche in considerazione della indisponibilità della parte istante ad una nuova visita.

Costei propone pertanto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. In primo luogo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., in considerazione del fatto che l’atto di opposizione all’atpo aveva ad oggetto «unicamente il riconoscimento della invalidità nel periodo compreso tra la domanda amministrativa e la data […] indicata dal consulente dell’accertamento tecnico preventivo come momento di decorrenza del requisito sanitario». Con il secondo motivo si denunciava la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 445 bis c.p.c.: partendo dalla premessa che il giudizio di opposizione ad atpo sia «circoscritto dagli elementi di contestazione proposti dalla parte dissenziente» la ricorrente denuncia il fatto che il giudice non si sia pronunciato sulla «parte non contestata della consulenza tecnica depositata nella prima fase del giudizio», la quale «costituisce elemento non controverso della fase successiva, sul quale il giudicante è tenuto a pronunciarsi» (cfr. pag. 3 della pronuncia). Il terzo motivo ha per oggetto la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c.: la parte ricorrente deduce la nullità della sentenza per omissione o apparenza della motivazione, in quanto fondata unicamente sulla mancata disponibilità alla visita peritale. Con il quarto ed ultimo motivo si affermava l’omesso esame di un fatto decisivo del giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dalla relazione peritale depositata nella fase di accertamento tecnico preventivo.

La Suprema Corte, dopo averne esaminato congiuntamente i motivi, accoglie il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando ad altro giudice del tribunale a quo.

Il ragionamento posto alla base della decisione della Cassazione, muove dalla osservazione che alla luce del meccanismo di cui all’art. 445 bis c.p.c. la contestazione delle conclusioni raggiunte dal consulente tecnico nel termine fissato – e sempre che al dissenso faccia seguito la rituale instaurazione del giudizio di cui al sesto comma della disposizione – comportano l’impossibilità per il giudice di emettere il decreto di omologa dell’accertamento sanitario. Ciò il ragione del disposto del quinto comma dell’art. 445 bis c.p.c., a norma del quale il decreto di omologa deve essere reso solo «in assenza di contestazione» ad opera delle parti (e sempre che il giudice non reputi di dover procedere alla rinnovazione delle indagini ovvero alla sostituzione del consulente, exart. 196 c.p.c.). Tale conclusione è da affermarsi non solo nel caso di totale dissenso rispetto all’elaborato peritale, ma anche qualora i motivi di contestazione investano solamente in parte la consulenza: dunque, è preclusa al giudice l’emissione di una “omologa parziale”. Quest’ultima, peraltro, non può trovare cittadinanza neppure nella fase successiva alla rituale introduzione del giudizio di opposizione di cui all’art. 445 bis c.p.c.: né nel corso del processo, che resta regolato dal rito del lavoro «senza alcuna previsione di omologa» (cfr. pag. 5 dell’ordinanza); né nel momento della sua definizione, che a norma dell’art. 445 bis, comma 7, c.p.c. si conclude con una sentenza inappellabile.

La pronuncia in nota afferma poi che in caso di contestazione il giudice del merito debba procedere con la disamina «per intero» delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa azionata in giudizio sicché a costui «è rimesso l’accertamento della intera res controversa e non soltanto la cognizione delle ragioni di contestazione» (cfr. pag. 5 dell’ordinanza).

3. Questioni

L’ordinanza della Cassazione prende posizione in merito alla configurabilità di una “omologa parziale” dell’atpo exart. 445 bis c.p.c., negandola recisamente. Peraltro, la decisione si esprime anche su di altri temi inerenti tale strumento processuale, quali la natura dell’istituto, la sua funzione, i compiti del giudice ed il rapporto con la successiva (ed eventuale) fase di cognizione, che consentono di trarre l’abbrivio per alcune considerazione di carattere generale sull’atpo; ciò anche in considerazione dei vari aspetti per così dire oscuri della materia, dei quali si tenterà di dar conto – pur se in maniera necessariamente sintetica – nei paragrafi che seguono.

4. L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio in materia di previdenza ed assistenza. Generalità introduttive

L’art. 445 bis c.p.c., rubricato «accertamento tecnico preventivo obbligatorio» è stato introdotto nell’impianto codicistico ad opera dell’art. 38, comma 1, lett. b), n. 1 d.l. 6 luglio 2011 n. 98, convertito in l. 15 giugno 2011, n. 111, all’intero del capo II, titolo IV, libro II del codice di rito[1].

La norma, applicabile a partire dal 1° gennaio 2012, appare ispirata – secondo la dottrina pressoché unanime – alle perenni esigenze deflattive sottese a numerosi nuovi istituti processuali nonché al risparmio per la spesa pubblica che ne è conseguenza. Per una autorevole (ma a quanto consta minoritaria) e condivisibile dottrina l’istituto de quo assolverebbe anche a finalità conciliative[2].

Il campo di applicazione della norma è decisamente esteso e ricomprende per espressa menzione contenuta nel primo allinea dell’art. 445 bis c.p.c. le controversie «in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222“; la dottrina ha sottolineato che tra queste materie debba ricomprendersi, pur se non espressamente prevista, anche quella della indennità di accompagnamento, considerato che tale beneficio – peraltro oggetto della vicenda processuale che ha originato la pronuncia dell’ordinanza in nota – può essere attribuito exl. 18/1980 agli invalidi civili totalmente inabili. Più in generale è opinione assai diffusa che siano ricomprese nel novero delle domanda in questione non solo tutte le controversie previdenziali, ma anche tutte quelle assistenziali. Tuttavia, dalle domande sottoposte ad atpo dovrebbero essere escluse quelle di accertamento negativo proposte dall’Ente previdenziale, nonché quelle che prescindono del tutto dal requisito sanitario poiché, opinando diversamente, l’istituto di cui all’art. 445 bis c.p.c. «piuttosto che avere portata deflattiva e di risparmio si tradurrebbe in un aggravio per il servizio della giustizia e per il bilancio pubblico»[3].

L’art. 445 bis c.p.c. dispone che la parte che intenda instaurare un giudizio nelle materie di cui supra debba obbligatoriamente procedere al preventivo esperimento di un accertamento tecnico preventivo, strutturato sul modello dell’art. 696 bis c.p.c., ma dal quale l’istituto processual-previdenziale si differenzia per plurime ragioni. Come evidenziato dalla dottrina, in primo luogo, è da escludersi in radice che l’art. 445 bis c.p.c. presenti finalità cautelari né è qui richiesto il requisito dell’urgenza, sicché il riferimento all’accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi deve intendersi come impropriamente effettuato[4]. Ed in effetti l’istituto previdenziale presenta solo delle assonanze con l’atp di cui all’art. 696 bis c.p.c.. In primo luogo può osservarsi che quest’ultimo ha per oggetto l’accertamento e la relativa determinazione «dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito», mentre l’art. 445 bis c.p.c. concerne, come si è detto, il solo requisito sanitario delle prestazioni previdenziali o assistenziali. Diverse sono inoltre le conseguenze nel caso in cui non sorgano contestazione in merito all’elaborato peritale, posto che da un lato l’art. 696 bis c.p.c. prevede che il giudice attribuisca (con decreto) al verbale efficacia di titolo esecutivo mentre dall’altro – come si vedrà meglio infra – l’art. 445 bis, comma 5, c.p.c., dispone che il giudice in assenza di contestazioni omologhi l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze della perizia. Lo stesso dicasi con riferimento alla mancata conciliazione: ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c. non vi sarà altro effetto che la possibilità di richiedere di acquisire l’elaborato peritale nel futuro giudizio di merito; per converso, come osservato in letteratura, l’ipotesi della mancata conciliazione non risulta nemmeno «assimilabile alla contestazione delle risultante di cui all’art. 445 bis posto che la mancata riuscita della conciliazione precede il deposito della relazione[5]. Sicché pare potersi affermare che il richiamo all’art. 696 bis c.p.c. debba essere inteso come effettuato ad un mero modus operandi, piuttosto che ad una categoria dogmatica; peraltro, è da ricordare che per espressa previsione normativa il richiamo alle norme in tema di atp a fini conciliativi è effettuato sotto espressa condizione di compatibilità.

L’esperimento dell’atpo è obbligatorio e costituisce condizione di procedibilità[6] della domanda, da rilevarsi, ai sensi secondo comma dell’art. 445 bis c.p.c., ad opera del convenuto a pena di decadenza ovvero in via officiosa dal giudice non oltre le prima udienza[7]; la disposizione procede affermando che, in caso di omesso esperimento ovvero nel caso in cui lo stesso sia stato iniziato e non ancora concluso, il giudice assegna alle parti un termine di quindici giorni per la presentazione dell’istanza ovvero per il suo proseguimento. In tale ultimo caso, peraltro, la dottrina ha suggerito che il termine di quindici giorni per la prosecuzione (e la conclusione) del procedimento dovrebbe essere inteso come ordinatorio, considerato che la parte si trova impegnata in una attività, quella della consulenza, «della quale non può essere onerata ad osservare i tempi»[8]. La soluzione pare da preferirsi anche alla luce del disposto dell’art. 152 c.p.c. in forza del quale, come noto, i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, salvo che diversamente sia disposto. Tale conclusione sembra inoltre da perseguire anche con riferimento alla natura del termine per provvedere (non alla prosecuzione, ma) alla instaurazione dell’atpo. In ogni caso, sebbene non espressamente previsto dalla norma, il processo deve essere sospeso e può essere riassunto «solo all’esito del procedimento di accertamento tecnico preventivo e sempre che quest’ultimo si sia concluso con la contestazione delle conclusioni del consulente sul requisito sanitario[9].

[1] Sul tema si v., anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici, Benassi, L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio nelle controversie di invalidità pensionabile, in Riv. dir. sic. soc., 2013, IV, pagg. 711 e ss.; Capurso, Madonia, L’accertamento tecnico preventivo nel processo previdenziale (art. 445 bis, codice di procedura civile), in www.lavoroprevidenza.com, 13 febbraio 2012, pagg. 1 e ss.; Carratta, La «semplificazione» dei riti e le nuove modifiche del processo civile, 2012, Torino pagg. 142 e ss.; Cinelli, Diritto della previdenza sociale, 2018, Torino, pagg. 304 e ss.; Cossignani, L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445 bis c.p.c., in Riv. dir. proc., 2013, III, pag. 629 ss.; de Angelis, art. 445 bis, in Carpi, Taruffo, Commentario breve al codice di procedura civile, 2018, Padova-Milano, pagg. 1879 e ss.; Gentile, La gestione dell’accertamento tecnico preventivo (Atp) previdenziale tra principi costituzionali e riproposizioni infrannuali, in Foro. it., 2015, II, I, pagg. 369 e ss.; Ianniruberto, Nuove regole (e nuovi problemi) per le controversie previdenziali ed assistenziali, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, III, pagg. 57 e ss.; Mandrioli, Carratta, Diritto processuale civile, III, 2017, Torino, pagg. 305 e ss.; Monteleone, Il recente art. 445 bis c.p.c. tra antinomie sistemiche e prospettive razionalizzanti, in Judicium, 23 luglio 2015, pagg. 1 e ss.; Persiani, D’Onghia, Fondamenti di diritto della previdenza sociale, 2018, Torino, pagg. 368 e ss.; Ricci, Processo e prassi nell’accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c.: un primo bilancio operativo, in Inf. prev., 2013, I-II, pagg. 69 e ss.; Salvati, A.t.p.o. in materia previdenziale nelle più recenti linee interpretative della Cassazione, in ilGiuslavorista.it, 4 settembre 2015, pagg. 1 e ss.

[2] Carratta, op. cit., pag. 143; Mandrioli, Carratta, op. cit., pag. 306.

[3] Per queste considerazioni cfr. de Angelis, op. cit., 1881. In giurisprudenza, in senso analogo, ma con diversa argomentazione, si v. Trib. Taranto, 22 maggio 2014.

[4] Cfr., ex pluris, Cossignani, op. cit., pagg. 631-633.

[5] de Angelis, op. cit., pag. 1880.

[6] E non di proponibilità (o ammissibilità) della domanda. Ciò, secondo la dottrina, anche «per sfuggire ad eventuali censure di incostituzionalità, tenuto conto del fatto che, ai fini del rispetto del diritto di accesso alla tutela giurisdizionale, la Consulta solitamente ha ritenuto sufficiente tale conformazione del condizionamento»: così Cossignani, op. cit., pag. 630, sub nota 3.

[7] Il meccanismo è analogo a quello previsto dall’art. 443 c.p.c. con riferimento al previo esperimento delle procedure amministrative.

[8] Così Ianniruberto, op. cit., pag. 76.

[9] Carratta, op. cit., pag. 143.

5. (segue) Il procedimento

Venendo ora ai profili più strettamente procedimentali, l’art. 445 bis, comma 1, c.p.c. dispone che l’istanza deve essere proposta al giudice territorialmente competente ai sensi dell’art. 444 c.p.c., ossia al tribunale in funzione di giudice del lavoro nella cui circoscrizione ha la residenza l’attore. L’originaria previsione del d.l. 98/2011, che faceva riferimento al tribunale del capoluogo di provincia ove risiede l’attore[10], è stata sostituita ad opera della legge di conversione del decreto. Nel procedimento trovano applicazione, per espresso rinvio da parte del primo allinea dell’art. 445 bis c.p.c., il disposto dell’art. 10, comma 6 bis, d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla l. 2 dicembre 2005, n. 248 (a sua volta modificato dall’art. 38 d.l. 98/2011) nonché il già citato art. 196 c.p.c. L’art. 10, comma 6 bis, d.l. 203/2005 dispone che qualora in un giudizio civile relativo a prestazioni sanitarie, previdenziali o assistenziali il giudice nomini un ctu, alle indagini assiste un medico legale dell’Ente previdenziale, su richiesta «del consulente nominato dal giudice, il quale provvede ad inviare, entro 15 giorni antecedenti l’inizio delle operazioni peritali, anche in via telematica, apposita comunicazione al direttore della sede provinciale dell’INPS competente o a suo delegato». Il riscontro di rivenuta di tale comunicazione deve essere allegato alla relazione peritale, a pena di nullità da rilevarsi anche d’ufficio dal giudice. Inoltre, il medico legale dell’ente «è autorizzato a partecipare alle operazioni peritali in deroga al comma primo dell’articolo 201 del codice di procedura civile».

Il terzo comma dell’art. 445 bis c.p.c. dispone che la richiesta di espletamento dell’atpo interrompe la prescrizione. Nonostante la mancata menzione, la dottrina reputa che l’istanza comporti anche l’impedimento della decadenza. La diversa conclusione, difatti, sarebbe foriera di gravi conseguenze per la parte istante, considerato che il sistema previdenziale ed assistenziale conosce plurime decadenze[11]; inoltre, tale opinione sarebbe in contrasto con la ratio deflattiva sottesa all’atpo, considerato che, come autorevolmente sostenuto in letteratura, la parte sarebbe obbligata ad instaurare contemporaneamente l’atpo e la domanda giudiziale, «non essendo certo che l’espletamento dell’accertamento preventivo possa sempre concludersi prima che scada il termine di decadenza»[12].

La domanda deve essere proposta con ricorso e la dottrina ha evidenziato la necessità di indicare, almeno nei suoi termini essenziali, la domanda “di merito” cui è strumentale l’accertamento preventivo, ossia il trattamento previdenziale o assistenziale che l’istante intende conseguire «se non si vuole che l’indagine stessa sia fatta a fini meramente esplorativi»[13].

Ai fini dell’ammissibilità del ricorso è necessario che il giudice accerti la sussistenza di alcuni elementi, anche se «trattandosi di procedimento preventivo obbligatorio, al giudice è demandata una cognizione assai ristretta»[14]. E così il tribunale dovrà vagliare la completezza dell’atto introduttivo, la sussistenza della propria competenza, la ricorrenza di una delle ipotesi per cui l’atpo è previsto, nonché la regolare presentazione delle domande amministrative exart. 443 c.p.c. e la tempestività del ricorso giudiziale, al fine di valutare l’utilità dell’accertamento stesso[15]. Anche per evitare eventuali usi distorti dell’atpo il giudice dovrebbe valutare anche, sotto il profilo dell’interesse ad agire, la futura utilità dell’accertamento medico in rapporto con la concessione del beneficio invocato[16].

Qualora tale verifica dovesse dare esito negativo il giudice dovrebbe dichiarare l’inammissibilità del ricorso. Avverso il provvedimento negativo la dottrina pare orientata nel senso di escludere la possibilità di esperire reclamo ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c., considerata la mancanza dei presupposti che hanno giustificato la dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 669 quaterdecies e 695 c.p.c. nella parte in cui non consentivano la reclamabilità del provvedimento di rigetto dell’istanza formulata per ottenere il provvedimento di istruzione preventiva “classica” di cui agli artt. 692 e 696 c.p.c.: ciò in considerazione del fatto che il procedimento exart. 445 bis c.p.c. non presenta alcuna funzione cautelare[17]. La giurisprudenza ha dal canto proprio affermato che né la eventuale ordinanza di inammissibilità né quella dichiarativa dell’estinzione della procedura hanno natura decisoria, sicché non sono ricorribili per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.[18].

Una volta ricevuta l’istanza il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti ed il termine perentorio per la sua notificazione, provvedendo alla nomina del ctu. Ai sensi del quarto comma dell’art. 445 bis c.p.c., terminate le operazioni peritali, il giudice provvede, con decreto da comunicare alle parti, a fissare un termine perentorio (in ogni caso non superiore a trenta giorni) entro il quale queste ultime devono dichiarare se intendano contestare la conclusioni del ctu, mediante un atto scritto da depositare in cancelleria.

A questo punto si aprono due scenari, disciplinati rispettivamente dal comma quinto e dai commi sesto e settimo.

La prima evenienza si ha nel caso in cui le parti reputino di non muovere contestazioni avverso l’elaborato peritale. In tale ipotesi il giudice, salvo che non ritenga di dover procedere exart. 196 c.p.c. al rinnovo delle indagini effettuate ovvero (sussistendo gravi motivi) alla sostituzione del consulente, provvede con decreto pronunciato fuori udienza entro trenta giorni dalla scadenza del termine previsto per le contestazioni ad omologare l’accertamento del requisito sanitario nonché alla pronuncia sulle spese. Il decreto di omologazione non ha efficacia esecutiva, considerato che da un lato manca una disposizione ad hoc e dall’altro né nel provvedimento né nella relazione peritale è possibile ravvisare l’esistenza di un accertamento su di un diritto, bensì del solo requisito sanitario[19]. Il decreto, inoltre, non è impugnabile né modificabile, nemmeno tramite ricorso per cassazione exart. 111 Cost., salvo che per la eventuale pronuncia sulle spese[20]; deve poi essere notificato all’Ente competente affinché quest’ultimo, verificati tutti gli ulteriori requisiti necessari per la concessione del beneficio previdenziale o assistenziale, provvede al pagamento delle prestazioni entro il termine di centoventi giorni.

L’ipotesi inversa si ha nell’evenienza in cui manchi l’accordo. In questo caso la parte che abbia dichiarato di contestare le conclusioni del ctu deve depositare presso lo stesso giudice, nel termine (espressamente qualificato come perentorio) di trenta giorni dalla formulazione della dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio, specificando – a pena di inammissibilità – i motivi della contestazione. Tali motivi possono inferire sia alle conclusioni tecnico-scientifiche alle quali è pervenuto il ctu sia sugli aspetti preliminari che sono stati oggetto della verifica giudiziale, «relativi ai presupposti processuali ed alle condizioni dell’azione»[21]. Il giudizio avrà per oggetto il diritto individuato nella domanda indicata nel ricorso exart. 445 bis c.p.c., posto che qualora si reputi diversamente (ad esempio nel senso che oggetto del giudizio sia il solo requisito sanitario oggetto delle operazioni peritali) si verterebbe in una ipotesi di accertamento su di un mero fatto e non su di una situazione giuridica soggettiva[22]. La sentenza che definisce il giudizio stesso non può essere soggetta ad appello.

[10] Secondo de Angelis, op. cit., pag. 1881, la previsione originaria deponeva in tal senso «probabilmente per agevolare la difesa dell’Inps“.

[11] Si pensi al termine decadenziale di sei mesi dalla comunicazione del provvedimento emanato in sede amministrativa di cui all’art. 43, comma 3, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in l. 24 novembre 2003, n. 326 in materia di invalidità e cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità ai fini del collocamento c.d. obbligatorio al lavoro. Cfr. Cossignani, op. cit., pagg. 633-634, il quale qualifica il silenzio del legislatore come una mera svista «pena la compressione ingiustificata dei diritti delle parti e un’evidente illegittimità costituzionale della disposizione per violazione dell’art. 24 Cost. ».

[12] Ianniruberto, op. cit., 66.

[13] Ianniruberto, op. cit., pag. 65. In senso analogo Cossignani, op. cit., pag. 635.

[14] Cossignani, op. cit., pag. 636.

[15] Così de Angelis, op. ult. loc. cit. In giurisprudenza si v. Cass. Civ., Sez. Lav., 27 aprile 2015, n. 8533.

[16] Cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., 27 aprile 2015, n. 8533, che parla di vera e propria «proiezione dell’interesse ad agire», in Diritto&Giustizia, 28 aprile 2015, con nota di Leverone, Accertamento tecnico preventivo obbligatorio per invalidità: interesse ad agire, requisiti di ammissibilità e limiti di utilizzo; Cfr. Monteleone, op. cit., pag. 5.

[17] Cossignani, op. cit., pagg. 636-637; Ianniruberto, op. cit., pagg. 71-73.

[18] Cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., 5 maggio 2015, n. 8932, in Foro it., 2015, VI-VIII, I, pagg. 2350 ss., con nota di Gentile, Altri tasselli e punti fermi nel mosaico dell’accertamento tecnico preventivo (atp) previdenziale; Cass. Civ., Sez. Lav., 7 marzo 2014, n. 5338.

[19] Cossignani, op. cit., pag. 643.

[20] Cass. Civ., Sez. Lav., 9 novembre 2016, n. 22271; Cass. Civ., 4 maggio 2015, n. 8878; Cass. Civ., Sez. VI, 17 marzo 2014, n. 6085. Contra Ianniruberto, op. cit., pagg. 71-72.

[21] de Angelis, op. ult. loc. cit.

[22] Cossignani, op. cit., pagg. 640-641; v. anche Carratta, op. cit., pag. 145.

6. Spunti di riflessione

Le sintetiche osservazioni testé svolte consentono di suggerire alcuni spunti di riflessione.

Con la pronuncia in nota, la Cassazione afferma che a fronte di una contestazione, anche se solo parziale, il giudice non può emettere il decreto di omologa, ma deve dar corso necessariamente al giudizio di opposizione. Ed invero, alla luce delle sintetiche osservazioni di cui sopra, non pare potersi dissentire da questa autorevole statuizione: in altri termini, non pare esservi spazio nell’ordinamento per una “omologa parziale”, ossia per una terza scelta tra la decisione di omologa e l’instaurazione del giudizio di opposizione.

In effetti, la formulazione letterale della norma appare – almeno sotto tale aspetto – piuttosto chiara nel delineare un meccanismo di tal genere, se solo si considera che ai sensi del quinto comma dell’art. 445 bis c.p.c. il decreto di omologa può (e deve) essere emanato solo «in assenza di contestazione».

Altre ragioni spingono in tal senso. Anche a prescindere dal dato testuale, una scelta rimessa al giudice, in una fase del giudizio caratterizzata peraltro da una p>a fortiori se si considera che le prestazioni oggetto di tali controversie risultano particolarmente delicate, in quanto legate alla tutela dei diritti di soggetti che si trovano, a vario titolo e con diverse sfumature, in una situazione di particolare fragilità: in altri termini, ci si troverebbe dinanzi ad una compressione del diritto di azione forse non giustificabile.

Certo, il rischio che il ricorrente contesti in maniera formalista e capziosa i risultati delle operazioni peritali, magari a fini solamente defatigatori, non può essere considerato come una evenienza peregrina.

Tuttavia, il pericolo di un utilizzo abusivo delle contestazioni potrebbe essere ridotto (o, comunque, sanzionato) dall’operare sinergico di diversi istituti generali. In primo luogo è da considerare che il giudizio di opposizione ha per oggetto, come si è visto, l’intera situazione giuridica soggettiva, sicché in tale sede la pretesa troverà una più compiuta cognizione. A ciò si aggiunga che l’art. 445 bis, comma 6, c.p.c. dispone che la parte debba provvedere nel proprio ricorso ad una enunciazione specifica dei motivi della contestazione: e ciò a pena di inammissibilità dell’opposizione. Come affermato dalla ordinanza in nota, peraltro, il giudice di questa fase, anche a prescindere dall’eventuale declaratoria di inammissibilità per insufficiente specificazione dei motivi, dovrà nel corso del giudizio «assicurare adeguato rilievo al principio di non-contestazione, sia in forza della previsione di cui all’articolo 115 cod.proc.civ. che in ragione della centralità attribuita dal comma sei dell’articolo 445 bis cod.proc.civ. ai motivi di contestazione» (pagg. 5-6 della decisione). Infine, un ulteriore strumento in grado (se correttamente adoperato) di disincentivare pratiche abusive non può non essere ravvisato nella condanna al pagamento delle spese processuali. E ciò anche nel processo previdenziale. Infatti, è vero che l’art. 152 disp. att. c.p.c. da un lato esonera la parte soccombente dal pagamento qualora quest’ultima sia titolare di un reddito inferiore a determinate soglie; ma è altresì vero, dall’altro lato, che la medesima disposizione espressamente afferma la decadenza dal beneficio in parola nel caso di responsabilità processuale aggravata exart. 96, comma 1, del codice di rito.

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